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I Gomma contro gli ‘Zombie Cowboys’ del neoliberismo

Macché "andrà tutto bene". La band usa le chitarre come armi d'assalto e canta le macerie sociali della pandemia e le iene del capitalismo. «Stava andando tutto a puttane anche prima del virus»

Foto press

«Una raccolta di 12 tracce scritte tra marzo e maggio del 2020 durante il primo lockdown nazionale e, proprio per questo, figlia della necessità e dell’urgenza. Urgenza di ripensare al nostro ruolo, come singoli e come comunità. Urgenza di evitare sfumature, per non essere fraintesi».

Scrivevano così, i Gomma, quando alcune settimane fa annunciavano sui social il loro terzo album, Zombie Cowboys. Uscito oggi, il disco trasmette, in effetti, una tensione particolare: è come se a unire i brani ci fosse un fil rouge fatto di disagio e rabbia che se musicalmente si traduce in un muro sonoro in bilico tra post punk, emocore, hardcore e shoegaze, nei testi diventa un urlo contro un mondo dominato da dinamiche sempre più violente, divisive, talvolta disumane.

Originari di Caserta, oggi divisi tra la città campana (Giovanni, chitarrista, e Matteo, bassista), Bologna (Ilaria, cantante) e la provincia di Milano (Paolo, batterista), i quattro Gomma puntano a colpire allo stomaco e ci riescono con una manciata di canzoni potenti, crude, incalzanti. A tre anni da Sacrosanto, Zombie Cowboys li colloca in quella scena allargata che va dai Verdena ai Massimo Volume, dai Fine Before You Came al (compianto) Teatro degli Orrori. Se si guarda alle classifiche, sono decisamente controcorrente. «Ma a noi interesserebbe anche solo poter suonare dal vivo», dichiarano in videochiamata su Zoom.

Com’è nato Zombie Cowboys?
Giovanni: Da un disco già quasi chiuso, che abbiamo accantonato.

Sul serio?
Giovanni: Sì, terminato il tour di Sacrosanto avevamo quasi finito di lavorare a quello che sarebbe dovuto diventare il nostro nuovo disco, ma una volta arrivato il Covid ci siamo detti che pubblicare un album che non c’entrava niente con ciò che dovevamo affrontare come collettività non aveva senso. Perché anche chi ha un pubblico piccolo ha una responsabilità: è come avere un megafono, quindi tanto vale dire cose sensate. Così a marzo 2020 ho chiamato Ilaria e le ho detto: dobbiamo fare un altro album, diverso, con un altro significato. Speravo non mi uccidessero, lei, Paolo e Matteo, fortunatamente sono rimasto incolume.

Com’era il disco che avete deciso di rimettere nel cassetto?
Giovanni: Molto diverso da questo che pubblichiamo ora, dentro c’erano pianoforti, archi… Era nato dalla volontà di sperimentare, di provare a metterci un altro vestito. Anche i testi non c’entravano nulla.

E con Zombie Cowboys, com’è continuata la storia?
Giovanni: Abbiamo recuperato delle idee che avevamo iniziato a buttare giù durante le ultime date del tour di Sacrosanto.

Ilaria: Anche prima, in realtà. Avevamo dei provini vecchi, registrati in saletta con le note audio del telefonino: siamo partiti da quelli, sono stati la miccia. Giovanni mi aveva chiesto di andarli a ripescare per pensare come prima cosa a un suono. Poi è andata che abbiamo capito prima di cosa volevamo parlare, sarà che dato il periodo storico era inevitabile toccare certi temi.

Giovanni: Non per tutti eh, visti i dischi che sono usciti.

Ilaria: Vabbè, quella è una scelta, c’è a chi non gliene frega un cazzo e…

Parliamo di voi, però.
Ilaria: Ok, noi in pratica abbiamo fatto un brainstorming sul concept, dopodiché abbiamo trovato una chiave anche per il sound.

Giovanni: All’inizio avevamo solo le idee di stesura di Guancia a guancia e di Santa pace, la traccia di apertura. Avevo chiesto a Paolo e Matteo cosa gli ricordasse quel tipo di atmosfera ed è lì che per la prima volta si è cominciato a parlare di zombie cowboys, anche se in quel momento non era un titolo, ma solo un’idea musicale. Personalmente ho sempre rifiutato l’idea del glam, dell’art for art’s sake, quindi anche se quel rimando mi piaceva, senza un concetto dietro non mi sembrava potesse funzionare. Quando è esplosa la pandemia, però, è cambiato tutto: mi è venuto in mente l’immaginario di George A. Romero, il regista, e tutto quel filone di critica sociale portata avanti attraverso il recupero del genere zombie movie. In più l’immaginario western mi ha sempre colpito, perché racchiude tutti i principi del capitalismo: gente senza scrupoli che in un determinato territorio cerca di accaparrarsi la maggior quantità di risorse possibile con una mentalità colonialista, fregandosene delle popolazioni già presenti in loco perché ciò che conta è solo avere la meglio. Essendo la stessa mentalità che domina in Europa occidentale e in Italia…

Da questo punto di vista l’artwork è piuttosto esplicito.
Ilaria: La copertina è venuta alla fine, e pensa che inizialmente volevano farmi mettere su un cavallo a gambe all’aria.

Giovanni: No, io volevo la mucca, perché l’idea era quella della bestia da soma (ride).

Ilaria: Un vitello, in realtà (ride). Comunque ero restia per paura, non ero particolarmente propensa a salire sopra a un animale, nuda o vestita che fossi.

Com’è finita?
Giovanni: Guarda, in sintesi: volevamo una copertina che rendesse inequivocabile già in partenza il macro-tema del disco e la nostra posizione al riguardo. Questo semplicemente perché, secondo noi, quando si parla di politica sarebbe meglio evitare zone grigie e vaghezze. Il contenuto dell’immagine è meramente simbolico, il cowboy che prende fuoco rappresenta il fallimento-morte del capitalismo moderno. Il testo, invece, lo abbiamo costruito manipolando un articolo di Paul Johnson pubblicato sul Telegraph il 17 aprile 1979. Uso il verbo “manipolare” perché Johnson è un noto conservatore, anticomunista, considera che ha difeso Nixon nello scandalo Watergate. Quindi il gioco consisteva nell’appropriarsi simbolicamente dei mezzi propagandistici dello stesso capitalismo neoliberista per criticarlo in forma artistica.

I nuovi brani parlano di isolamento, distanze fisiche che diventano distanze emotive, paura del futuro, tutte cose con cui la pandemia ci ha costretti ad avere a che fare. Come avete vissuto il periodo di quarantena forzata in cui li avete scritti?
Ilaria: Nelle settimane di lockdown le mie comunicazioni personali hanno subìto un calo piuttosto critico, anche perché la voglia di comunicare a distanza che tanti hanno, io onestamente non ce l’ho. Se non fosse stato per il lavoro sul disco sarei stata off-limits, e non solo per alcuni, per chiunque.

Matteo: In effetti l’album ci ha tenuti impegnati ed è stato un bene per tutti.

Paolo: È stato un bel pensiero in un momento non troppo felice, poter continuare a fare musica nonostante la lontananza e tutto il resto ci ha tirati su. Oltre a permetterci di non annoiarci.

Giovanni: Io durante quel primo lockdown, benché l’idea di provare ad affrontare la pandemia tutti insieme mi facesse bene, avevo dei sentimenti negativi: la retorica dell’andrà tutto bene mi è stata da subito sulle palle, visto che la voglia era di dire che tutto stava andando a puttane già da molto prima.

Paradossalmente in seguito lo spirito collettivo è diminuito, oggi si osserva un tutti contro tutti ed è inquietante: che ne pensate?
Giovanni: Hai ragione, siamo molto disuniti.

Ilaria: E il disco altro non è che un inno all’unione.

Alla “santa pace”?
Giovanni: Santa pace è un’ode alla meditazione, attività che avevo scoperto da tempo, ma che durante quella famosa quarantena sono riuscito a praticare in maniera più soddisfacente. Bisognerebbe capire che la serenità è qualcosa che si può trovare solo se la si cerca con costanza dentro di sé, non fuori.

Questo ha che fare con l’immagine dei “vecchi che non cercano il sole, ma cercano il mare” al centro di Sentenze?
Giovanni: Non esattamente, quel brano è nato più da un senso di rassegnazione. Perché tutti noi della band ci immaginiamo la vecchiaia come quel periodo dell’esistenza in cui anche se hai dei problemi puoi affrontarli più serenamente, perché sei già proiettato verso l’altra parte della vita, cioè il fine vita. E allora, visto che al momento abbiamo un sacco di incertezze rispetto al futuro, ciò che ci resta è la speranza che almeno da vecchi questo senso di precarietà cesserà.

Siamo addirittura all’invidia nei confronti degli anziani?
Giovanni: Già.

Non vedo molti anziani sereni, a dire il vero, ma idealmente capisco cosa intendi. Però mi chiedo: la rabbia di cui la vostra musica si nutre non si lega a uno scontro generazionale?
Ilaria: Per me sì, indubbiamente.

Ve lo chiedo anche perché avete lanciato il video di Mamma Roma girato all’ex Italsider di Bagnoli descrivendo la parabola dell’ex acciaieria come «la storia di un delitto industriale, del decentramento produttivo e della crisi energetica, consumato al grido di “meno Stato e più mercato”».
Ilaria: Più che individuare un colpevole, però, ciò che ci interessa è individuare quei momenti in cui le cose potevano cambiare e non si è fatto nulla perché questo avvenisse.

Giovanni: Ma sin da Thomas Jefferson, dalla rivoluzione americana (ride)!

Ilaria: Mettiamola così: la consapevolezza che ci siano state delle fasi in cui si poteva cambiare la rotta e non si è fatto, e che a risentirne saranno i nostri figli e nipoti, le generazioni future, fa incazzare. E credo si senta, un brano come Iena mi pare particolarmente eloquente: il termine “iena” mi è venuto in mente un giorno mentre pensavo all’apocalisse, mi sono immaginata questa iena che si nasconde tra le persone e che ride non da due anni, ma da secoli. Era questo il messaggio che volevo far passare, perché ok, ci siamo spaventati tutti tantissimo con l’arrivo di questa pandemia che è una guerra – e come ogni guerra la si subisce diversamente a seconda del contesto sociale cui si appartiene – però quello che mi ha colpita di più è che moltissime persone non avevano mai pensato prima al fatto che il mondo stesse andando a rotoli. E con mai intendo mai: a me è sembrano strano, di qui la canzone.

Ora vedete più consapevolezza?
Giovanni: No, anzi. Il problema è che a guidare la politica è l’economia, ma a guidare quest’ultima è la tecnica, e non è ancora stato introiettato in maniera condivisa il concetto che lo sviluppo in senso tecnico non corrisponde necessariamente al progresso dell’umanità.

Sento aria di studi filosofici.
Giovanni: Macché, ho la quinta elementare (ride).

Parliamo del vostro sound. Agli esordi eravate stati accostati alla scena indie pop, al punto da aprire dei live per Calcutta. Ma già allora secondo me non avevate granché a che vedere con quel mondo…
Paolo: Fu colpa di Elefanti.

Ilaria: Secondo me, però, eravamo comunque più indie pop allora che oggi.

In che senso?
Giovanni: Nel senso che la raffinatezza con cui cerchiamo di mettere a punto ciò che abbiamo in mente oggi è lontanissima dall’approccio di allora, quando facevano un disco in quattro giorni.

Ilaria: Esatto, eravamo più punk allora di adesso.

Però, parlando di suoni e atmosfere, con Sacrosanto, nel 2019, avevate fatto capire che il vostro territorio era un altro e questo album lo conferma: vi muovete tra post punk, emocore, shoegaze, potreste piacere a chi ama i Verdena, ma anche i Fugazi.
Giovanni: Sai qual è la cosa più strana? Che spesso si viene definiti più maturi quando si abbracciano progressioni più semplici e si diventa più trasversali, meno arrabbiati. A parte il fatto che dai 18 anni in avanti ho sviluppato sempre più rabbia, non capisco questo modo di concepire la maturità in musica. Quindi ciò che abbiamo fatto con Zombie Cowboys è incasinarci la vita per dare qualcosa di nuovo.

Ilaria: Poi è vero che la parte strumentale ha subìto molte variazioni nel corso degli anni, ma conservando, almeno credo, una coerenza. Personalmente ho voluto sperimentare parecchio con la voce: prima ho imparato a cantare, poi a usare la voce in modo evocativo, andando anche verso una sorta di rappato.

Un po’ spoken word…
Ilaria: Sì, dietro c’è anche un interesse per il teatro, oltre che per l’uso di metriche che per il genere che facciamo non sono così usuali.

Da alcuni anni nel Regno Unito e negli Stati Uniti la scena post punk è molto vivace, vedi Idles, Shame, Protomartyr.
Giovanni: Se aggiungi Dry Cleaning, Black Midi e Black Country, New Road hai fatto la playlist di Ilaria.

Ilaria: Vero! Aggiungo Amyl and the Sniffers dall’Australia, che ho sentito a manetta. Per il resto amo tutti i gruppi che hai citato, in particolare con i Protomartyr sono stata l’incubo di tutti i miei amici: l’ultimo disco l’ho mangiato, divorato, c’è stato un periodo in cui parlavo solo di quello, parafrasavo versi, tant’è che a una certa mi sono dovuta sforzare, per smettere.

Però tanta soddisfazione!
Ilaria: Sì, sono uscite tante belle robette ultimamente.

Giovanni: E non solo in quella scena, pensando al nord del Regno Unito mi vengono in mente anche Blackhaine, Rainy Miller, Space Afrika, che anche se non fanno post punk sono molto interessanti.

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E nel panorama italiano dominato da pop e rap, in cui il rock è associato ai Måneskin, come vi trovate?
Matteo: Per ora ci è andata bene, siamo riusciti a suonare tanto dal vivo e questo ci basta. Io almeno non desidero altro, spero solo si possa tornare a farlo.

Giovanni: Non ci aspettavamo nemmeno di raggiungere il pubblico che siamo riusciti a raggiungere, per cui… Ma la verità è che non ce ne frega veramente un cazzo di questo aspetto.

Dei Måneskin cosa pensate?
Ilaria: Ho sentito solo il pezzo che hanno portato a Sanremo e forse un altro, però sono contenta per loro. Preferisco che conquisti il successo una band di giovani come la loro che l’ennesimo gruppo di vecchi che anche basta…

Ci mancherebbe, ciò che chiedevo era un giudizio musicale da band a band.
Giovanni: Diciamo che a parte il fatto che mediaticamente lanciano messaggi condivisibili su inclusività e ambiente, credo di poter parlare per tutti i Gomma se affermo che i Måneskin rappresentano tutto ciò che del rock non ci ha mai interessato: l’estetica glam e quel modo di ostentare la sessualità non ci appartiene per nulla.

In compenso vi appartiene l’amore per Mastroianni, al quale avete dedicato l’omonima traccia di Zombie Cowboys: perché lui?
Ilaria: Quella canzone è un omaggio a La decima vittima di Elio Petri, una specie di western futuristico girato negli anni ’60, tratto da un racconto di Robert Sheckley. Un film anticapitalista, sovversivo, che in sostanza descrive molto bene un amore impossibile, quello tra l’umanità e il capitalismo.

L’ho visto una decina di anni fa, ricordo una fotografia straordinaria, lo riguarderò. Chiudiamo con un pensiero sui concerti? Quanto vi mancano?
Ilaria: Come l’ossigeno. Per la nostra visione di quel che facciamo non ha senso suonare in modo diverso da come abbiamo sempre fatto prima della pandemia. Non esistono alternative.

Non avete ancora mai suonato con il pubblico seduto?
Matteo: Sì, a fine settembre a Bologna, ma l’unica parte bella è stata quando le persone che erano venute a vederci si sono alzate in piedi.

Giovanni: Ossia quando le regole sono state violate.

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