Quando i C’mon Tigre arrivarono sulla scena, con l’omonimo esordio del 2014, apparvero subito come qualcosa di assolutamente inclassificabile. Da una parte non somigliavano a nessuno, dall’altra i rimandi erano talmente numerosi e variegati che non si sapeva da che parte cominciare: la loro proposta era una miscela di soul, funk, jazz, world music ed elettronica, e nel complesso aveva un sound assolutamente peculiare. Sulle origini del gruppo non c’era nessuna informazione; presumibilmente aveva origini mediterranee, visto che le sonorità mostravano radici abbastanza riconoscibili, ma la provenienza poteva essere spagnola, turca o marocchina: non se ne sapeva nulla.
Il mistero è stato scientemente più o meno mantenuto fino a oggi, anche se oramai sappiamo che il progetto fa capo a due ragazzi anconetani che vivono a Bologna (e dei quali ovviamente non riveleremo il nome), che amano circondarsi di volta in volta di abilissimi strumentisti per mettere in scena la loro musica. Esce venerdì 24 il loro quarto album Habitat, e ancora una volta è un centro pieno, anche se rispetto ai precedenti appare più una conferma della direzione presa nel precedente Scenario, che non uno sviluppo verso territori inediti. Uno scarto era invece avvenuto col secondo album Racines (2019), che si apriva manifestamente a sonorità elettroniche da club, mentre Scenario (2022) era soprattutto un’esplorazione delle poliritmie delle musiche terzomondiste, dall’Africa al Brasile al Sudamerica tutto. C’è però una continuità evidente da un disco all’altro, come ci conferma la stessa band, con la quale abbiamo scambiato una gradevolissima chiacchierata su Zoom: «In genere chiudendo un disco c’è uno degli ultimi pezzi che getta il seme per quello successivo. In Scenario c’era soprattutto un brano (Kids Are Electric, ndr), che incorporava esplicitamente i ritmi della musica brasiliana, e da quello siamo partiti per dare il mood al nuovo album. Detto ciò, non si tratta di una scelta rigida, anche perché i ritmi brasiliani sono spesso costruiti con una strumentazione che ha le stesse radici di quella impiegata in Africa, e quindi l’effetto complessivo è più articolato; basti pensare a un pezzo come The Botanist, con il featuring di Seun Kuti che canta e suona il sax, in cui la matrice afro-beat è evidente. In realtà potremmo dire che la scelta del mood brasiliano è più narrativa, poiché la sua vitalità stilistica è quello che ci serviva per rendere i pezzi più aperti, per raccontare delle storie in modo più chiaro».
Il discorso sull’unicità dei C’mon Tigre merita un approfondimento. In quest’epoca di sovraccarico di ascolti, un pezzo di questa band è immediatamente riconoscibile tra mille. È questione della particolarità del sound, di un imprinting compositivo specifico, di una magia speciale? Provano loro a dare una risposta: «Detto che questo ci sembra un gran bel complimento, è una questione che ci siamo già posti più volte, discutendone con amici e colleghi. È probabilmente vero che ormai in musica è stato detto tutto, per cui quando ci accostiamo a un genere lo facciamo con molta cautela. Ci può essere un atteggiamento molto rispettoso, o al contrario un approccio iconoclasta; l’importante è evitare di fare una replica pura e semplice dei modelli pre-esistenti quanto piuttosto trovare il modo di interpretarli in modo personale. Non bisogna quindi pensare che si entra a far parte di quel genere, ma che lo si frequenta dando un proprio contributo. È un po’ come fare una cover: si può pensare di renderla il più possibile fedele all’originale, ma a noi questo non interessa, ci piace di più cercare di stravolgerla mantenendo magari lo stesso spirito iniziale». «Per quanto riguarda l’aspetto che, secondo noi, spiega la particolarità dei C’mon Tigre – ed è un tema che ci sta molto a cuore: capire qual è il nostro senso e quindi come ci potremo mai evolvere – potremmo rispondere il gusto. Un gusto maturato e condiviso nel corso degli anni, e che addirittura prescinde dal fatto che si applica alla musica concepita in un certo modo. In altre parole, potremmo anche cambiare completamente il nostro sound, sostituire la sezione fiati con un’orchestra da camera di sei elementi, eliminare il vibrafono o chissà cos’altro, e saremmo comunque riconoscibili. In quale modo questo accada veramente, è difficile da spiegare».
Certo, possiamo provare a razionalizzare. Fare un’analisi specifica delle componenti sonore che definiscono il sound del gruppo. Ad esempio: la complessità ritmica della loro musica. Poliritmie, beat sincopati, tempi dispari, xilofoni e marimbe, elementi di diversa provenienza etnica: i ritmi dei C’mon Tigre sono ricchi, esuberanti, imprevedibili, rigogliosi. Molto poco rock, se ci consentite. E poi la sezione fiati: potente, poderosa, che trasmette un senso di maestosità alla musica senza appesantirla: ne trovate chiarissimi esempi anche sull’ultimo disco, da Goodbye Reality a Nomad At Home. Paradossalmente potrebbe apparire penalizzata la chitarra, ma in realtà il suo ruolo più defilato le consente di prendere più spazio nei brani in cui agisce da protagonista; chi lo ha ascoltato non potrà dimenticare il memorabile riff di Fédération Tunisienne de Football dal primo album. E come non riconoscerle una presenza del tutto speciale anche in Habitat, come nell’assolo di The Botanist o nel dialogo coi fiati di Sixty Four Seasons, o nel riff onirico che regge la bellissima Keep Watching Me? Quello che ci possiamo risparmiare è invece la ricerca delle influenze: che si tenti di stilare un elenco noi stessi, o che si chieda alla band di metterle in fila, la lista sarebbe talmente lunga e variopinta che non avrebbe senso. «A volte i giornalisti tirano fuori dei nomi talmente particolari che ce li eravamo quasi dimenticati. Gruppi che magari avevano fatto parte dei nostri ascolti di 20 o 30 anni fa, e che evidentemente erano sedimentati, per poi rinascere in modo inconsapevole nella nostra musica attuale! Oppure citano nomi che non conosciamo e che andiamo a scoprire, trovandoli fantastici».
Insomma, i C’mon Tigre sembrano destinati a rimanere un enigma meravigliosamente indecifrabile. Un altro tentativo inutile è di cercare di capirci qualcosa di più attraverso un’analisi dei loro testi, che appaiono chiaramente una componente meno importante della musica nella loro proposta – tant’è vero che la voce è sempre filtrata, mixata bassa, e sembra trattata molto più come uno strumento tra tanti che non come il veicolo per trasmettere un messaggio. «Esattamente; la voce è considerata alla pari di tutti gli altri strumenti, deve trovare il suo equilibrio nella pasta sonora che abbiamo creato nel pezzo, e siccome a noi piacciono i suoni grezzi di un tempo, che applichiamo ai fiati o alla batteria, anche la voce segue questo percorso. Per quanto riguarda i testi, sono sempre l’ultima componente nella scrittura; non sono mai le parole a definire l’umore di un pezzo, ma al contrario i testi che sposano l’umore definito dalla narrazione strettamente musicale. Quindi non ci sono concetti complessi dal punto di vista autoriale, e si troveranno al contrario molte immagini astratte, a volte surreali». Su Habitat ci sono due esempi perfetti di questo approccio nei primi due pezzi del disco. Goodbye Reality è il manifesto programmatico dell’album, un invito ad abbandonarsi ad una realtà altra in cui “gli uccelli nuotano nel mare e i pesci volano in aria”, liberi e felici in un mondo sottosopra. La successiva The Botanist è una sorta di racconto di formazione, la narrazione di quanto sia importante mantenere il controllo su se stesso in un percorso di crescita dall’innocenza alla maturità, seppur nel contesto di un habitat in continuo cambiamento.
Per concludere, qualche nota aggiuntiva, per completisti e fan, su questo disco. Oltre al già citato featuring di Seun Kuti su The Botanist, ce ne sono altri due di particolare prestigio: Xenia Franca, voce contemporanea della musica brasiliana, presente su Teen Age Kingdom; e niente meno che Arto Lindsay, che canta Keep Watching Me, invero un pezzo che poteva tranquillamente figurare su Mundo Civilizado. In aggiunta a queste presenze internazionale c’è anche il nostro Giovanni Truppi a interpretare la stralunata Sento un morso dolce, con un testo da lui composto, per quello che è il primo pezzo in italiano pubblicato in assoluto dalla band (così che le lingue usate su Habitat sono quattro, considerando anche inglese, spagnolo e portoghese). Altro primato è la prima cover dei C’mon Tigre mai comparsa su disco: si tratta di Odiame, canzone ecuadoregna resa popolare in patria da Julio Jaramillo. Per Habitat, che in formato fisico esce solo su vinile, non c’è invece una confezione grafica particolare, com’era avvenuto al contrario per i due album precedenti: quel che conta a questo giro è soprattutto la musica. Ora abbiamo tutti gli elementi per provare a decifrare l’enigma meraviglioso dei C’mon Tigre.