Da quando è stata candidata ai Grammy del 2018 come miglior album storico – ovvero da quando ne ho scoperto l’esistenza –, la prima cosa a cui penso quando si parla di musica africana è la compilation Sweet as broken dreams, una raccolta di vecchie canzoni somale anni 70 ritrovate e ripubblicate dall’etichetta “Ostinato records”, specializzata in imprese di questo tipo. Non è certo da quell’episodio che la musica di tradizione africana è entrata nel linguaggio comune e nelle influenze della musica occidentale, ma ricordo perfettamente il senso di sorpresa nell’ascoltare qualcosa di totalmente diverso e molto più sperimentale di quanto potessi immaginare, se immagino come poteva essere la situazione in Somalia negli anni 70, con una dittatura militare al potere e una serie di guerre civili in corso. Quando è trapelata la notizia della formazione di I Hate My Village, una formazione composta da Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explotion), Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours) e Alberto Ferrari (Verdena), prodotto da Marco Fasolo, dichiaratamene influenzato dalla musica afro-beat, ho immaginato qualcosa di totalmente differente da quanto invece si ascolta nelle nove tracce del loro omonimo album di esordio in uscita per La Tempesta International.
Sin dal primo ascolto si capisce che I hate my village è un disco nato senza la pretesa di riportare fedelmente citazioni storiche né di erigersi a vademecum della musica tradizionale africana, ed è un ottimo lavoro proprio perché non nasce da nessuna dichiarazione d’intenti che avrebbe annientato qualunque spontaneità, ma solo dalla semplice voglia di far convergere una serie di influenze comuni in qualche lunga seduta in sala prove che trasudano il divertimento della sua gestazione e promette di essere una bomba soprattutto dal vivo.
Abbiamo incontrato i quattro membri di I Hate my village durante i giorni in cui si sono riuniti per la prima volta per suonare tutti assieme.
Quindi è un progetto che si è sviluppato “da remoto”?
FR: Io e Adriano abbiamo iniziato a vederci e a suonare senza nessun progetto. Poi ci siamo resi conto che stavamo ascoltando le stesse cose e che volevamo suonarle, nello specifico stavamo approfondendo la musica africana e da lì abbiamo iniziato ad appuntarci le idee e a coinvolgere persone che stimiamo. Da lì è subentrato Marco Fasolo che ci ha prodotto il disco, l’abbiamo registrato da lui, ed è una sua creatura tanto quanto nostra.
Successivamente è subentrato Alberto e ha cantato qualche canzone, ma è tutto accaduto con molta naturalezza.
AV: È un esperimento musicale nato dalla voglia di fare buona musica e di condividerla con degli amici, non c’è nessuna strategia di marketing dietro. È un progetto che nasce da un errore di pronuncia, è un tributo e inevitabilmente un ibrido al tempo stesso. Volevamo fare un disco che ci piacesse ascoltare…
FR: …il che non è affatto banale, nasce da conversazioni e scambi di dischi.
Da quanto avete iniziato a lavorarci?
FR: Il primo incontro mi pare ci sia stato un paio d’anni fa. Sia io che Adriano siamo sempre in un flipper di delirio e impegni, anche se in certi periodi siamo riusciti a vederci con molta continuità.
AV: il disco in realtà è venuto fuori in pochissimo tempo, l’abbiamo registrato da Marco in una settimana totale tra incisioni e missaggio, non so bene come abbia fatto a fare questo miracolo in così poco tempo, anche perché le tracce sono abbastanza improvvisate, avevamo scritto delle note e basta.
Come è andata di preciso?
AV: i pezzi sono la foto di un momento preciso, è questa l’attitudine che ha creato il nostro sound.
FR: io e Adriano abbiamo registrato da Marco, sovraincidendo qualche basso e qualche organo in maniera un po’ inusuale. A disco missato si è aggiunto Alberto, al quale abbiamo dato carta bianca e se l’è fatto a casa per conto suo…
Alberto ti ricordi quando ti è arrivato il primo sms?
AF: oddio no, non mi ricordo! Avevo sentito il disco una volta in macchina, di sfuggita, me l’aveva fatto sentire un mio amico, ma forse a quel tempo era ancora un pre-mix. Quando mi è arrivato il disco completo ho deciso di cantarci direttamente sopra, senza ascoltarlo. Quello che è uscito è proprio la prima bozza che ho fatto all’inizio, è venuta fuori così e l’ho tenuta.
È per questo che canti in inglese o per distinguerlo dalle canzoni dei Verdena?
AF: canto in inglese perché all’inizio pensavamo di uscire con un’etichetta inglese, quindi avevo deciso di prendere quella direzione lì. Ma comunque a me piace cantare in inglese, la fonetica è fantastica. La cosa bella è che è nato tutto in maniera così improvvisa e spontanea che ogni volta che lo riascolto mi vengono idee nuove, ma è questo l’approccio, è andata così.
Per vie traverse è un disco che mi ha fatto pensare a “Nuova Napoli” dei Nu Guinea, che è stato uno dei dischi più interessanti usciti l’anno scorso, stavo pensando a cosa sarebbe venuto fuori se avessi cantato in dialetto bergamasco…
AF: sarebbe venuta fuori una cosa orribile!
Quali musicisti africani stavate ascoltando?
FR: stavamo ascoltando parecchia roba della “Glitterbeat Record”, lo studio nasce chiaramente da Fela Kuti, Ali Farka Touré, siamo stati influenzati anche dalle collaborazioni con Bombino e Rokia Traoré. È da un po’ che cerchiamo di capire il loro approccio, che è difficilissimo da studiare, anche perché non segue delle leggi definite. Ma comunque un po’ tutto quello che faccio anche al di là di I hate my village, ha sempre un po’ di questo mondo perché è quello che abbiamo in testa in questo periodo.
Per quanto riguarda la strumentazione, avete usato qualche strumento tradizionale?
FR: a parte il balafon e un po’ di percussioni, non abbiamo scelto una strumentazione prettamente tradizionale, in generale ci siamo concentrati più sulle armonie, sull’approccio e sui ritmi chiaramente.
AV: una cosa interessante sulla quale abbiamo costruito l’architettura dei pezzi, è l’approccio della chitarra, che non è intesa come una chitarra elettrica ma quasi come se fosse un n’guni, che è uno strumento fatto con il budello degli animali e ha un suono molto stoppato, ritmico e grazioso nella tessitura della canzone e forse una prima linea del progetto è venuta fuori proprio da questa modalità di utilizzo della chitarra.
Secondo me un valore aggiunto del disco è che si percepisce tantissimo quello che anche voi mi state confermate: non volevate collocare questo disco da qualche parte di preciso nella attuale scena/comunità/villaggio musicale. Il nome del progetto è un riferimento a qualcosa di simile?
AV: il nome nasce da una ricerca su Google. Cercavo film africani, finché mi sono imbattuto nella copertina di un cannibale movie ghanese anni settanta, che si intitola appunto I ate my village, e ha una copertina molto affascinante e elementare, spartana, quasi brutta… però di quel brutto che è bellissimo. L’ho mandata a Fabio, si prestava al il gioco di parole con l’errore di pronuncia e l’abbiamo scelto.
Ma non vi sentite parte di una “comunità” di musicisti ben definita sia in termini generazionali che a livello di qualità e tipologia dei progetti?
FR: secondo me non c’è una “scena”, ci sono un po’ di musicisti che si stimano, che sono curiosi nei confronti dei lavori degli altri, secondo me le cose vecchie si intrecciano con le cose nuove ormai. Il discorso del village era riferito anche alla nostra condizione di italiani, siamo un villaggio, siamo un po’ primitivi, siamo piccoli. A tutti noi ci è capitato anche di uscire e suonare all’estero e ogni volta ci accorgiamo che visti da lì siamo una roba microscopica. Questo ci ha fatto rendere conto che tutte le polemiche, il caos, o i discorsi sul mercato musicale sono talmente insignificanti e non hanno alcun senso. Al tempo stesso, proprio perché siamo così piccoli, per noi è un traguardo enorme poter fare quello che ci va di fare, è una fortuna.
Negli ultimi mesi Adriano e Fabio, siete usciti sia con i BSBE che con i Calibro. Alberto, ci sono novità in vista per quanto riguarda i Verdena?
AF: sì, stiamo facendo il disco. Devo ancora scrivere i testi, quindi è ancora lunga, però si pensa che tra settembre 2019 e gennaio 2020 uscirà il disco nuovo.