In febbraio i Jayhawks hanno tagliato un traguardo importante per qualunque band, i 35 anni di carriera. Hanno fatto esattamente quel che i loro fan s’aspettavano da loro: hanno ignorato la ricorrenza. Gary Louris e Marc Perlman, gli unici membri originari ancora nella formazione, fanno musica assieme più o meno da quando Jagger e Richards scrivevano Bridges to Babylon, ma non trovano la cosa particolarmente eccitante. Louris ha 65 anni, Perlman 59. Hanno cominciato a lavorare assieme nel febbraio del 1985, quando il primo è entrato nel trio che il secondo aveva fondato con altri due musicisti del Minnesota, Mark Olson e Norm Rodgers.
Quando è arrivato il 35esimo anniversario né Louris – cantante e autore principale da quando il Olson ha lasciato la band 25 anni fa – né Perlman hanno alzato il telefono o scritto un messaggio per festeggiare. La band non ne ha neanche parlato sui social. «Semplicemente, mi sorprende essere ancora qui», commenta Perlman. «Ci sono state volte in cui abbiamo deciso che la band non funzionava più e che era ora di chiudere, ma per qualche ragione siamo sempre tornati sui nostri passi».
Dall’ultima reunion è arrivato XOXO, un album riflessivo scritto dando spazio a tutti i membri del gruppo. Per la prima volta nella storia del quartetto, Louris ha lasciato il microfono e la scrittura di alcuni pezzi a Tim O’Reagan (batteria), Karen Grotberg (tastiere) e Perlman (basso).
«Volevo registrare il disco dal vivo, come faceva la Band», dice Louris, che pensa di continuare a condividere la scrittura ancora per un po’. Per gli altri membri dei Jayhawks, lo spazio vuoto lasciato dalla voce di Louris ha rappresentato un cambiamento positivo. «Io l’avrei fatto anche prima», dice O’Reagan, che nel 2006 ha pubblicato un disco solista e ora canta in diverse canzoni, «ma non era il caso di sollevare discussioni». Secondo Grotberg, che fa parte del gruppo dal 1992, «qualcosa è cambiato profondamente» nelle settimane passate a registrare XOXO ai Pachyderm Studios, a sudest di Minneapolis. «Eravamo più uniti, c’era un cameratismo che poi è rimasto».
I Jayhawks sono noti soprattutto per i capolavori dei primi anni ’90 Hollywood Town Hall e Tomorrow the Green Grass, in cui era fondamentale l’alternanza tra le voci e lo stile di scrittura di Olson e Louris. Da quando nel 1995 è diventato l’unico frontman del gruppo, quest’ultimo ha accompagnato la band in tanti viaggi musicali portati a termine fra separazioni e reunion temporanee: prima il roots rock alternativo di Sound of Lies nel 1997, poi il pop deostruito di Smile nel 2000 e le ballate folk di Rainy Day Music nel 2003. Nel 2016 hanno persino sperimentato con il prog in Paging Mr. Proust, scritto mentre Louris si liberava dalla dipendenza da oppiacei.
«Gary scrive melodie sopraffine», dice il fan M.C. Taylor, alias Hiss Golden Messenger. «La sua musica suona come se l’avesse scritta uno che ha studiato per una vita il rapporto tra melodia, armonia ed emozioni. Non dà mai l’impressione di copiare qualcun altro».
Nessun album post Olson, però, ha portato la band al di là della sua devota fanbase. Quando hanno pubblicato Smile, il New York Times ha pubblicato un articolo intitolato: “Che succede quando scrivi un classico, ma non interessa a nessuno?”. «Sono anni che abbiamo messo una pietra sopra all’idea di diventare popolari», commenta Perlman.
È difficile pensare a un’altra band americana contemporanea sopravvissuta tanto a lungo lavorando fuori dagli schemi e dai format radiofonici. Non è facile nemmeno elencare le dozzine di band e cantautori influenzati da loro probabilmente perché questi stessi artisti non sanno quanto le loro band preferite abbiano a loro volta preso dai Jayhawks.
Se vi sembra un’esagerazione, chiedete a Jeff Tweedy. «Ci stavamo preparando per registrare il primo disco degli Uncle Tupelo e lavoravo in un negozio di dischi», racconta il leader dei Wilco. «Un giorno Tony Margherita, il manager del negozio e all’epoca anche della band, mi ha guardato con aria tetra e mi ha detto che doveva farmi ascoltare un disco. Gli ho chiesto cos’era che lo preoccupava tanto e lui ha messo su Blue Earth dei Jayhawks, che era appena uscito. Era il suo modo di dire: questa roba somiglia parecchio a quel che fate voi. Guardavamo ai Jayhawks come a dei fratelli maggiori e loro ci consideravano fratelli minori, cioè dei rompiscatole».
Nonostante l’influenza esercitata sugli Uncle Tupelo – una delle band alt country che nei primi anni ’90 ha contribuito a fondare la scena Americana – non sia mai stata raccontata del tutto, Louris non prova rabbia per il fatto che la sua band è semisconosciuta. «Nessuna delle persone che conosco o di cui ho letto qualcosa ha mai detto che siamo stati una grande influenza», dice con nonchalance. «Eravamo outsider nella scena Americana di Nashville. Non abbiamo mai vinto un premio, non siamo mai stati considerati granché. E questo lo trovo sbalorditivo».
Louris sa che le ragioni sono diverse. La band è sempre stata troppo orientata al pop e influenzata dalla British Invasion per il pubblico del folk, e allo stesso tempo era troppo tradizionale per la scena alternative. E poi c’è il fattore geografico. Nessuno sapeva che cosa pensare di una band proveniente da Minneapolis negli anni ’80 che non aveva niente a che fare con il post punk anarchico dei Replacements e degli Hüsker Dü.
Quando Olson ha lasciato i Jayhawks nel 1995 (è tornato per una sfortunata reunion nel 2011, per Mockingbird Time), il gruppo ha cambiato pelle. «Il filo che collega tutte le diverse incarnazioni dei Jayhawks è la voce di Gary, il suo modo di scrivere e di suonare la chitarra», dice Tweedy, che oggi considera Louris quasi come un fratello. «Gary è strano, unico, e si esprime in maniera obliqua. Scrive musica confortante e allo stesso tempo disorientante. C’è una certa oscurità in lui, ma ha una voce celestiale. È un angelo che canta canzoni tetre».
Nonostante non abbiano ricevuto le attenzioni del mainstream per un quarto di secolo ormai, i Jayhawks sono ancora abbastanza noti da suonare in tutta l’America, e sempre con successo. Louris, in particolare, ha fatto pace con i suoi sogni irrealizzati. «Un tempo pensavo di continuo che non fossimo abbastanza famosi. Non avevamo quel che meritavamo, mi paragonavo agli altri e non capivo perché non fossimo al loro livello di popolarità», dice. «Adesso invece sono felice di avere una cosa per cui tanta gente sarebbe disposta a morire: una fan base fedele e la longevità».
Karen Grotberg la fa ancora più semplice: «Non siamo ancora vecchie glorie».