I 30 anni dei La Crus: quando la canzone d’autore era tutta da riscoprire | Rolling Stone Italia
«Sicuri di voler incidere questa roba?»

I 30 anni dei La Crus: quando la canzone d’autore era tutta da riscoprire

La band di Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti porta in tour le canzoni dell’album del 1995. L’intervista: l’idea di rifare la musica dei cantautori con le macchine, la scommessa di uscire dal rock, la soddisfazione di aver fatto conoscere Ciampi a una nuova generazione

I 30 anni dei La Crus: quando la canzone d’autore era tutta da riscoprire

La Crus: Cesare Malfatti (a sinistra) e Mauro Ermanno Giovanardi

Foto press

Parte domani, venerdì 7 marzo all’Estragon di Bologna, il tour celebrativo dell’omonimo album d’esordio dei La Crus, che compie 30 anni esatti. Nella prima parte del live la band riproporrà il disco integralmente, con la stessa scaletta originale, per poi svariare nella seconda parte con i suoi cavalli di battaglia e una buona selezione di pezzi dal disco della reunion dello scorso anno, Proteggimi da ciò che voglio.

Quando uscì nel 1995, La Crus ebbe un successo inaspettato nell’underground italiano, soprattutto se si pensa alla sua specifica originalità: da una parte recuperava le istanze del cantautorato classico, dall’altra lo faceva con un suono inedito, basato sull’uso dell’elettronica e dei campionamenti. Abbiamo colto l’occasione per parlare di quel disco e della storia del gruppo con i membri essenziali che ancor oggi ne fanno parte: Mauro Ermanno “Joe” Giovanardi, la voce inconfondibile, e Cesare Malfatti, architetto del suono oltre che abile chitarrista.

Joe, prima dei La Crus hai suonato per anni con i Carnival of Fools, un gruppo di blues-new wave alla Nick Cave. Come sei passato dal post punk al cantautorato?
Joe: Ai tempi dei Carnival la madre di una mia fidanzata mi incuriosì dicendo che avrei dovuto ascoltare Luigi Tenco, perché secondo lei aveva uno stile simile al mio, non solo vocale, ma anche compositivo. Quando ho seguito il suo consiglio e ho ascoltato Angela, è stata una rivelazione: aveva un modo di scrivere molto letterario che mi faceva lo stesso effetto di Leonard Cohen e soprattutto Nick Cave. Stesso effetto che mi ha fatto il successivo ascolto di Ciampi. È successo qualcosa, in quel momento, che ha completamente stravolto il mio approccio alla canzone.

Ricordo molto bene che negli anni ’90 il cantautorato era visto malissimo, era una cosa da odiare come si odiava il classic rock ai tempi di punk e new wave. Come vi siete posizionati in questo contesto coi La Crus?
Joe: Il lascito più importante dei La Crus è stato sentire ragazzi giovani che mi ringraziavano per aver scoperto gente come Ciampi e Tenco, che non conoscevano per niente. Ciampi in particolare lo abbiamo sdoganato noi, in regioni come il Veneto una canzone come Il vino era diventata un inno. E a me era nata questa voglia di andare a cercare quei nomi che la mia generazione aveva completamente bypassato. Che fosse un azzardo era chiaro; quando Manuel (Agnelli, nda) ascoltò i provini del primo disco, mi chiese meravigliato: «Ma sei sicuro, di voler incidere questa roba qui? Oggi, nel 1994, una roba alla De André? A chi può mai interessare?».

In effetti per chi ti conosceva coi Carnival il salto stilistico era pazzesco.
Joe: Sì, e me ne rendevo conto. Per me era veramente entrare in un altro mondo, e da tutti i punti di vista. Io sono partito nei primi anni ’80 ascoltando Joy Division, Echo & The Bunnymen, Killing Joke… oltretutto avendo visto tutte queste band dal vivo nel corso di quel decennio. E quando ho iniziato a suonare io stesso, è sempre stato in formazioni a tre o a quattro con un impianto tipicamente rock’n’roll. Era un salto nel buio. Questa cosa ci faceva da una parte molto paura, dall’altra era una sfida che volevamo vincere.

La Crus - Live & Intervista, Videomusic, 1995 VIDEO

Spiega meglio in cosa consisteva questo cambio nell’approccio compositivo.
Joe: Volevamo imparare a fare i pezzi con le macchine. E lo stimolo veniva dal fatto che non avevamo nessun esempio di questo modo di lavorare. Per ultimare il primo disco ci abbiamo messo due anni e mezzo. Ricordo, tra l’altro, che quando era quasi finito ed eravamo al Jungle Sound a mixarlo, venne a trovarci Davide Sapienza (giornalista musicale e scrittore, nda), col quale ero molto amico all’epoca, portandoci un CD singolo che, ci disse, ci sarebbe piaciuto. Era il primo singolo dei Portishead. Ora, è chiaro che il risultato era un po’ diverso, ma era clamoroso scoprire che a 1500 chilometri di distanza qualcuno stava facendo un disco secondo le nostre stesse modalità: usando dei campionamenti, con la stessa strumentazione. Questo ci ha confortato, e ci ha fatto capire che battevamo la strada giusta, cosa non scontata in un periodo in cui predominava ancora il grunge.

Cesare, vuoi aggiungere qualcosa?
Cesare: Ho conosciuto i La Crus nella loro primissima formazione, con Joe, Alex Cremonesi e Paolo Mauri. Alex aveva abbozzato alcune canzoni con dei giri di chitarra sui quali Joe aveva messo la voce, ancora in inglese; Paolo, col quale ero molto amico, aveva un ruolo più defilato, da filosofo supervisor. In assenza di altri membri, Paolo suggerì agli altri di venire a registrare nello studio che avevo appena aperto in una stanza del Jungle; usavo la tecnologia midi e avevo comprato uno dei primi campionatori esistenti sul mercato, un Akai. Con quello avrei potuto creare le parti di basso, batteria e altri strumenti che ai La Crus mancavano, anche perché mi ero già fatto le ossa lavorando come fonico per alcuni gruppi hip hop come OTR e DJ Gruff. Iniziando così, quasi per necessità, ci siamo appassionati a quel modo particolare di scrivere canzoni, e così è nato il suono La Crus: rubando campioni da altri dischi. A volte è vero che si partiva da un giro armonico tra quelli ideati da Alex, ma molto spesso l’impianto era totalmente costruito a partire dai campionamenti. Aggiungo un altro elemento che spiega perché ci siamo avvicinati al cantautorato: sia io che Alex preferiamo la chitarra classica a quella elettrica, e chiaramente il suo suono arpeggiato richiama più l’immaginario dei cantautori che non quello del rock’n’roll.

Joe: Era elettrizzante, era una cosa tutta da scoprire; ogni pezzo in più era un piccolo passo in avanti per capire il segreto di fare musica in quella modalità. Anche perché a quei tempi non c’erano le librerie digitali con i sample che ti servivano, dovevi andare a cercarteli. In quegli anni ho passato intere giornate ad ascoltare CD per vedere se trovavo un break di batteria, un suono specifico, un frammento di pochi secondi da campionare. Quando avevamo abbozzato la struttura di un pezzo, lo risentivamo e ci suonavamo sopra il possibile campionamento per vedere se ci stava; quando funzionava, perlopiù in modo inaspettato, era fighissimo…

Un altro problema era poi trovare una buona melodia da mettere sulle strutture dei pezzi.
Joe: Assolutamente. Non è come fare un pezzo hip hop, in cui il testo segue un unico flow e non ha linee melodiche. Io dovevo trovare in pratica due melodie, una per le strofe e una per il ritornello, sugli stessi accordi. O almeno una variazione… era veramente difficile, anche se al contempo era uno stimolo pazzesco. Paradossalmente, oggi faccio una fatica tremenda a sentire i primi due dischi dei La Crus; non per i dischi in sé, che mi piacciono tantissimo, ma per come canto io. Se potessi realizzare un desiderio, sarebbe proprio quello di ricantare quei due dischi. Perché sento che mi manca naturalezza, sento delle forzature, ho un modo di cantare monolitico, ancora tipico della new wave.

In mezzo a tutte queste difficoltà pubblicate il primo album. Che però, contrariamente a quello che tutti si sarebbero aspettati, non esce su Vox Pop.
Cesare: All’inizio, la Vox Pop pagava le sessioni di registrazione nel mio studio. Ma siccome ci stavamo mettendo una vita, e probabilmente ci serviva ancora un bel po’ di tempo, abbiamo preferito sganciarci e fare le cose per conto nostro; io in pratica diventavo il produttore del disco. Oltre tutto questo ci offriva l’opportunità di cercare una label a nostra misura, ragion per cui nel ’94 abbiamo fatto circolare molto il demo tra gli addetti ai lavori. Tra i tanti, ha mostrato un grande interesse Gianni Maroccolo, per conto del Consorzio Produttori Indipendenti, che all’epoca aveva pubblicato solo due o tre dischi. Eravamo sul punto di firmare, ma le condizioni non erano molto interessanti: ci avrebbero pagato in dischi, cosa che ci sembrava un azzardo. Ma questo punto c’è il colpo di scena: un giorno veniamo a Torino per una trasmissione radiofonica che faceva Davide Sapienza, e lì incontriamo Enrico De Angelis, uno dei massimi esperti di Piero Ciampi in Italia, che rimane stupefatto dalla nostra versione di Il vino. È talmente esaltato che ci invita al Club Tenco, all’Ariston di Sanremo, come gruppo scoperto dal Tenco, anche senza un disco fuori. Lì succede tutto come nei film: facciamo tre o quattro pezzi, e dopo mezz’ora incontriamo Valerio Soave della Mescal col quale firmiamo un contratto, e dopo un’altra mezz’ora un accordo con Warner per il primo disco.

Insomma un evento straordinariamente positivo. Magari in altre circostanze non è andata altrettanto bene…
Joe: Ad esempio nel ’97, era appena uscito Dentro me, ci fece una proposta Alberto Campo (giornalista musicale, nda) di partecipare a un disco tributo per i Matia Bazar, chiedendoci di fare una cover di Per un’ora d’amore. Noi, con un atteggiamento snob molto figlio degli anni ’80, orgogliosamente fieri del nostro background tra post punk e cantautorato, rispondiamo sdegnati che no, i Matia Bazar non sono roba che ci interessa. Così Campo si ritira, e propone la stessa cover ai Subsonica che avevano fatto da poco il primo disco, che aveva venduto pochissimo, non avevano affatto sfondato. E quando sfondarono, invece? Proprio quando uscì la loro cover di Per un’ora d’amore. Ad Antonella Ruggiero piacque così tanto che volle fare un duetto con Samuel. Ogni tanto mi chiedo: che ci sarebbe successo, se quella cover l’avessero fatta i La Crus? Beh, quella volta non abbiamo saputo cogliere l’attimo.

A un certo punto però avete smesso di comporre con l’elettronica e siete tornati a un metodo più tradizionale. Com’è avvenuto questo passaggio?
Cesare: Già dopo il tour del primo disco e di quello dei remix (mini album arrivato poco dopo l’esordio omonimo, nda) abbiamo sentito sempre più l’esigenza di affrontare un formato più vicino alla canzone classica. Perciò, oltre ai pezzi costruiti sulle basi digitali abbiamo sviluppato il metodo opposto, che nel primo disco era stato usato solo sporadicamente: si partiva da un giro di accordi, si abbozzava una melodia, e poi si cercava un campionamento che desse al tutto un groove che funzionava. A questo punto si rivedeva il giro armonico in modo da riadattarlo al groove, e quella era la struttura del pezzo. In questo senso il secondo album Dentro me è un disco di transizione, perché comincia ad avere un numero consistente di canzoni costruite così: un esempio su tutti è Come ogni volta. Anche su Dietro la curva del cuore (terzo disco del gruppo, del 1999, nda) ci sono molti pezzi del genere – salvo che poi in quel disco c’è in aggiunta un arrangiamento orchestrale. I campionamenti col passare del tempo sono venuti sempre meno, anche perché usarli stava diventando sempre più rischioso.

Come sono state le esperienze dei concerti?
Joe: In generale andavano bene, l’accoglienza era ottima, anzi fu una bellissima sorpresa. Nel ’95 abbiamo avuto un’esposizione incredibile, vincendo dei premi che manco sapevamo che esistessero. Noi non eravamo una band rock come i Marlene e gli Afterhours, che tra l’altro sarebbero esplosi un po’ più tardi; alla fine eravamo un gruppo intellettuale da universitari, una band in cui contavano i testi e l’atmosfera, un gruppo che bisognava ascoltare. Però la gente accorreva ai nostri concerti, abbiamo iniziato con 200 o 300 spettatori e alla fine del primo tour, per il quale abbiamo fatto oltre 120 date, superavamo il migliaio. Per me all’inizio non è stato banale suonare dal vivo. Non era facilissimo cantare, con le sequenze non puoi permetterti di sbagliare un’entrata. Mi ricordo una data al Palazzetto dello Sport di Faenza, facevamo Angela, prima strofa ok, seconda anche, bridge con l’armonica… alla terza strofa, il blackout. E lì non puoi fare un cenno alla band facendogli capire che entri dopo, quello che perdi è andato. Quindi per le prime date ero molto sotto tensione, dovevo fare molta attenzione e spesso questo eccesso di concentrazione non mi consentiva di performare come avrei voluto.

Cesare: E c’era gente che ci diceva «eh per voi è facile, suonate con le basi». In realtà avevamo una conformazione particolare: batteria, tromba, chitarra e voce, più un registratore DAT per i vari campionamenti. Chi ci ha visto all’epoca ha sicuramente assistito a una formazione molto inusuale, che aveva una sua originalità.

Ricordate qualche aneddoto curioso di quel periodo?
Joe: Come no… ad esempio quella volta che avevamo una data a Limone Piemonte, non sapevamo dove fosse, e arrivammo in questo hotel ristorante in piena montagna. Era un ponte di Pasqua, e ovviamente l’hotel era pieno di famiglie in vacanza, con nonni e bambini. Ricordo che iniziammo il primo pezzo, seri e concentrati, e poi dando un’occhiata al pubblico ci siamo resi conto che in prima fila c’era una dozzina di ragazzini che schiamazzavano e ci prendevano per il culo.

Cesare: Successe più o meno la stessa cosa un’altra volta allo Zorro di Cervia, in Romagna, in cui suonavamo prima di una serata in discoteca, ovvero per un pubblico a cui non interessavamo minimamente. La gente faceva casino, non ci considerava proprio, aspettava soltanto che ci levassimo di torno e arrivasse il dj per ballare. A un certo punto mi sono stufato, ho spento il DAT lasciando Joe incredulo e me ne sono andato dopo poche canzoni.

Il vino - La Crus | RSI Musica

Quanto hanno venduto i dischi di quel periodo?
Joe: A quanto ne so, tra i 25.000 e i 35/40.000. Che per l’epoca, non era male. Il pubblico si fidelizzava sempre più a ogni disco. Ai tempi che stavamo mixando Dietro la curva del cuore, Paolo Mauri mi confidò che era quasi preoccupato di quanto quel disco bellissimo fosse fin troppo maturo. Era quando avevamo scelto di incorporare un’orchestra d’archi nel sound, con l’intento di scrivere canzoni d’amore senza cadere nella trappola della canzone all’italiana. Un disco molto difficile da scrivere, per il quale ero perfino stato a cercare l’ispirazione in Sicilia, prima un paio di settimane ospite di Carmen Consoli, poi due mesi a Stromboli. Tornando a quella frase di Paolo, esprimeva la preoccupazione che al terzo disco avessimo già precorso i tempi, che ci mostrassimo più maturi di quanto effettivamente fossimo. In prospettiva, forse è vero che sarebbe stato più saggio fare ancora un disco sperimentale e ruspante per gestire meglio l’hype. Ma resta il fatto che quello è uno dei dischi più amati dai fan, e forse anche da me; anche se non è coraggioso e incosciente quanto il primo, e neanche ha l’equilibrio particolare di Dentro me.

Cesare: Io invece sono affezionato proprio a Dentro me perché mi sembra il compromesso ideale tra i suoni più sperimentali del primo disco e le canzoni più mature del successivo, con un’intensità forse mai così forte.

In quale modo vi riconoscete nella scena di quel periodo, con l’esplosione della galassia dell’indie italiano?
Joe: Come La Crus eravamo peculiari, poche altre band facevano quello che facevamo noi. Forse avevamo qualche somiglianza coi Casino Royale, ma per molti versi eravamo unici. Ma non era un problema, perché il pubblico a quel tempo era trasversale, ascoltava noi come gli After o i Marlene o i Mau Mau. Ci sentivamo parte di un mondo diverso, c’era una comunanza basata più sulla condivisione di certe istanze politiche e culturali che non musicali.

E allora, com’è che è finita l’avventura dei La Crus?
Joe: Non credo che si possa dire che abbiamo avuto un calo di ispirazione, lo dimostra il disco dello scorso anno, che è fresco e convincente. Certo, dopo un certo numero di album avevamo un po’ perso la voglia di rischiare e ci eravamo un po’ adagiati sullo stile che abbiamo inventato. Ma soprattutto, a un certo punto io e Cesare abbiamo preso direzioni diverse e abbastanza incompatibili, cosa che si è manifestata pienamente ai tempi di Crocevia (disco del 2001 di cover di classici vecchi e recenti della canzone italiana, da Bruno Martino ai CCCP, nda). Per me quello avrebbe dovuto essere il secondo disco del gruppo, ci avrebbe caratterizzato pienamente e in modo originale. Invece è arrivato più tardi, quando non tutti eravamo convinti della scelta, anche se alla fine è stato il nostro disco che ha venduto di più. E a quel punto qualcosa si è rotto, perché io volevo insistere sulla strada del cantautorato, mentre Cesare era più interessato a proseguire con le sperimentazioni elettroniche; io avrei voluto coinvolgere dei musicisti già in sede di registrazione, e Cesare invece rimaneva fedele alle strutture digitali, un po’ nello stile applicato nei Dining Rooms (band parallela di Cesare, nda). E questo alla fine ha portato alla fine del gruppo.

Cesare: Fondamentalmente sono d’accordo, io ho sempre avuto tendenza a sperimentare, a scoprire strade nuove quando scrivo, mentre Joe ha molta più attenzione a cercare la canzone riuscita, il pezzo che possa far presa sul pubblico. È un contrasto che abbiamo vissuto anche nell’album dell’anno scorso, ma forse è un disco riuscito proprio per quello.