Se esiste una formula matematica che permetta a una band di suonare cool, i Dry Cleaning l’hanno senza dubbio scoperta. Muovendosi nel magma destabilizzato della musica indie e proponendosi fin dal primo EP come un compendio di suoni obliqui e ritmiche dinamiche, feedback e distorsioni, il quartetto londinese si è imposto fra le rivelazioni del nuovo suono alternativo riuscendo a convincere la vecchia guarda del rock e gli indie kids del nostro tempo. Un ruolo di primo piano lo ha giocato Florence Shaw, la frontgirl che per timidezza ha esordito leggendo i propri testi invece che cantandoli, imprimendo un marchio identitario proprio grazie al suo inconfondibile stile. Ora inquieta poi determinata, ammiccante e spesso scazzata, a tratti delicata ma capace di divenire anche irruente, Shaw è il fulcro di una costruzione sonora che incrocia alla perfezione anticonformismo e abilità affabulatoria.
Il nuovo album Stumpwork spinge ancora di più sulle sue originali doti vocali, ma attorno ad esse ruota una macchina sonora fluida e calibrata. Si priva di una certa oscurità di fondo che permeava il debutto e guadagna disinvoltura nella composizione, raccogliendo 11 brani splendidamente organizzati in una sequenza avvincente e ragionata. Le registrazioni sono avvenute sotto la guida di John Parish, musicista e produttore noto soprattutto per il lavoro realizzato al fianco di PJ Harvey, ma la band ha deciso di lasciare volontariamente dei vuoti tra una session e l’altra, così da tenersi aperta a nuove scoperte e possibili integrazioni.
«Abbiamo consapevolmente reso le canzoni molto più ricche», raccontano Lewis Maynard e Tom Dowse, rispettivamente bassista e chitarrista della band, amici di vecchia data conosciutisi ben prima della creazione dei Dry Cleaning. «Tutti volevamo prendere in mano degli strumenti anche solo per fare un po’ di esperimenti, così abbiamo operato come se fossimo in una stanza dei giochi. Credo anzi che proprio l’aspetto ludico sia una delle caratteristiche di questo disco. Durante la preparazione di New Long Leg eravamo in pieno lockdown, quindi avevamo un sacco di tempo a disposizione dato che non potevamo esibirci dal vivo. Ora invece abbiamo molta più esperienza e abbiamo suonato in 25 Paesi diversi. Siamo stati in tutto il mondo e su diversi tipi di palco, ci siamo esibiti anche davanti a 20 mila persone… Insomma, le cose sono molto diverse adesso rispetto a quando abbiamo iniziato a scrivere nel quartiere di Archway, a sud di Londra».
In effetti il nome dei Dry Cleaning, in appena un anno e mezzo, è decisamente cresciuto, soprattutto grazie all’esordio su lunga distanza che è stato indicato dalla critica internazionale come uno dei migliori dischi del 2021. L’ondata post punk ha fatto il resto, inglobando anche il quartetto nell’indefinibile calderone di genere, eppure i riferimenti stilistici della band sono ben altri. «Penso che post punk sia ormai un termine dai molteplici significati. Quando penso all’idea di una scena musicale, credo ci debba essere qualcosa in più rispetto a una semplice raccolta di band, dato che non suoniamo tutti allo stesso modo. Quando la gente parla di post punk io penso ad invece alla ZE Records (la storica etichetta newyorchese nata nel 1978, nda), alla scena no wave o a gente come James Chance».
Sebbene meno sghemba e certamente più edulcorata, la formula sonora di Stumpwork ha dei punti di contatto con quel movimento che ha letteralmente creato una frattura rispetto al passato, specialmente nell’approccio completamente libero e incondizionato di band come DNA, Mars e Teenage Jesus & the Jerks. «Quel periodo è stato sicuramente una grande influenza e tutti abbiamo parlato a lungo di come volevamo approcciarci al secondo disco. Nick, ad esempio, ha suonato molti fiati senza averlo mai fatto prima, utilizzando da principio il clarinetto di sua sorella, ma tutti hanno preso in mano strumenti che non avevano mai toccato».
Il suono di chitarra si conferma centrale per i Dry Cleaning, nelle influenze come nelle composizioni attuali, avanzando anche verso la sperimentazione di autori come Loren Connors, Roy Montgomery o Glenn Branca, riferimenti che superano il mero elemento sonoro per sfociare nella pura attitudine creativa. «La cosa che ci piace di questi artisti è il modo in cui usano lo spazio. La chitarra è uno strumento assolutamente flessibile, puoi creare un sacco di suoni diversi e grazie ai pedali puoi davvero fare qualsiasi cosa. Penso spesso a quello che diceva Kevin Shields, se usi il riverbero puoi praticamente far suonare una chitarra come qualsiasi cosa tu desideri».
Pur avendo un occhio volto al passato, i Dry Cleaning restano ovviamente una band ben piantata nel presente e (per molti versi) nel futuro. Dalla pandemia allo stato di guerra, dalla Brexit alle mutazioni del music business, tutto viene filtrato attraverso i brani di Stumpwork e i testi (talvolta assai criptici) di Florence Shaw. Viene dunque naturale domandare quale sia il loro Conservative Hell, titolo di una delle canzoni più significative e melodicamente accattivanti dell’album. «Ti basta dare un’occhiata alle notizie, a quanta instabilità stiamo attraversando con l’emergenza Covid e la crisi del costo della vita nel Regno Unito. L’attuale versione della società è molto diversa da quella che a noi piace e la cosa triste è che più viaggi e più ti rendi conto che le persone hanno moltissimo in comune. Poi invece segui i telegiornali e tutto sembra assolutamente diviso, ma questa situazione sta rendendo la vita molto difficile soprattutto per le persone maggiormente vulnerabili».
Ora per i Dry Cleaning è tempo di ripartire in tour, un’attività che li terrà decisamente impegnati, ma che non necessariamente dilaterà i tempi di composizione del nuovo materiale. «È difficile definire il momento in cui iniziamo a preparare un nuovo album», confermano Maynard e Dowse. «Abbiamo una grande libreria di idee che registriamo costantemente, anche se ora siamo in sala prove per adattare i nuovi brani all’esecuzione dal vivo. È un processo che non si interrompe mai e possiamo dire di essere costantemente al lavoro».