Trent’anni fa, i Punkreas incitavano a sfasciare il Quirinale e bruciare il Presidente, che all’epoca era Francesco Cossiga. «Non scriveremmo più una cosa del genere», dice il chitarrista Paolo detto Noyse. «Siamo cresciuti. Dico sempre che la coerenza non è rimanere uguali a se stessi, è rimanere fedeli a se stessi». Oggi i Punkreas viaggiano attorno ai 50 anni e suonano per i figli dei fan che nel 1990 pogavano sulla canzone che incitava alla rivolta e che s’intitolava Anarchia. Il 25 gennaio all’Alcatraz di Milano ripercorreranno 30 anni di carriera con vari ospiti tra cui Ministri, Modena City Ramblers, ‘O Zulù dei 99 Posse, Eva Poles dei Prozac+. Quello che fanno, che per comodità potremmo chiamare punk-pop, ha ancora senso? Lo abbiamo chiesto a Noyse.
Che senso ha andare a vedere i Punkreas nel 2020?
Siamo un’alternativa a quel che va per la maggiore. Quando abbiamo iniziato nel 1989 il primo punk italiano, quello del Virus per intenderci, era passato e non era ancora arrivata l’ondata degli Offspring e dei Green Day. In classifica andavano Lambada o il cantautorato tradizionale di Concato, Bennato, De Gregori.
Eravate degli ufo.
E siamo tornati ad esserlo. Ecco perché tanti giovani vengono a vederci, perché siamo un’alternativa all’indie, alla trap.
Ecco, chi viene a vedervi oggi?
Davanti ci sono i più giovani che pogano, si divertono come pazzi, salgono sul palco. A metà sala ci sono quelli che ogni tanto provano a venire avanti e devono tornare indietro per riprendere fiato. In fondo ci sono i nostri coetanei con la birra in mano e che talvolta hanno il figlio in prima fila. Non so come accada, ma è un miracolo.
E che cosa date a questi ragazzi, quelli delle prime file?
Oggi i giovani stanno peggio di come stavamo noi trent’anni fa. Gli hanno tolto tutto, persino la speranza. Vivono in una soluzione di precariato e d’instabilità costante. Non possono progettare un futuro. Noi diamo la possibilità di sfogarsi, di esprimere il dissenso, di tirare qualche calcio nel culo metaforico a chi li ha ficcati in questa situazione. Mi aspetterei di vedere i giovani che oggi prendono un microfono e urlano il proprio disagio e chiedono il rispetto dei propri diritti. Non lo fanno? Ci siamo noi a fare da supplenti.
Ma lo fate con linguaggio musicale superato dalla storia, no?
Forse negli ultimi anni lo è stato, ma oggi è diverso, abbiamo fatto il giro completo. Sentiamo una gran voglia di verità. Mettere il cavo nell’amplificatore, alzare il volume a manetta e suonare dal vivo ti dà un’emozione che ti arriva di più rispetto a una cosa fatta in modo artificiale, con l’elettronica.
Davvero credi che la musica fatta con strumenti diciamo così tradizionali sia vera e quella fatta al computer sia artificiale? Che un suono che esce da una chitarra sia reale e quello prodotto con un software sia in qualche modo falso?
No, però sono convinto che la nostra musica sia più tangibile, più sudata, più fisica. Più di pancia e meno di testa. Usiamo anche noi Logic per incidere i dischi e sappiamo che quando fai musica al computer è difficile farsi prendere dall’emotività. Ti devi sedere e pensare razionalmente alla struttura di un brano. È un processo cerebrale. Quando suoni basso, chitarra, batteria puoi farti trasportare da emozioni più immediate, istantanee. È la stessa differenza che c’è fra una diretta live su Instagram e un concerto visto sotto il palco.
E allora che cos’è punk oggi?
Forse è Junior Cally che va a Sanremo. O Achille Lauro che si sdraia sul palco dell’Ariston, o Young Signorino che canta con Capossela. C’è una parte della trap che ha contenuti misogini e sessisti e a noi non piace. Ma l’immediatezza dei testi, la narrativa presa dalla vita reale, il fottersene delle regole di comportamento e musicali è molto punk. Ma ve lo ricordate Joe Strummer con la maglia delle Brigate Rosse? La trap è una piccola controcultura generazionale. L’Auto-Tune è per la trap quel che la chitarra elettrica era per il punk. Con una bella differenza: i Sex Pistols attaccavano il potere, i rapper non lo fanno.
In dicembre avete fatto un breve tour instore chiamato ‘Raccontateci di… noi’. Che cos’è successo?
Abbiamo chiesto ai fan di raccontarci che cosa significano per loro i Punkreas. Sono venute fuori un sacco di storie divertenti. Come quella del tizio che ci ha ricordato un vecchio concerto al Rainbow di Milano. Era sold out e la gente rimasta fuori ha sfondato le porte usando i carrelli della spesa presi dal supermercato lì vicino. E sai chi è la persona che ha dato il via allo sfondamento? Il Cippa, il nostro cantante. Manco ce lo ricordavamo. Probabilmente i ragazzi si lamentavano, lui sarà uscito e lui avrà detto: ma sfondate, che vi frega.
Vivete di musica?
Sì, facendo sacrifici. Come tutti, con l’avvento di Internet vendiamo meno copie, ma ci salvano i concerti che sono molto seguiti. Teniamo duro. Lotterò coi denti per tenermi il privilegio di fare quel che mi piace. La soddisfazione non la puoi quantificare nel denaro che guadagni o in quanto sei famoso. Conta quanto sei felice.
Non pensi mai che cosa farai tra, chessò, vent’anni?
Mi capita, tanto più che sono padre di famiglia. Ma non ho mai pensato di mollare. Quando abbiamo cominciato non avevamo nessuna progettualità, avevamo tutti contro. Eppure ce l’abbiamo fatta. Seguire il proprio istinto e le proprie voglie è il modo migliore per vivere. Poi le soluzioni le trovi strada facendo.
Qual è la cosa più rock’n’roll che vi è capitata in tour?
Ce ne sono tante. Ricordo quando abbiamo suonato prima dei Rage Against the Machine all’Heineken Jammin’ Festival. La security maltrattava i ragazzi delle prime file. A questa cosa noi siamo particolarmente sensibili. Insomma, Ero sul palco e ho cercato di attirare l’attenzione di Zack de la Rocha che stava cantando: “Ehi Zack, look!”. Lui mi guardava, poi guardava giù e se ne fotteva. Nel frattempo il bassista dei Rage, Tim, ha messo giù lo strumento e si è lanciato contro la security. Gli sono andato dietro. A un certo punto vedo un’ombra gigantesca dietro di me. È il responsabile della sicurezza dei Rage che prende il bassista e lo porta in salvo. Mi giro e mi accorgo che ci siamo solo io e i buttafuori. Mi avrebbero ucciso. Con la forza della paura sono riuscito a saltare sul palco dell’Heineken da giù, che non è facilissimo, e rifugiarmi nel backstage. Il giorno dopo i giornali hanno titolato: “Il cantante e il bassista dei Rage Against the Machine si lanciano contro la sicurezza”. Non era il cantante, ero io.
E la cosa più bizzarra che hai visto in tour?
Ero nel backstage del Torino Traffic Festival del 2008, quando abbiamo suonato prima dei Sex Pistols.Ssono entrato in un tendone dove non dovevo entrare e ho visto una suora fare una puntura nel sedere a Johnny Rotten.