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Lucio Fabbri: «I Måneskin hanno riportato la componente umana nella musica»

Il boom della band visto dal musicista e produttore che ai tempi di X Factor ha registrato 'Beggin' e il primo EP. «Erano diversi dagli altri gruppi. Quella canzone ha scardinato le regole»

Foto: Romano Nunziato/NurPhoto via Getty Images

Per spiegare il boom dei Måneskin parafrasa Lennon: «Il successo è quel che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti». E cioè: sei andato avanti e hai fatto altri dischi quando ti dicono: «Ricordi quella cover che quattro anni fa hai inciso nel giro di due ore? È prima in classifica in mezzo mondo».

Quella cover è Beggin’. L’ha registrata lui, Lucio Fabbri, produttore, arrangiatore, direttore d’orchestra, polistrumentista. Vent’anni prima che nascessero Damiano David o Victoria De Angelis girava l’Italia con la PFM e Fabrizio De André in uno dei tour più celebri della nostra storia. Controllate i crediti dei dischi di Finardi, Camerini, Vecchioni, Fortis, Mannoia, Milva, ovviamente della PFM: lui c’è.

Tra le tante cose, ha fatto da arrangiatore e produttore di tutte le basi musicali su cui cantavano i concorrenti delle prime tredici edizioni di X Factor. Non solo: i concorrenti che avevano qualche chance di sfondare, anche le band che di solito non avevano bisogno del suo lavoro per le esibizioni televisive, a un certo punto del programma passavano per lo studio milanese di Fabbri, il Metropolis, e lì registravano sotto la sua supervisione, «una sorta di premio». È così che Fabbri ha prodotto il primo EP dei Måneskin Chosen, quello di Beggin’, appunto. Era fine novembre 2017 e nessuno pensava che quella cover sarebbe stata suonata in apertura dei Rolling Stones e al Saturday Night Live.

Chi ha scelto i brani da registrare?
Loro, in autonomia. Si capiva che erano autosufficienti e che andavano fatti lavorare in totale libertà. Ho controllato: abbiamo registrato prevalentemente dalle nove di sera all’una di notte. La prima sera abbiamo fatto le basi di un paio di brani, la seconda i canti, il pomeriggio seguente il mix. Abbiamo ripetuto lo stesso schema qualche giorno dopo per gli altri brani. È stato un lavoro lampo, loro stavano ancora facendo X Factor, avevano tutta una serie di attività da svolgere, non avevano tanto tempo a disposizione. È stata una di quelle occasioni in cui devi dare il meglio in pochissime sere, buona la prima: se qualcuno non sta bene o non è concentrato diventa un problema.

E loro erano concentrati?
Si sono presentati in studio con una preparazione impeccabile e hanno registrato praticamente in presa diretta. È stato fatto un lavoro molto spartano: batteria, basso, chitarra, senza cose aggiuntive. Rock allo stato puro, una performance eccezionale in condizioni di ristrettezza. Giusto quando si è trattato di registrare le parti vocali ho convocato un consulente.

Un consulente?
Sì, un collaboratore madrelingua del New Jersey, in questo caso Chuck Rolando. Li si chiama per verificare che la pronuncia inglese di un italiano sia corretta. Non che in quel momento si pensasse che il progetto avesse chance di andare all’estero…

In studio c’era un rappresentante della casa discografia o un manager, qualcuno insomma che li seguiva e li consigliava?
Assolutamente no. Niente manager: i concorrenti dovevano essere a disposizione delle attività connesse alla trasmissione. Nessuna interferenza esterna. In studio c’erano solo il gruppo, il tecnico, un assistente. La casa discografica non ha mai interferito.

Ricordo che ai tempi qualche rocker irriducibile diceva: questi non sanno suonare.
Guarda, io posso capire che si possa essere refrattari ad accettare un successo del genere. Essere diffidenti è umano, ma i ragazzi sono bravi. Non è che dopo l’una di notte loro sono andati via e noi abbiamo dovuto aggiustare qualcosa. Possono piacere o meno, è soggettivo, ma dire che non sanno suonare non si può. Se potessi, inviterei chiunque nel mio studio a sentire le tracce separate di ognuno di loro per capire che hanno fatto le cose alla perfezione. Poi è chiaro, quel che fanno è giusto per la loro musica, non è che dobbiamo aspettarci Jaco Pastorius.

Chiaramente nessuno poteva immaginare che una cover, anzi la cover di una cover, sarebbe arrivata dov’è arrivata.
Però pensandoci bene il fatto che sia una cover ha contribuito al successo. Il pubblico è a suo agio quando l’ascolta perché ha già assimilato quella melodia. È un fatto naturale. Del resto persino i Beatles all’inizio non avevano molti pezzi originali e facevano cover. Anche loro registrarono il primo album velocemente: sono arrivati nello Studio 2 di Abbey Road, hanno eseguito una dozzina di brani dal vivo e hanno finito in giornata. E anche i Beatles all’inizio suonavano musica del passato, nel loro caso il rock’n’roll anni ’50.

Il tuo contributo ai Måneskin?
Lasciarli liberi di fare quel che volevano. E trovare col fonico il suono giusto. Alcuni concorrenti di X Factor non sapevano nemmeno dove cominciare, cos’era un microfono, cos’era una cuffia professionale. Venivano e pensavano che le cuffie fossero gli auricolari del telefono. I Måneskin invece sono arrivati, hanno visto la strumentazione che avevamo in studio, hanno scelto gli amplificatori che preferivano. Ognuno aveva i suoi riferimenti precisi e ha curato il suono del proprio strumento con attenzione. Che fossero stati in studio o meno in precedenza non lo ricordo, sicuramente avevano le idee chiare, erano a loro agio. Era come sentire suonare gente della mia generazione, però col sound di oggi. Erano diversi dalle altre band che gravitavano attorno allo studio. Spero siano d’esempio per altri gruppi di ragazzi italiani che fanno rock: è un prodotto realizzato in Italia da musicisti italiani con un produttore italiano e un tecnico del suono italiano.

Lucio Fabbri. Foto: Guido Harari

Che idea ti sei fatto del motivo del successo di Beggin’?
Uno dei motivi forse è proprio la naturalezza, la nonchalance con cui è stata fatta quella session. Credo c’entri la spontaneità di un pezzo registrato praticamente live in studio. E spontaneità vuol dire umanità. Nella canzone senti la componente umana che oggi è sparita dalla musica dov’è tutto processato, filtrato, messo in griglia. I ragazzi di oggi non ci sono più abituati, alle loro orecchie questa musica suona innovativa, è come quando noi abbiamo sentito i Led Zeppelin per la prima volta. E poi Beggin’ suonava già famigliare, era cantata in inglese, che dal mio punto di vista è la lingua giusta per il rock, e conteneva parti quasi rappate. In più c’è l’immagine, il rock è anche qualcosa di visivo. Io sono convinto che quando hai talento prima o poi ce la fai. E poi c’è un’altra cosa.

Cosa?
In vita mia ho visto grandi produzioni e grandi budget investiti in progetti subito bloccati alla prima apparizione televisiva andata male. Beggin’ invece ha avuto successo grazie al passaparola sul web, con un investimento irrisorio per la registrazione. È la dimostrazione che il pubblico non ha bisogno di essere imboccato. Beggin’ ha scardinato le regole del gioco.

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