Devo ammetterlo, ho ascoltato The Zealot Gene, che uscirà il 28 gennaio, un filino prevenuto. È il primo album dei Jethro Tull dopo quasi 19 anni e una serie di dischi che Ian Anderson ha firmato a proprio nome o come Ian Anderson’s Jethro Tull. Non immaginavo che mi avrebbe riservato molte sorprese. Da tempo il sound dei Jethro Tull è quello: una gustosissima fusione di rock, folk, blues, jazz, influenze classicheggianti e virate hard portata avanti con coerenza dal 1967 ai giorni nostri in album fondamentali per il rock tutto, vedi Aqualung e Thick as a Brick. Cosa potevano tirare fuori quindi per stupirmi, oggi come oggi?
Nulla, e infatti il disco è proprio quella cosa lì, ed è bello proprio perché è quella cosa lì. Più l’album andava avanti e più mi sentivo a mio agio. È stato un po’ come ritrovarsi con un caro amico che non vedevi da tempo a sorseggiare un whisky davanti a un camino acceso in un pub inglese mentre fuori nevica.
Perché questo titolo, The Zealot Gene?
È il titolo della canzone che forse meglio di altre ne racchiude l’essenza. The Zealot Gene è un brano su emozioni e comportamenti estremi ed questa l’idea che ha dato il via al disco: volevo scrivere una serie di canzoni basate ognuna una forte emozione umana. Così ho fatto una lista e sono uscite fuori cose positive, come l’amore, l’amore fraterno, l’amore erotico, l’amore spirituale, la compagnia, la lealtà, la compassione. Poi ho scritto alcune cose negative: rabbia, punizione, vendetta, gelosia. Alla fine ho guardato la mia lista, ho scelto una parola per ogni emozione e ho pensato: queste sono tutte parole che ricordo di aver letto nella Bibbia. Quindi ho fatto una lunga ricerca per cercare esempi di quelle parole nei testi biblici, ho copiato e incollato alcuni versetti e li ho inseriti in un documento che ho usato come punto di partenza per la scrittura di testi che parlassero del mondo di oggi, delle emozioni di oggi. Compresa la title track, dove mi soffermo sugli estremi del populismo e sui social media. In tutto questo cerco di mantenere sempre un certo senso dell’umorismo, anche quando parlo di cose negative; le presento con il tipico approccio britannico, con quel filo di umorismo nero che ci contraddistingue.
Quanto pensi sia cambiato il mondo dai tempi di Thick as a Brick, un disco che faceva delle invettive sociali uno dei suoi punti di forza?
Non credo che alla fine la società sia cambiata molto, è il modo in cui si esprimono pensieri ed opinioni che cambia. Prima avevamo la televisione e la stampa, adesso ci sono internet e i social media nei quali tutti possono esprimere la propria opinione in ogni momento ad alta voce. Crediamo nella libertà di parola, ma se si abusa di questo diritto tale libertà può essere molto dannosa e offensiva. In una società democratica dobbiamo quindi accettare che non tutto sia perfetto e che alcune persone esprimano opinioni violente. Personalmente non uso mai i social media per scopi diversi da quelli professionali, per pubblicizzare o promuovere un tour o un album, e comunque non lo faccio personalmente, non amo i social. Ho però un sito web che curo quasi nella sua interezza, ma in quel caso è diverso, non invito le persone a partecipare in conversazioni con me, è semplicemente un sito di informazioni per i media o i fan.
C’è un album dei Jethro Tull che accomuneresti a The Zealot Gene?
Riesco a intravedere alcuni punti di contatto con Aqualung, che conteneva canzoni rock alternate ad altre più acustiche che registrai da solo. Anche The Zealot Gene ha questa struttura perché, a causa della pandemia, ho dovuto registrare alcuni brani in solitaria con una chitarra acustica e pochi altri strumenti. Aqualung inoltre parlava di religione, dell’insegnamento della religione, argomenti che hanno trovato posto anche nell’ultimo album. Credo che però le similitudini si fermino qui. Per il resto cerco di non paragonarlo a cose del passato, scrivo canzoni nel momento in cui le scrivo, e questo è l’unico pensiero nella mia testa.
In che modo i Jethro Tull attuali sono una vera band e non un progetto di Ian Anderson?
Direi che c’è pochissima differenza tra com’è ora e com’era ai tempi di Aqualung o di Benefit. Sono sempre il tipo che scrive le canzoni, produce il disco e si occupa della maggior parte del processo decisionale. I restanti membri della band sono quattro ragazzi che hanno ognuno il 20% della responsabilità quando si tratta di esibirsi dal vivo e quando lavoriamo insieme in studio, perché il modo in cui mi piace registrare è similare al live: tutti insieme come se fosse una performance.
I Jethro Tull si sono mossi abilmente tra rock, folk, blues, hard… Vengono però spesso inseriti nella categoria del prog rock. Ti ci ritrovi?
Beh, penso che i Jethro Tull nel 1969 siano stati uno dei primi gruppi a essere descritti dalla stampa musicale britannica come ensemble di rock progressivo, e all’epoca pensai fosse una buona definizione. Pochi anni dopo, sulla scia di Emerson Lake and Palmer, Yes, Genesis, King Crimson e altre band, il prog rock è diventato rapidamente un termine usato in modo umoristico, talvolta come insulto. Quando il punk prese piede nel Regno Unito, a metà degli anni ’70, si presumeva che i punk-rocker odiassero band come i Jethro Tull. In realtà uno come Johnny Rotten dei Sex Pistols mi ha detto di persona di essere sempre stato un fan dei Jethro Tull, in special modo di Aqualung. E questo me lo hanno confidato anche i ragazzi di altre band come gli Stranglers, i Police, i Boomtown Rats di Bob Geldof. E così come siamo stati amati dai punk puoi trovare nostri fan nel rock alternativo, nella classica, nell’heavy metal… Mi sorprende, ma è così.
A proposito di metal, è vero che collaborerai con Bruce Dickinson?
Ho avuto due o tre scambi di e-mail con Bruce nelle ultime settimane e abbiamo parlato di un nuovo progetto per il prossimo anno, una performance dal vivo. Ma al momento non so nulla di più, ne stiamo solo discutendo.
Posso chiederti come hai trascorso questi due anni di pandemia?
Ho fatto più o meno quello che hanno fatto tutti: sono rimasto principalmente a casa a lavorare su progetti che potevo portare avanti dalla mia scrivania. Ho realizzato due libri (la biografia The Ballad of Jethro Tull e la raccolta di testi Silent Singing, nda) ho rifinito l’album e adesso sto dedicandomi a un disco che dovrebbe uscire nel marzo del 2023. Se quindi nelle prossime settimane la pandemia mi impedirà di spostarmi so come tenermi occupato. Per il resto sono fortunato, vivo in una casa in campagna con una bellissima vista su campi e alberi, sento il canto degli uccelli, quindi per me il lockdown è stato come una vacanza tra le mura domestiche. Ho passato gran parte della vita viaggiando e soggiornando in hotel di grandi città, salendo su palchi davanti a migliaia e migliaia di persone… Diciamo che ne ho avuto abbastanza e non mi spiace starmene in un posto tranquillo, dove non ho pressioni, è importante per il mio benessere e la mia creatività.
Hai scritto centinaia di canzoni, riesci a ricordarle tutte?
Assolutamente. Ricordo tutto di tutte le mie canzoni, come sono nate e come le ho registrate, anche perché ho dovuto rivisitarle negli ultimi due anni, quando stavo editando i libri. È incredibile come, dopo tutto questo tempo, i ricordi ritornino attraverso la musica. Non appena ascolto o leggo le parole tornano in vita tutti i pensieri, emozioni, idee e osservazioni che hanno formato le canzoni.