I Fontaines D.C. sono una nave pirata
Dopo essere rimasta ancorata all’immaginario irlandese, la band ha mollato gli ormeggi. Ora naviga le acque del mainstream pronta a prendere d’assalto le classifiche. Il nuovo album ‘Romance’ è il suo più pop, sexy e pieno d’immaginazione, è il disco d’una banda di disperati romantici in piena apocalisse, è amore ai tempi della collera. Spiega tutto in questa intervista il cantante Grian Chatten
Foto: Theo Cottle
Ride quando gli dico che non ero preparato a vederli così glam e tutti cromati di blu, di giallo, d’arancione. «Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero», diceva uno dei due fra Bono e Oscar Wilde. Forse anche quella che stanno indossando i Fontaines D.C. è una maschera? «In un certo senso sì», dice il cantante Grian Chatten passeggiando per i giardini di Palestro, a Milano, durante una visita promozionale della band. «Mi piaceva l’idea di fare un disco in cui dentro ci sono io, ma con indosso una maschera, un album dov’è sfumato il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è».
L’album in questione s’intitola Romance è il quarto dei Fontaines D.C. ed è il loro più spudoratamente pop. È di quelli che ascolti e dici: questa volta fanno il botto. Chissà che non metta fine alla noiosissima litania di articoli sui Fontaines alfieri del post punk. In un certo senso, è il loro momento Achtung Baby. È anche il loro disco meno irlandese. Il debutto Dogrel era un giro per le strade di Dublino, A Hero’s Death cantava il distacco dall’Irlanda, Skinty Fia era un saggio sonoro sulla diaspora. Romance è il disco d’una band infine sradicata, non più gente di Dublino ma di mondo, musicisti eccitati dalla prospettiva di reinventarsi.
«Siamo dei cazzo di pirati adesso», dice Chatten. A giudicare dai testi e dal tono della musica, sono anche disperati romantici in tempi apocalittici. Il cantante dice che si sentono come pinguini che vivono in un acquario e che noialtri osserviamo dall’altra parte del vetro. E mentre loro si chiedono se la vita reale è la loro oppure la nostra, appoggiamo la mano sul vetro, sperando in un assurdo, confortante contatto. Come in un sogno.
Nel disco canti che forse l’amore è un luogo. In che senso?
Lo vedo come luogo al quale non hai accesso, ma che cerchi di raggiungere, di toccare. A volte mi sento come se fossi un pinguino in un acquario, con la sua bella piscina artificiale e la riproduzione del suo habitat naturale. Sono lì e guardo la gente che sorride e appoggia le mani contro il vetro che ci separa. Oppure al contrario sono io fuori dalla gabbia e la gente è dentro. Quale dei due lati è il sogno e qual è la realtà? L’habitat dei pinguini ricreato artificialmente o il mondo di chi li va a vedere dall’altra parte del vetro? E poi, chi è libero e chi è in gabbia? Ma la cosa importante è appoggiare la mano contro il vetro, questo vuol dire Romance.
Com’è che hai cominciato a chiederti cos’è reale e cos’è illusorio?
È per via della strana vita che facciamo noialtri musicisti. Per quanto cerchi di mantenere vivi i rapporti, finisci per sentirti disconnesso da amici e famigliari. Non mi sto lamentando, eh, sono stufo di leggere interviste in cui mi lamento, mi leggo e mi viene da dirmi da solo «ma chiudi quella cazzo di bocca». Ma questo senso di alienazione c’è e fa parte del mio mestiere, che però al tempo stesso è anche un sogno in cui riesco ad essere felice. E quindi, vale la pena svegliarsi o è meglio restare addormentati? Di certo la nostra realtà non è la realtà di voi che state dall’altra parte del vetro. Mi sa che alla fine i pinguini siamo noi, mica voi.
Com’è che sei finito a fare questa strana vita? Voglio dire, volevi essere amato, volevi esprimerti, cos’altro?
Non sono mai stato capace di fare amicizia con gli altri, questo è. Temo d’essere una persona difficile da capire, sicuramente lo ero un tempo. Forse oggi che mi sento più a mio agio con me stesso la cosa è meno evidente, ma da ragazzo più ci provavo e più la gente mi trovava strano, e non intendo strano nel senso di figo. Ero uno che passava 20 minuti a preparare una battuta e poi quando la faceva nessuno rideva e perciò prima di riprendere coraggio e rifarsi avanti ci metteva sei mesi. E quindi mi sono chiuso nella mia camera da solo, a scrivere canzoni, e lì finalmente ho capito chi ero. Lì mi sono capito. E oggi sento che pure la gente mi capisce, finalmente. Ho trovato il mio posto nella società. Ho trovato un senso. La gente ora ride alle mie battute.
Questo succedeva a Dublino o in una piccola città?
In entrambi i posti, non fa differenza. Ho iniziato a sentirmi almeno un po’ compreso quando sono andato a studiare musica al college. Lì m’hanno detto che avevo talento. Io mica lo sospettavo, l’ho capito dopo che gli altri hanno iniziato a vedermi così.
Ora la gente comincerà a vederti in modo ancora diverso. I Fontaines sono una band in continua evoluzione, ma mi pare di capire che questa volta la spinta al cambiamento è ancora più forte.
Vero. Abbiamo cambiato produttore, etichetta discografica, look. Sai, prima era tipo un diagramma di Venn (lo illustra tracciando in aria linee immaginarie, nda): qui c’è Dogrel, qui A Hero’s Death e qui Skinty Fia, e alla loro intersezione c’era la band.
E quel sottoinsieme era diventato un po’ piccolo, vi andava stretto…
Esatto. È che odio quella cosa… come si dice… la stagnazione. E allora col produttore di questo disco che è James Ford ci siamo presi più rischi, per far qualcosa di completamente diverso, un disco più vario, ma con un suono coeso, una bella sfida per noi e per lui.
Romance è diverso dagli altri vostri album, è più pop, è anche cupo ma c’è meno conflittualità. Direi che è più sexy, se ha senso per te.
Eccome se ce l’ha. Questa band ora è molto più sexy. In passato, e questo forse per via del retaggio cattolico irlandese, provavamo un senso di colpa e di vergogna anche solo quando ci sentivamo a nostro agio con noi stessi. Ce ne siamo liberati e ora possiamo fare canzoni dotate d’una certa sensualità.
Avete ricevuto un’educazione cattolica?
Sì, tutti quanti.
E tu credi ancora?
No, ma mi affascina il simbolismo della religione e il senso che dà alla vita per chi ci crede. Invidio le persone che hanno fede.
Tornando a Romance, prima di iniziare a lavorarci avete discusso di come doveva suonare l’album?
Ma certo, non usando però riferimenti musicali. Preferiamo parlare di cinema o delle città che abbiamo visitato, tipo: cerchiamo di catturare in questa tale canzone come ci siamo sentiti quando siamo stati a Tokyo. Io poi continuavo a parlare di Paolo Sorrentino.
Quali film?
Beh, La grande bellezza, che ha avuto una grande influenza specialmente sulla canzone che s’intitola In the Modern World.
In che modo?
Volevo mettere nella canzone la bellezza antica e sfiorita che c’è nel film abbinandola a un’idea di distopia. Jep Gambardella ha scritto un solo capolavoro quando aveva tipo 27 anni e da allora vive in uno stato di stagnazione. Per qualche motivo m’ha fatto venire in mente il mondo dopo l’esplosione di una bomba nucleare. Come si fa a riprendere a vivere, a sentirsi di nuovo coinvolti nell’esistenza?
La stagnazione, di nuovo. E poi l’amore. Per un’associazione di idee mettendo assieme i titoli di due canzoni, Romance e In the Modern World, m’è venuto da pensare che uno dei temi dell’album sia proprio l’amore in un mondo post-apocalittico o quasi.
È amore nel declino, in un mondo distopico. Ho immaginato gli ultimi giorni della Terra, dove non c’è più spazio per la compassione perché si pensa solo alla pura e semplice sopravvivenza. Improvvisamente però qualcuno trova una vecchia radio degli anni ’50, l’accende e per magia escono le note di I Can’t Help Falling in Love. È di questo che parla il disco, del tentativo di preservare quel sentimento. Come sulla copertina: c’è lo strano mondo che stiamo creando, con quei colori strani, e poi un cuore. Ci sono il grottesco e il futuristico, ma anche il battito cardiaco.
Pure nei testi ci sono sentimenti contrastanti. Amore, ma anche dolore. Sentirsi vivi grazie a una storia, ma anche essere intrappolati in una relazione tossica.
Ci sono tutte le diverse forme d’amore, che è anche potere e controllo. Come in Death Kink, che parla di qualcuno che approfitta di chi ha bisogno di attenzione, affetto, convalida. Hai presente il verso che dice “hai riconosciuto l’odore del dolore”? Parla del terreno instabile su cui si sviluppano le relazioni.
A un certo punto canti che non senti niente, ma che in definitiva non stai male. È questa comoda insensibilità uno dei tratti della vita moderna che volevi cantare?
Assolutamente sì. Conosco forme di tristezza che hanno qualcosa di euforico, che sono persino migliori della felicità. Come la malinconia, che per me è la cosa più bella, è la sensazione che preferisco.
Perché?
Perché mi fa sentire connesso al mondo. Vedi, è come se ci fosse una porta da cui le emozioni cercano di entrare. Se sono troppe, s’ammassano sulla soglia e si bloccano l’una con l’altra. Col risultato che finisco per non provare alcunché. Poi magari un giorno succede qualcosa, magari sono in hangover o chissà cos’altro ed ecco che le emozioni cominciano a passare da quella porta una alla volta. È una sensazione meravigliosa. È come quando vai a un funerale o a una veglia. Ci vai perché hai bisogno di sentire qualcosa e di condividerlo con gli altri, oltre naturalmente a rendere omaggio a chi non c’è più.
Ascolto certe canzoni di Romance e provo un misto di felicità e tristezza.
Credo sia il nostro marchio di fabbrica. Se mi capita di scrivere una progressione di accordi che sembra troppo allegra, scrivo un testo che va nella direzione opposta, e viceversa. Ma non è solo una questione di bilanciare musiche e testi. In certi punti di questo disco siamo riusciti ad andare in entrambe le direzioni e in profondità, 100% di tristezza e 100% di positività, come in Favorite.
Che per qualche motivo mi ricorda gli Psychedelic Furs o certe altre cose anni ’80.
L’epoca del new romantic. Vedi? Gli Psychedelic Furs sapevano essere emozionanti e allo stesso tempo stoici.
Senti, ma chi era il tizio che cantava al posto tuo nel primo album dei Fontaines?
Ahahaha…
Seriamente, il tuo modo di cantare è molto cambiato nel tempo, così come la capacità di esprimere e trasmettere emozioni. Ascolti Dogrel e poi Romance oppure il tuo disco solista Chaos for the Fly e la differenza nel canto è abissale.
Penso sia una questione di fiducia. Forse anche ai tempi di Dogrel ero in grado di cantare così, ma ero io il primo a non crederci. Ora finalmente ho la sicurezza che mi mancava e questo perché ho iniziato ad apprezzare e capire la mia voce. Ho capito quanto potente può essere il modo di cantare più delicato e dolce, soprattutto quando hai canzoni come quelle di Romance. Oggi mi rendo conto che la mia voce può fare cose che altre non possono fare. Un tempo invece la odiavo la mia voce, ma di brutto.
Un bel problema per uno che di mestiere fa il cantante.
Lo è ancora di più per uno che oltre a cantare compone. Finisci per non scrivere canzoni che ti aiuterebbero a cantare meglio. Questo è forse il primo album in cui abbiamo fatto in modo di usare la voce come un personaggio immerso in un mondo. Ho capito l’importanza del contesto.
La butto lì: forse un tempo non accettavi di essere bravo a cantare melodie. All’inizio non…
Non ero bravo e basta (ride).
No, intendevo, non te la sentivi di fare cose più melodiche e pop. Sai, l’underground e le sue regole…
Probabilmente è così. Avevo paura di suonare troppo bene e di sembrare troppo vulnerabile, la qual cosa non ha alcun senso perché scrivevo testi che erano effettivamente vulnerabili e a volte belli, sì, ma c’era qualcosa che non tornava. Forse avevo semplicemente la tipica arroganza giovanile di chi vuol fare il duro. Oggi sono diventato abbastanza duro da mostrami vulnerabile. Quando salivo sul palco avevo troppa foga, troppa energia. Non riuscivo a rilassarmi e cantare in modo più dolce. Ero tutto nervosismo e adrenalina.
Chi sono i grandi autori di testi del rock per te?
Mick Jagger.
Davvero? Non è il primo nome che viene in mente quando si parla di testi.
E invece credo sia sottovalutato come autore. Scrive testi incredibilmente buoni. Ha un modo suo brillante di esprimersi, vedi ad esempio Sympathy for the Devil. E poi ovviamente Shane MacGowan, manco dovrei dirlo, lo sanno tutti che mi piace.
Sei stato al suo funerale?
No, ma avevo degli amici che erano lì e mi mandavano dei video. Stavamo registrando l’album. Eravamo in studio quand’è morto e abbiamo dovuto interrompere per un po’.
Una volta hai detto che MacGowan aveva tutto ciò che ami della musica.
Più che poeta, lo considero un drammaturgo, uno in grado di cantare certi temi in modo sottile. Prendi per esempio Fairytale of New York. C’è la storia principale, che parla di un ubriacone, c’è il Natale, c’è un conflitto. E poi ci sono echi dell’emigrazione dall’Irlanda, con quell’accenno a Galway e i ragazzi del coro della polizia di New York. C’è la piccolezza dell’Irlanda e i grandi sogni di New York. È riuscito a metterci dentro tanti di quei temi e l’ha fatto con un senso di autenticità. E poi, avrebbe potuto prendere questa canzone perfetta e darla a un cantante pop per portarla al successo e invece l’ha tenuta per sé e anche questo è bello.
C’è un passaggio in Favorite in cui dici che quando ci torni le città sono strane. Torni spesso a Dublino?
Sì e se sto lontano a lungo quasi non ci voglio tornare perché è una città che cambia a una velocità impressionante. Non è facile vedere gli angoli dove il tuo fantasma e quello dei tuoi amici giocavano da bambini che sono diventati, che ne so, un hotel di sette piani per dirigenti di Google. È sconvolgente quanto la città sta cambiando, tutti i nostri amici se ne sono andati, non ci si può più permettere l’affitto, è peggio di Londra, è pazzesco.
Questo è il vostro album meno irlandese. Già coi precedenti vi stavate allontanando sempre di più dalle vostre radici, in questo le radici non ci sono proprio più. Vi siete reinventati come band. La tela ora è bianca, no?
Giusto. L’Irlanda era una rete di sicurezza, ma anche un trampolino su cui abbiamo iniziato a rimbalzare sempre più in alto. Ora lo abbiamo tolto da sotto i piedi e stiamo capendo se riusciamo a volare anche senza. È importante artisticamente scoprire noi stessi al di fuori del contesto dell’Irlanda, scoprire qual è la nostra identità creativa.
E questa cosa è solo eccitante o anche spaventosa? Allontanandovi dalle vostre radici potete formare la vostra identità, ma senza radici non temete di sentivi un po’ persi? Anche la vostra musica adesso sembra provenire da… beh, da nessun posto.
In passato ho opposto resistenza ad andare fin in fondo a questa vita un po’ randagia, mollare gli ormeggi, diventare altro. Ma ora l’abbiamo fatto, abbiamo tirato su l’ancora, ora siamo dei cazzo di pirati. Forse questo è il primo album in cui ci siamo completamente impegnati al 100%.
Siete dei pirati vagamente glam, adesso. Non m’aspettavo questo look. È una maschera?
(Ride) Sai, non voglio esaurire le cose personali da dire. Ho fatto da non molto un disco solista tutto mio, decisamente intimo, e quindi mi piaceva l’idea di farne un altro dove dentro ci sono sempre io, ma con indosso una maschera, un album dov’è sfumato il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è.
Perché il rock alla fine è anche performance, no?
Come ti dicevo, io lo vedo come un sogno. Ed è proprio nei sogni che esprimi te stesso. Far musica ed esibirci ci permettono di sognare restando sveglio. E forse la gente viene ai concerti perché vedendoci sognare si sente liberata. E non c’è niente male in questa dimensione perché dietro a ogni performance c’è sempre e comunque qualcosa di reale. Quante volte parlando con qualcuno ho trattenuto le parole, ho represso la mia natura, non mi sono permesso di dire una cosa per rendere le cose più facili? Ecco, anche quella è una performance. È una performance non intenzionale. Se non altro quando sei sul palco è intenzionale.
Parli spesso di sogni. Ne fai? Li ricordi la mattina?
Sì, sogno tanto. Faccio brutti sogni, spesso serpenti anche se non ho mai dovuto affrontarne uno in vita mia. Forse li sogno per via del senso di anticipazione, per il movimento lento e poi rapido, per il fatto che non ti puoi fidare e questa mancanza di fiducia mi spaventa.
In questi tempi di social media e attivismo digitale, agli artisti è richiesto costantemente di prendere posizione: parla di Gaza, di’ qualcosa sul cambiamento climatico, parla dell’Ucraina, della disoccupazione, di Trump. Pensi che un artista abbia il dovere di prendere posizione? Tu senti questo dovere? So che te lo chiedo nel momento in cui avete un disco chiamato Romance, non Fuck War.
Grazie per avermelo chiesto. Penso che tutti, non solo gli artisti, abbiano il dovere di parlarne, specie di fronte ad atrocità come quelle che stanno accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Ma una cosa sono gruppi come il nostro che se lo possono permettere, un’altra sono quelli più giovani a cui non puoi chiedere di boicottare un festival perché è sponsorizzato da Barclays.
Sei pronto a diventare un pinguino sempre più famoso, cioè a vedere questa band diventare sempre più grande? Credo ci siano grandi aspettative attorno quest’album. Puntate a diventare una rock band da palasport?
Non cerco il successo fine a sé stesso, però prima di morire voglio provare a fare fino in fondo questa vita stramba. Sarà ingenuo da parte mia, ma ogni tanto penso che potremmo diventare una band enorme che suona davanti a 60 mila persone e poi mollare tutto e tornare a fare una vita normale.
È questo è il tuo grande piano?
Per 24 anni nessuno ha saputo chi fossi, ora voglio provare quest’altra vita almeno per un po’.
Come ci si sente a stare su un palco di fronte a migliaia di persone che sono lì per te, che applaudono, ballano, pogano, saltano, cantano?
Fino ad oggi proprio per l’educazione cattolica di cui ti dicevo mi sono vietato di godermela. E poi c’è un altro aspetto. Mi mette a disagio, chessò, salire su un treno e trovarmi di fronte uno che mi fa un video col telefonino. Però mi ripeto che se imparerò ad accettare il mio nuovo status, allora andrà tutto bene, finirò per accettare anche questo. Sto cercando di adattarmi, non so se ho risposto alla tua domanda.
Lo hai fatto. C’è qualcos’altro che vorresti aggiungere a quanto ci siamo detti?
Ah, sono pessimo in queste domande aperte… Anzi no, una cosa da dire ce l’ho (ride): vorrei ringraziare anticipatamente l’Academy per il Grammy che ci darà.