Era da tempo che Federico Dragogna aveva in mente di realizzare un album solista e non dev’essere stato facile, a un certo punto, scegliere di registrarlo e pubblicarlo. Perché il musicista milanese è per tutti il chitarrista e paroliere dei Ministri, simbolo di un certo modo di intendere il rock in Italia e in fondo di una resistenza musicale che fino a oggi lo aveva sempre visto al fianco di Divi e Michele Esposito, i suoi compagni di band. Ma c’era dell’altro da tirar fuori e finalmente questo altro è confluito in Dove nascere, così s’intitola il primo disco del nostro in uscita il 5 maggio con in copertina un’immagine eloquente: quella di una bambina (la fotografa Serena De Bianchi all’età di 7 anni) con un serpente sulle spalle. Uno scatto che parla di paura e di coraggio: la paura di osare, di mettersi alla prova; il coraggio di superare quella paura come strumento necessario per concedersi una nuova avventura, una nuova strada da percorrere.
Dragogna un po’ di paura di presentarsi al mondo come cantautore l’ha avuta, come ammette in quest’intervista, e adesso che quei tentennamenti se li è lasciati alle spalle può raccontare Dove nascere come il frutto di quella che definisce «una decisione estremamente complessa». «Perché ho una band e ho una vita con la mia band e perché ho dovuto attendere la sicurezza e la maturità necessarie per dire “ok, io sono questa cosa, sono questa voce e posso arrivare fino a qui”. Ossia per riconoscere le mie caratteristiche e i miei limiti e sentirmi pronto per un album che mi rispecchiasse davvero. In tal senso penso che il mio spettacolo su De André sia stato propedeutico: salire su un palco da solo con un concerto in cui tutto dipendeva da me, in cui non potevo condividere la responsabilità con altri come accade durante i live dei Ministri, si è rivelato utile e ha contribuito a far sì che il bisogno di fare un disco con il mio nome e cognome, di cui potessi sentirmi pienamente responsabile, diventasse un’urgenza».
Così eccoci all’ascolto di 12 nuovi brani scritti da Dragogna, uno dei quali, Musica per aeroporti, prodotto dal medesimo con Stabber e tutti gli altri con Mattia Cominotto, già nei Meganoidi e fondatore del Green Fog Studio di Genova, città dove Federico vive da un po’, pur facendo spesso avanti e indietro dalla sua Milano. Non a caso anche l’etichetta cui si è affidato per questo suo debutto solista, Pioggia Rossa Dischi, è genovese, e l’album stesso «è nato e cresciuto in buona parte tra Milano e Genova, sui treni interregionali che mi conducevano da una città all’altra». Da tali cambiamenti e spostamenti è scaturita un’opera che «incrocia un’attitudine antica a soluzioni moderne» mettendo in fila una miscela di tracce marcatamente elettroniche come Dubbi e altre dall’anima più acustica, in cui il rapporto tra voce e chitarra è protagonista. Il tutto con sfaccettature multiple, unico limite di un disco più che riuscito, ma che forse avrebbe potuto essere più compatto dal punto di vista del sound.
«È un appunto, questo, che mi sono fatto anche io mentre lavoravo all’album», dice Dragogna. «C’è indubbiamente del pluristilismo e se in parte è legato alla voglia di fare un disco solista dopo tanto che ci pensavo, in parte deriva dall’esperienza della pandemia, che ci ha messi di fronte al fatto che non fosse più così ovvio poter fare delle cose che fino a quel momento avevamo dato per scontato fossero possibili. Tipo, che so, volare in Australia prima o poi… Credo sia stata quell’incertezza a spingermi, alla fine, a lasciare nell’album le mie diverse anime. Riconosco che se si ascoltano i dischi come li ascolto pure io, cercando una linea e non volendo essere sbalzati da un film all’altro, questo è un limite. Però la sincerità di ciò che io sono in questo momento prevede, ahimè, questo sbalzo».
C’è da dire che la sua scrittura resta riconoscibile anche in questo andare in più direzioni, e nei testi rivela uno sguardo personale capace di scavare nel profondo senza retorica e di toccare questioni esistenziali con un linguaggio mai banale, che apre a una riflessione stratificata sul significato del nostro essere-nel-mondo. Vale in primis per la title track, canzone con echi di Battiato «che parla di utopie, progresso e migrazioni», dice Dragogna sottolineando che «anche questo album è stato possibile grazie a quella lotteria che mi ha portato a venire al mondo nel 1982 a Milano».
E aggiunge: «Mi interessava parlare del migrare anche in quanto possibilità di scegliere dove far nascere i nostri figli. Inizialmente, per approfondire questo discorso, avevo avviato un dialogo con delle associazioni vicine alle cosiddette seconde generazioni, cioè ai figli di immigrati e rifugiati giunti nel nostro Paese tempo addietro: mi premeva comprendere com’è effettivamente vivere in Italia perché i tuoi genitori lo hanno scelto per te. Poi, però, ho scelto di trattare questa tematica nella forma di una canzone scritta in modo da dribblare ogni tipo di tifoseria e polarizzazione. Non volevo parlare di quanto siano tragiche le storie di chi muore nel Mediterraneo, non perché non lo siano, ma perché la migrazione non è solo un dramma, per chi ce la fa può essere un riscatto. Ed è ovvio che è un problema sia per chi parte, sia per chi accoglie, specie se si abita in zone degradate dove il timore che qualcuno ti porti via quel poco che hai è sacrosanto, ma, per come la vedo io dovremmo cominciare a parlare di tutto questo in maniera diversa, partendo da una constatazione: le migrazioni sono un fenomeno frutto del capitalismo, il che implica che se vuoi quest’ultimo, allora è giusto che ognuno si giochi la propria partita, e dunque come puoi dire a una persona nata in mezzo al deserto di starsene a casa sua, mentre noi che ci siamo trovati in mano le carte giuste sin dalla nascita possiamo fare quello che ci pare?».
È un’accettazione della complessità che si oppone alla semplificazione e richiede un atteggiamento critico, quella che Dragogna suggerisce qui come nell’ottimo singolo Dubbi, «brano che rispecchia il mio essere rimasto, nelle domande che mi pongo, un bambino, visto che come i bambini continuo a chiedermi il perché di ogni cosa e non smetto mai. È una delle ragioni per cui mi sono messo a studiare filosofia: il dubbio è da sempre strumento di conoscenza ed è buffo vedere come la comunicazione odierna lo stia progressivamente eliminando, riducendolo a faccenda privata. In un sistema che richiede a ciascuno di esprimersi attraverso uno status, un’immagine, un’opinione, una scelta, è molto raro che il dubbio riesca a trovare spazio, proprio per il tipo di dialogo che si è andato sviluppando su Internet e sui social e ormai non solo lì. Eppure per me il dubbio è imprescindibile, non importa che sia anche alla base di psicosi e complotti: lo so bene, ma ritengo comunque che l’idea di soffocare qualsiasi teoria complottista o di annientare le fake news non andrebbe nemmeno presa in considerazione. Innanzitutto per un problema teoretico: chi dovrebbe stabilire la verità? In secondo luogo, perché ritengo che questa pretesa ci porterebbe a una perdita in termini di ricchezza della conoscenza, tenuto conto che persino le tesi più idiote del mondo, persino il terrapiattismo, ci dicono qualcosa dell’uomo, di noi esseri umani. La richiesta di prendere posizione “o con noi o con loro” è stata a lungo associata all’idea dell’esportazione della democrazia americana e a quella della lotta al terrorismo, ma oggi questo “o con noi o con loro” abbraccia qualunque argomento e io, lungi dal voler risolvere alcunché, mi limito a osservare, nelle follie e nelle perversioni che si diffondono in questo sistema, l’umanità in tutte le sue contraddizioni. Come canto nel brano, “c’è gente che aspetta gli alieni, ma poi non sopporta chi viene da fuori”».
Lanciato anche con un blog, l’album Dove nascere ci fa conoscere – si diceva – diverse facce del Dragogna appassionato di elettronica: da quella più percussiva e quasi tribale già affiorata nel suo lavoro di produttore al fianco di Vasco Brondi ed evidente in Dubbi, a quella eterea che avvolge l’ascoltatore in Sei diventato un uomo e Cascate, «sorta di reprise di Don’t Give Up di Peter Gabriel e Kate Bush», fino a quella più decisa e acida di Sentiti libero.
«Tutti questi elementi erano già nel mio bagaglio culturale. Ora li so utilizzare meglio, ma erano già lì, dato che da tempo ricerco sintetizzatori con lo stesso spirito da nerd con cui prima cercavo solo chitarre. Di sicuro sul mio lato più elettronico ha influito una certa formazione sentimentale legata agli anni ‘80: la mia generazione – devono essersene accorti gli uffici marketing dietro alla serie Stranger Things – è cresciuta con nelle orecchie i synth che sentivamo nelle sigle dei telefilm e nelle colonne sonore cinematografiche e che ci facevano sognare anche più della chitarra. E questo è stato un imprinting forte, per cui a me il suono di un pianoforte finto, come dico in Fibra, fa impazzire».
Di qui influenze che comprendono il Brian Eno autore di quel capolavoro iconico che è l’album Music for Airports e che ha ispirato a Dragogna la sua Musica per aeroporti, «ma anche quel Badalamenti ricordato per le musiche di Twin Peaks e Mulholland Drive, ma che in realtà pure lì stava suonando delle tastiere digitali, non stava dirigendo un’orchestra». Senza dimenticare «classiconi come Aphex Twin, i Justice di dieci anni fa o i Depeche Mode, che ho scoperto tardi – la prima volta che ascoltai Enjoy the Silence avevo 18 anni – ma che mi fulminarono».
Dragogna presenterà il suo esordio solista già da questo fine settimana con alcuni incontri e una serie di concerti che lo vedranno sul palco con Emanuele Tosoni (batteria), Andrea Ragnoli (tastiere) e Filippo Caretti (basso, chitarra): si parte il 6 maggio alla Latteria Molloy di Brescia, per proseguire il 13 al Capanno Black Out di Prato, il 28 al Miami Festival di Milano, l’8 e il 16 giugno rispettivamente all’Hiroshima Mon Amour di Torino e al Monk di Roma.
«Sentivo che qualcosa in me era rimasto inespresso, non tanto rispetto ai Ministri, ma rispetto alla forma rock, forma che mal si sposa con la mia voce poco loud, più in zona Sufjan Stevens. Un timbro che richiede attorno una delicatezza particolare, cosa che ho percepito subito in sala prove: quando sei in una saletta, se la tua voce non tuona come quella di Divi, per esempio, è difficile anche solo riuscire a provare con un batterista che suona, e questo indipendentemente da qualsivoglia sistema di amplificazione. Viene da qui l’esigenza di esplorare sensazioni più tenui, meno urlate, meno sloganistiche, meno dirette di quelle esplorate con i Ministri e di prendermi la libertà che una volta era dei cantautori di portare avanti dei discorsi con uno sguardo non limitato all’attualità stretta. Attualità che, infatti, emerge solo in Musica per aeroporti, non per niente l’unico pezzo con la produzione per me bellissima di Stabber, le cui parole sono un metatesto su ciò che viene richiesto alla musica pop in questo presente, cioè di assomigliare sempre più agli aeroporti, a queste cittadelle nel nulla abitate solo da grandi marchi, in cui è paradossalmente accettato, più che altrove, dormire per terra».
Chi ha orecchie per intendere, intenda. Del resto, un album come questo di Dragogna si offre a più livelli di lettura e non perché sia di difficile ascolto, anzi, musicalmente è a tratti «un po’ storto», per dirla con l’autore, però anche ricco di melodia. «Se da una parte ho amato usare tutto quello che l’oggi metteva a disposizione per scrivere e registrare musica, ho anche lavorato in modo che ogni canzone possa funzionare ugualmente nella sua versione più spoglia», è il commento del 40enne, che nel disco canta anche di libertà e di amore, di debolezze e conflittualità, di illusioni e disillusioni, della crescita come una minaccia, per chiudere con una traccia, Cacciatori, nata lungo un sentiero dell’Appennino, in quell’entroterra ligure dove il nostro si è rifugiato per una manciata di giorni in una casetta in mezzo a un bosco raggiungibile solo a piedi.
«In Cacciatori c’è una riflessione sulla perdita dell’idea cristiana di perdono, e lo dico nonostante non abbia una fede religiosa. I cacciatori del titolo sono i veri nuovi ultimi di oggi, ossia, sintetizzando, i nostri padri: persone di un’altra epoca, diventate adulte negli anni ’90, con un attaccamento quasi ossessivo alle cose, ai macchinoni, allo status, e con una buona dose di sessismo dentro di sé. Uomini che si assomigliano tutti, che hanno sempre faticato a esprimere i propri sentimenti, che ora non hanno più il loro posto nel mondo e che anche quando ce l’hanno ancora, perché magari hanno conservato le loro posizioni di potere, sono comunque i maschi cis ritenuti il peggio possibile dalle nuove generazioni. E io sono d’accordo su questo, però penso anche che quei padri presto scompariranno».
«Perciò nella canzone mi sono immaginato questi maschi adulti nell’istante in cui, rendendosi conto che ciò che avevano sempre cacciato non esiste più, smettono di sparare, e credo che prima che questo avvenga sarebbe giusto cercare di capire il contesto in cui sono cresciuti, in cui in parte hanno fallito, e farci pace. Anche perché chi ci dice che un giorno non saremo noi quelli visti come ridicoli? Oggi guardiamo certi film degli anni ’80 pieni di razzismi e di sessismi ed è vero, è impressionante, ma più che cancellare dovremmo perdonare e passare oltre, sperando che tra 30 anni qualcuno faccia lo stesso con noi e con i nostri errori».
Parla così Dragogna, fedele all’idea che tutto vada osservato da più prospettive, e quando gli chiediamo com’è andata l’esperienza in solitaria nel bosco confida: «Mentre ero là mi sono preso dell’LSD regalatomi da un’amica. Sono sempre stato un fan dei funghi allucinogeni come strumento di ricerca, ma l’LSD non l’avevo mai provato. La cosa divertente è che il giorno dopo averlo assunto, dopo aver immaginato, suonato, registrato, dopo tutta questa furia creativa, mi sono svegliato che stavo malissimo pensando “cavoli, che postumi pesanti…”. Invece era Covid».