Hudson Mohawke non è come tutti gli altri producer. A meno di quarant’anni ha pubblicato solamente tre dischi (tutti per Warp, l’etichetta inglese di Aphex Twin, Boards of Canada, Autechre), scandendoli a circa sei anni di distanza l’uno dall’altro. Questo nonostante la sua carriera fosse già in rampa di lancio nel 2012 quando il suo side project TNGHT, diviso a metà con il producer canadese Lunise, esplode con un EP omonimo e una traccia (Higher Ground) che inventa un’improbabile connessione sonora tra trap e avantgarde portado il duo a suonare nei principali festival EDM del mondo mantenendo la critica a proprio favore.
Ma appena i due iniziano ad annusare il successo – e le prime insistenti richieste del mainstream di ripetere la formula vincente – abbandonano la faccenda per dedicarsi nuovamente alle carriere soliste (lo iato durerà fino al 2019 con l’uscita di II). Nel mentre Virgil Abloh, il creativo visionario dietro Off-White, scova Mohawke e lo presenta a Kanye West che se ne innamora e lo mette subito sotto contratto come produttore per la sua label, la G.O.O.D. Music, lasciandogli piena libertà creativa. Siamo ancora nel 2012 e Mohawke – ad appena 26 anni – si trova catapultato da Glasgow al mondo del rap americano arrivando a produrre brani per John Legend, Drake, Pusha T, Lil Wayne, Asap Rocky e – naturalmente – Kanye West partecipando ad uno dei dischi più importanti del decennio, Yeezus, di cui produce Blood on the Leaves con Arca e Lunice e, soprattutto, I Am a God con i Daft Punk e Mike Dean.
Negli ultimi dieci anni ha partecipato alla produzione di quattro brani di The Life of Pablo di Kanye West (Famous, Freestyle 4, Waves, FML) prodotto artisti come Christina Aguilera, Anohni, Kesha, composto la colonna sonora per il videogame Ded Sec – Watch Dogs 2, remixato brani di Board of Canada, Fout Tet e Dj Shadow, pubblicato tre mixtape di materiale d’archivio e due dischi solisti – Lantern e Cry Sugar – capaci di far collidere pop e avanguardia spingendosi sempre oltre il limite. Il motivo di tutto questo? La noia, la paura di ripetersi e la voglia, ossessiva e impossibile, di continuare ad inventare e giocare con il suono.
Hudson Mohawke tornerà in Italia la prossima settimana, il 9 giugno al Terraforma, il festival che si terrà dal 9 al 11 giugno a Villa Arconati a Milano (se volete saperne di più abbiamo da poco intervistato il suo ideatore Ruggero Pietromarchi), perfetto teatro per la sua commistione tra avanguardia e melodia.
Al primo appuntamento che ci siamo dati per l’intervista hai dato buca perché avevi perso la cognizione del tempo in studio. Il tuo ultimo album è uscito lo scorso anno, quindi conoscendoti stai lavorando a qualcosa di diverso. Puoi svelarci qualcosa?
Ho le mani su un paio di progetti di cui non posso ancora dire nulla, mi spiace. Ho però appena completato un EP in collaborazione con Nikki Nair che uscirà a breve (Set The Roof, uscito lo scorso venerdì per Warp Records, nda).
Lavori sempre a così tanti progetti differenti nello stesso momento?
Sì, e mi piace. Sai, tendo ad annoiarmi in fretta. Solo quando faccio i miei dischi solisti mollo tutto il resto, lì ho bisogno di focalizzarmi per bene.
In quindici anni hai prodotto tantissima musica, ma di tuoi dischi solisti ne sono usciti solamente tre. Quando capisci che è il momento di metterci?
Non pubblico spesso dischi solisti perché mi ci vuole moltissimo tempo a farli, un anno o più, e in quei momenti non riesco ad avere altri progetti tra le mani. Lavoro molto velocemente, ma per costruire un intero universo per un disco ci vuole tempo. Per 20 canzoni che metto in un disco ne produco altre 200 che non vedono la luce.
Di questi tempi si direbbe che vai controcorrente con il ritmo delle pubblicazioni.
Oggi tutti si aspettano un disco dopo l’altro, ma questo non funziona con la mia idea di album. Non voglio che i miei dischi siano delle compilation, ma un corpo sonoro con un senso comune.
E come ricerchi questo senso comune? Ti dai un concept o qualche altra linea guida da seguire?
Molti quando trovano la propria formula sonora tendono a ripeterla. E per quanto mi faccia fatica ammetterlo, so che funziona. Ma non fa per me, non sarebbe stimolante. Devo trovare del trasporto e dell’entusiasmo nella musica che faccio; ripetermi non mi farebbe stare bene.
Cosa rende una canzone o una produzione entusiasmanti secondo te?
Quando si prende qualcosa di familiare e lo si interpreta in un modo che non è mai stato sentito fino ad allora. Per questo non posso fare la stessa merda di continuo, mi annoierebbe troppo. La musica deve essere in continuo movimento, non fermarsi mai.
È questo il motivo per cui tu e Lunice avete preso una pausa dal progetto TNGHT all’apice del successo?
Sì. Quando qualcosa non mi stimola più e diventa solamente un modo per far soldi, perdo interesse. Mi sembra di ingannare i miei fan.
Da ragazzino, a 15 anni, hai lasciato il mondo dei campionati di djing dopo essere stato il finalista più giovane di sempre al DMC World DJ Championship in Inghilterra. Mi sembra che ci sia un fil rouge per cui cerchi sempre di allontanarti dalle situazioni possibilmente favorevoli. È giusto dire che ami la musica ma odi il music business?
Non posso dire di odiare il music business, non ho mai avuto esperienze negative in grado di segnarmi. Però ogni cosa che ami, quando si lega al concetto di business, entra in un terreno pericoloso. Il concetto di business è legato al concetto di successo. Quindi se una cosa funziona è logico che tu continui a farla. Ma se applichi questa logica alla musica, certo, funziona per un periodo, ma a livello artistico ti svuota.
Una caratteristica fondante della tua produzione è quella di essere ironica, divertente, volutamente parodistica, rimanendo però alta, innovativa, futuristica. In passato hai anche detto che si tende troppo a intellettualizzare la musica da club.
Nella scena della musica sperimentale (in senso largo) si tende eccessivamente a intellettualizzare, analizzare e scrivere saggi su ogni suono mentre in campi più generalisti, come il pop o l’EDM, la gente pensa di più a godersi quello che sente senza troppe domande. Per me questi due approcci sono entrambi divertenti perché io voglio sia sperimentare che essere esplicitamente pop. Iper-intellettualizzare rischia di andare a discapito del lato divertimento.
E tu dopo vent’anni ti diverti ancora a fare musica?
Assolutamente sì. Mi sono giocato tutte le occasioni in cui potevo fare i soldi, ma almeno ho mantenuto l’aspetto giocoso e divertente del mestiere. Non lo avessi mantenuto sarei sparito in un paio d’anni.
Non hai rimpianti rimpianti?
No, davvero, non ne ho. Sarebbe bello aver tre case in più, certo, ma avrei dovuto continuare a fare una cosa sola perdendo la mia libertà. Quando il tuo pubblico si aspetta una cosa sola da te, non puoi più muoverti. Sei finito. Sarei pure straricco, ma artisticamente sei finito.
Hai lavorato con uno degli artisti più importanti di questo secolo, Kanye West. Cosa senti di poter dire di aver imparato da lui?
La persona che mi ha contattato per lavorare con Kanye è stato Virgil Abloh. Credo fosse il 2010-2011. Togliamo la parte personale di Kanye, parliamo della musica solo. Kanye è l’esempio di un artista arrivato all’apice del successo che continua a mettesi in gioco facendo cose totalmente differenti da quelle fatte in precedenze. Questo non esiste nella musica mainstream perché nessuno vuole rischiare di perdere il proprio successo. Il rischio di mandare tutto all’aria è parte del divertimento però ed è ciò che manca nel mainstream. Gli artisti più grandi al mondo tendono a pubblicare dischi che sono piccole variazioni della musica. Non sorprendono, non accade mai. Ma fare mettere tutto per gioco, fare scelte folli e – soprattutto – farle funzionare è magnifico, è cosa per pochi, pochissimi. Questo è ciò che ho preso da Kanye.
In ultimo volevo chiederti una cosa su un episodio che è diventato virale e che ti riguarda. Un ragazzo qualche tempo fa ha scritto su Reddit che la sua ragazza lo ha lasciato dopo che aver provato a far l’amore con lei basando i suoi movimenti pelvici sul ritmo iper-sincopato di Cbat, una delle tracce contenuta nel tuo disco d’esordio, Butter. Quale è stato il tuo primo pensiero a riguardo?
Che follia!
Quando l’hai scoperto?
Se te lo dico non ci credi: ero in Corea del Sud a lavorare con alcuni membri dei BTS. Cose da metarverso.
Hai appena aggiunta una bella dose di nonsense a questa storia…
Queste cose non sono prevedibili e non puoi controllarle (anche se qualcuno pensava che avessi organizzato tutto, magari!). Penso che alcuni ad un certo punto abbiano sperato mi prendessi male, ma come farlo se alcuni brani di quel disco sono – per l’appunto – ironici, pensati quasi per far ridere? Quel disco è strano, volutamente ironico. Che ci siano voluti 12 anni prima che ne fosse capita la parte ironica è incredibile! Fosse stato un disco serioso, certo, mi sarei potuto imbarazzare, ma questo meme era perfetto così.