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Hania Rani ti fa sentire altrove

La pianista polacca è una delle star della neoclassica, il mix di minimalismo, ambient ed elettronica perfetto per placare le ansie contemporanee. Nel prossimo album indagherà «la realtà aperta all’irreale, alla magia, ad eventi inspiegabili». La nostra intervista

Foto: Marta Kacprzak

Le persone sono sedute su dei cubi che sembrano molto comodi, sono solo qualche decina, ascoltano in religioso silenzio. Le inquadrature si soffermano spesso sul volto di due giovani ragazze con gli occhi chiusi, una coppia over 50 in prima fila si tiene per mano. Al centro dello spazio c’è Hania Rani, camicia da lavoro blu, con la scritta “Ukraine” sulle spalle, fatta con quelli che sembrano tanti piccoli pezzi di nastro adesivo giallo. È qui che l’ho vista per la prima volta, poco più di un anno fa, in un video del suo live al Campus Pierre-et-Marie Curie, in occasione del Piano Day 2022.

Si muove tra le postazioni del set che avrei imparato a riconoscere negli altri video live da milioni di visualizzazioni: un piano verticale, un pianoforte a coda W. Hoffmann su cui è appoggiato un pad controller Akai, infine una postazione per i sintetizzatori: un Dave Smith Prophet 08 e un Nord Stage 4. Formano una piccola fortezza aperta solo da un lato, dove la musica defluisce verso il pubblico. «Ho introdotto i sintetizzatori da poco e questo mi ha permesso di espandere molto il mio sound. Ho una formazione classica, per cui mi piace suonare pochi strumenti ma conoscerli a fondo».

Hania Rani è un astro nascente della musica polacca, ha studiato presso la Scuola di musica Feliks Nowowiejski di Danzica e l’Università di Musica Fryderyk Chopin. È nata proprio a Danzica nel 1990, ha quindi superato da poco i trent’anni, ma è in giro dal 2015, quando ha debuttato da giovanissima con Biała Flaga, album composto a quattro mani insieme alla violoncellista e amica di lungo corso Dobrawa Czocher, con cui è tornata a firmare un album di nuovo nel 2021, Inner Symphonies. Il primo è in tutto e per tutto una suite classica, mentre il secondo si muove verso orizzonti di post-minimalismo ambient, pur mantenendo i connotati di quella che oggi definiamo musica neoclassica. Con queste stesse caratteristiche si potrebbero descrivere i primi lavori da solista, come l’esordio Esja del 2019, dieci tracce di piano solo puro, uscito per la Gondwana, etichetta indipendente inglese, con cui continua a collaborare tuttora.

«Non ho molte opinioni sulla scena musicale in cui vengo collocata e non ho niente contro il termine neoclassica. Spero che un giorno la mia musica sia abbastanza riconoscibile da essere considerata in quanto tale. Ci sono degli artisti che superano i limiti delle etichette e delle categorie di cui siamo circondati perché siamo pieni di informazioni, di contenuti, di cose più o meno rilevanti e più o meno reali». Da questa risposta capisco quello che sarà poi la musica a confermarmi.

Hania Rani è considerata a pieno titolo un’esponente della musica neoclassica, che io preferisco definire millennial classical, quella che va da Nils Frahm a Ólafur Arnalds, passando per Peter Broderick, Poppy Ackroyd, Dmitry Evgrafov, ovvero tutta quella scena che da una quindicina d’anni produce musica strumentale piano-centrica, scomodando spiriti guida come Philip Glass, Max Richter, John Cage, Ryuichi Sakamoto, Brian Eno, Harold Budd, ovvero artisti che in varie forme e attraverso differenti punti di vista hanno esplorato la musica nella loro forma più incontaminata: minimalismo, ambient, classica contemporanea. Tuttavia, l’obiettivo di Hania Rani è quello di andare oltre la musica neoclassica, che in questi anni ha certamente flirtato con il pop, pur rimanendo appannaggio di una nicchia di ascoltatori ormai relativamente giovani.

La verità è che prima ancora di diventare un genere di successo, la neoclassica è diventata un genere di prima necessità negli ultimi anni. È la colonna sonora calmante di questi anni angoscianti, di crisi perenne, di ansia e stress, è la musica che ascoltiamo in cuffia tanto per isolarci negli uffici quanto durante una seduta casalinga di yoga, è la musica che ci fa sentire altrove, lontano dalle città inquinate e carissime in cui viviamo. Non a caso durante la pandemia c’è stato un generale boom di ascolti, che ha coinvolto anche Hania Rani, nonostante in quel periodo fosse impossibile ascoltare musica dal vivo, che è probabilmente la forma di massima fruizione del suo sound e del suo immaginario.

«Suonare dal vivo è diverso da ogni altra cosa, è il modo migliore per connettere con i propri ascoltatori. Riesco a capire quali sono le persone che vengono per la prima volta, quelli che vengono da sempre. Essere in grado di fare le migliori performance sul palco, è uno degli aspetti più importanti del mio lavoro ed è ciò in cui mi impegno di più, c’è un’energia totalmente diversa, che mi fa stare bene, è il mio ambiente naturale. È la cosa più reale». Non a caso Hania Rani è in tour pressoché perenne ormai da anni, la nostra conversazione avviene proprio in un raro giorno di pausa tra una data e l’altra e continuerà così almeno fino al 2024, attraversando in lungo e in largo prima l’Europa e poi gli Stati Uniti (sarà in Italia fra pochi giorni: l’11 giugno all’Andersen Festival di Sestri Levante, il 6 luglio al Sexto N Plugged di Sesto al Reghena, il 7 luglio al Castello Sforzesco di Milano).

«In effetti sono un pochino stanca , ma anche molto felice e grata, stiamo visitando un sacco di posti per la prima volta, città, teatri. La cosa bella è che sto vedendo l’evoluzione di tutto questo, ho la possibilità di esibirmi in spazi sempre più grandi o con una storia magnifica alle spalle, mi fa capire che sto facendo le cose nel modo giusto e che continuo a crescere come artista».

La crescita come artista è evidente e non c’era bisogno dei live per scoprirlo, di album in album la musica di Hania Rani ha guadagnato stratificazioni di complessità, pattern, docili risonanze, ritmiche jazz contemporaneo, riverberi e tappeti sintetici, anche se ciò che rimane integro e invariato è l’eleganza con cui vengono eseguiti. «Sicuramente la crescita più importante dell’ultimo periodo è legato all’utilizzo della mia voce, è questo lo strumento su cui mi sto concentrando di più che in passato, il prossimo album sarà quello più cantato nella mia discografia». E qui arriviamo al dunque, anche perché Hania ha molta voglia di parlarmi del suo nuovo album che uscirà a ottobre molto più che filosofeggiare in materia di neoclassica o dei dolori dei giovani millennial, almeno tanto quanto ha voglia di suonare i nuovi brani dal vivo, visto che molti sono già stati mostrati al pubblico, più o meno en passant o nascosti tra le righe. Mi riferisco soprattutto a Ghosts che sarà anche la title track, eseguita per esempio durante il recente live on KEXP, così come 24.03, oppure a Hello, il primo singolo che anticipa il suddetto album.

«Le performance dal vivo mi aiutano molto, non tanto a creare ma a sviluppare gli arrangiamenti. Ogni tanto cerco di sperimentare e improvvisare dal vivo proprio per vedere qual è la reazione del pubblico e quali sono le mie reazioni, è come un test, che mi porta in luoghi dove non potrei arrivare in studio. Molti pezzi del nuovo album sono stati sviluppati durante i live, durante i quali ho cambiato la struttura, la forma, l’identità, molto prima che venissero portati in studio per registrarli».

Il nuovo disco traccerà certamente un cambio di passo per l’artista polacca, non si tratta solo di una nuova corrente nell’ambito della neoclassica come può esserlo stato All Melody di Nils Frahm nel 2018, ma la dichiarata ambizione di arrivare a un pubblico più vasto e questo inevitabilmente è più facile con una maggiore presenza della voce e del cantato. Già dal secondo album solista Home, uscito nel 2020, la voce di Hania Rani ha fatto le prime apparizioni. Una voce eterea, una presenza flebile e sfuggente, una rarità da cogliere tra le note del pianoforte. Oggi invece il testo è parte integrante della maggior parte dei pezzi, molti dei quali assumono la tipica forma canzone. I riferimenti sono molti, anche se su tutti bisogna citare i Radiohead, i Portishead, gli Hooverphonic. Downtempo, elementi di trip hop, elettronica minimalista arricchiscono un repertorio che mantiene le radici nella neoclassica, grazie anche alle apparizioni di Ólafur Arnalds, Duncan Bellamy dei Portico Quartet, ai quali si aggiunge Patrick Watson. Hania Rani chiude un cerchio che unisce la scena neoclassica berlinese al pop-rock post Kid A, quello che dopo i fasti degli anni ’90 era andato in avanscoperta mischiando strumenti analogici d’orchestra ai synth, in cerca di un sound più complesso per le classifiche di MTV.

«Ho cercato di uscire dalla mia comfort zone. Ghosts è un disco molto processato ed è relativamente lungo. L’ho composto tra le montagne svizzere e la Polonia, quasi sempre in luoghi isolati dove ho modo di pensare o di ricordare. Ho bisogno di iniziare dal silenzio e dal niente per creare nuova musica. Il titolo viene in parte da questo, i fantasmi sono un po’ come i nostri ricordi. La realtà è aperta all’irreale, alla magia, ad eventi inspiegabili. Li chiamiamo fantasmi ma sono come dei segnali di ciò che è accaduto in passato, magari delle risposte. Desideravo molto che questo disco non parlasse solo di me, ma di altre storie, di eventi o fenomeni sulla vita e sulla morte».

Continueremo a sentirne parlare. Vorrei avere la metà della sua determinazione e delle sue idee chiare. Persino sui desideri futuri non ha molta esitazione a rispondermi: «Mi piacerebbe lavorare con Paweł Pawlikowski, uno dei miei registi contemporanei preferiti e non lo dico solo perché è polacco. Ho amato Ida e Cold War, la sua sensibilità e il suo sguardo sulle cose. So che sta iniziando le riprese di un nuovo film con Joaquin Phoenix, sarebbe un sogno lavorare con lui, oltreché un onore».

Noi, da ascoltatori e spettatori, non possiamo fare altro che augurarci che i sogni di Hania diventino realtà.

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