Mattia Vitale, Simone Giani, Luca De Gregorio: cioè, chi? Chi sarebbero questi? Beh. Vuole il caso che questi tre signori, di cui facilmente non sospettate minimamente l’esistenza (vi capiamo) e che altrettanto facilmente mai avete sentito nominare (vi capiamo pure qui), sono famosi. Tanto. Tantissimo. Più o meno quanto i Måneskin, tipo (la nuova scala di misurazione della fama gigamondiale, per noi italianozzi). E badate bene: non stiamo parlando di gente che sta dietro le quinte, insomma, cose da iniziati, ultimo caso in ordine di tempo Irko, il trevigiano che sta dietro a gran parte dei mixaggi dell’ultimo album di Kanye West (questa la sapete solo se siete del mestiere, tendenzialmente).
Mattia, Simone e Luca sono invece intorno a noi. Costantemente. Hanno infatti inanellato in prima persona, con la loro identità artistica ed esponendosi in prima persona, miliardi di stream (non milioni: miliardi), oltre ad essere costantemente in radio, come colonna sonora per servizi televisivi, pubblicità, qualsiasi cosa. Tutto questo in meno di tre anni. Già: in meno di tre anni. E non ve ne siete accorti, no? Non vi siete poi nemmeno accorti quando sono stati nominati ai Grammy, nel 2020, e non in qualche categoria stile riserva indiana etnica o per ultra-specialisti. No: come Best Dance Recording. Robe che di solito si assegnano ai Daft Punk o Skrillex di turno.
«Ma la dance in Italia è sempre una cosa di nicchia, e lo sarà ancora per un bel po’ di tempo». La chiacchierata la facciamo con tutti e tre i Meduza, ma una prima cosa che si nota immediatamente è che l’armonia e l’interplay tra loro sono quasi innaturali: riporteremo quindi i virgolettati senza specificare chi è a parlare. Questi tre sono amici per davvero. Spesso si completano le frasi a vicenda (senza mai dare l’impressione di interrompere, o prevaricare) e sono davvero sinceri quando ti dicono, accorati: «Non fossimo stati un team, non fossimo insomma stati in tre, difficilmente saremmo sopravvissuti a tutto quello che ci è successo». Quello che è successo è, appunto, il successo: un successo mostruoso. E un successo letteralmente esploso dopo un solo, unico brano: Piece of Your Heart. È bastato quello, per la nomination ai Grammy. Sì. È bastato quello per generare una fama planetaria, poi rinforzata a stretto giro dall’essere entrati nel giro giusto (remixare Ed Sheeran, avere vocalist di grido come Hozier o Dermot Kennedy). Non quello di Bugo, come giro giusto: quello invece dei numeri veri, quello dei successi planetari. Quanto quelli dei Måneskin. Più di Sfera Ebbasta, aggiungiamo, e dei suoi tabelloni pubblicitari a pagamento su Times Square (file under: basta pagare).
Ora. Uno può anche riflettere su quanto ai Grammy ormai vadano per le spicce al momento di decidere sulle nomination (ma come, basta insomma azzeccarne una?), però se si è onesti bisogna anche aggiungere: accidenti, però, se gli è bastata una traccia per arrivare a tanto vuol dire che quella traccia era figa. O almeno, che funziona. Funziona sì, Piece Of Your Heart. E come in ogni storia interessante che si rispetti, il rischio sliding doors in origine è stato gigantesco.
«Eravamo a Londra a fare una session di registrazioni. Di session ne avevamo fatte centinaia in passato, ma questa era la prima a Londra, insomma, ci stavamo giocando una occasione importante… Se fallivamo lì, forse non ce ne sarebbe stata più un’altra, di occasione. E stavamo fallendo, sì, stavamo fallendo, perché di tutte le demo presentate non ce n’era una che stesse convincendo chi di dovere. Ne era rimasta una. Manco volevamo farla sentire. Ci hanno dovuto convincere a forza, il nostro atteggiamento è stato tipo: “Vabbè, se proprio volete vi facciamo sentire pure questa…”. Nel momento in cui è arrivata la parte del drop, quella col piccolo insert parlato e poi parte il ritornello, la persona importante nella stanza – quello che poi tra l’altro è diventato pure uno dei nostri due manager, più avanti – ha iniziato a saltare sul divano ad urlare. È inglese ma mezzo italiano lui, quindi parla una lingua un po’ strana: “Questo è mostro! Questo è mostro!”, esaltatissimo. Oh, gli abbiamo dato fiducia. E da lì, beh… Da lì sono successe tantissime cose».
Potete andarvela a risentire, Piece of Your Heart, col gusto di individuare la parte del parlato; e per avere pure la conferma che sì, questa canzone l’avete sentita centoventimila volte, anche se non sapevate di chi era – e men che meno sospettavate fosse di italiani, probabilmente.
Ecco, a proposito: vi dà fastidio questa cosa? Tutti parlano dei Måneskin oggi in Italia, e sembra un affare di Stato o una cosa incredibile che dei connazionali abbiano raggiunto un certo tipo di successo. Il successo che voi avete raggiunto già dal 2019, dal 2020. «Ma no. Ci fa un po’ ridere, ecco. È paradossale. Ma noi del successo inteso come persone, come facce, come personaggi possiamo fare tranquillamente a meno. Anche se siamo veramente orgogliosi di poter portare il nostro essere italiani all’estero: ci siamo emozionati quando Stefano Domenicali – che oggi è l’amministratore delegato di tutto il circus della Formula Uno, un personaggio enorme – ci ha detto: “Sono fiero che ci siano degli italiani a portare in giro della musica che funziona e va alla grande a livello mondiale”. Però ecco, in generale – ma in Italia soprattutto – la dance non è il rock. Non ha la stessa portata, non cattura le stesse attenzioni. È un peccato, perché nel nostro Paese ci sono tanti talenti notevoli, talenti che meriterebbero più spazio. I Måneskin sono usciti dal circuito televisivo, quindi potevano già contare su una cassa di risonanza naturale: è qui che sta la differenza. Quando ti lancia la televisione, è ancora un altro conto. E poi in fondo forse facciamo due mestieri diversi: loro gli animali da palco, noi semplici produttori».
Bisogna però smentire un po’ quest’aura da favola – o da botta di culo – del fare un pezzo e diventare subito gigafamosi, così, dal nulla. Simone aka Simon De Jano e Mattia aka Madwill sono infatti in giro da un pezzo (già insieme, i due, nella sigla SDJM); idem Luca aka Luke Degree. Anzi, soprattutto i primi due non erano esattamente sottobosco e dopolavorismo da hobby in cameretta, a dirla tutta: dopo qualche anno di attività avevano imbroccato nel 2017 una hit mica male (e non solo italiana) con una abile ma ben fatta paraculata, ovvero una cover dance di I Wanna Dance with Somebody di Whitney Houston, a nome The Heat. Ah: all’epoca, più o meno stesso periodo, avevano trovato il tempo e il modo pure di litigare col sottoscritto, che aveva avuto l’ardire di definire testualmente “una poracciata” la loro esibizione live a un Nameless Music Festival pochi mesi più tardi. Non la presero sportivamente, Simone e Mattia, incitando anche un po’ i fan alla shitstorm contro il reprobo (contro cioè chi vi sta scrivendo queste righe).
Ricordando la cosa, ora ci si ride tutti quanti sopra («Ci stanno gli elogi, ci stanno le critiche. Dagli errori abbiamo imparato, man mano si cresce: nel lavoro come nella vita»); molto più interessante è invece il discorso a posteriori attorno a quel pezzo, a quell’operazione: «Tanti vedono male il fatto di fare delle cover, il farsi conoscere così. Soprattutto nel mondo dance. Invece, può essere uno dei modi migliori per far capire quanto sei in gamba come produttore: parti da una top line», ovvero la melodia portante nel gergo dei produttori, «che è di alta qualità, e lì sei tu che devi far vedere di saperla trattare, di esserne all’altezza. Visto che quella melodia la conoscono un po’ tutti, si riesce più facilmente ad intuire le tue capacità e le tue potenzialità, se sei uno dell’ambiente».
«A noi The Heat è servita parecchio. Ci ha aperto tante porte. Ci ha aperto i contatti che ci interessavano: quelli internazionali, perché noi fin da subito sentivamo di avere una vocazione molto anglosassone – eravamo affascinati da personaggi come Chris Lake quando erano davvero in pochi a filarselo – ed è lì che volevamo andare a parare. Anche nello scegliere il management. In Italia non c’era nulla e nessuno che andasse in quella direzione musicale, nella dance, e allora abbiamo osato, ci siamo buttati. Ci è andata bene. Scalino dopo scalino, ci è andata bene».
E ora? Pressione da successo? «Eh…», sorridono e sospirano all’unisono i tre. «Siamo passati da zero a cento con un solo pezzo. Siamo finiti nominati subito ai Grammy, così. Quante volte vuoi che ti succeda nella vita tutto questo?». In effetti. «In realtà nemmeno oggi sappiamo bene il come, il cosa e il perché: sappiamo solo che siamo partiti prima dal mercato inglese, e se funzioni lì poi è più facile iniziare a funzionare nel resto del mondo. Una cosa è sicura: se tutto questo ci fosse successo dieci anni fa, quando avevamo iniziato a fare musica, sarebbe stato molto ma molto pericoloso. Detto direttamente: non saremmo proprio stati in grado di gestire tutto questo. Fare musica è un lavoro serio e, se riesci a trasformarlo nella tua professione, devi sentirti un privilegiato. Privilegiato sì, ma non un eletto: devi svegliarti ogni mattina e rimboccarti le maniche lavorando duro. Non ci sono scuse, non ci sono alternative. La fortuna è che lavorare duro ci piace».
I Meduza infatti sono un pugno di singoli – il nuovo esce proprio in questi giorni, Tell It to My Heart, col featuring alla voce di Hozier – ma sono anche «centinaia e centinaia di tracce che abbiamo fatto, ma che alla fine non abbiamo fatto uscire. Tutto lavoro perduto, che aveva il torto di non convincerci al 150%. Certo, ora è più facile: perché siamo anche un po’ più sicuri di noi stessi, di quello che facciamo. Ma siamo perfettamente consapevoli che non per forza quello che fai funziona, anche se magari hai l’ospite importante e pure bravo alla voce».
Resterete solo un progetto da uscite singole, da hit? «Proprio in questi mesi stiamo lavorando su qualcosa di diverso: un vero e proprio live, che andrà ad affiancare – non a sostituire – le nostre date nei locali come dj set. Qualcosa un po’ in stile Chemical Brothers, insomma: visual d’impatto, e sul palco tastiere, rack, i nostri Moog, eccetera… Ma prima di far circolare tutto questo, siamo consapevoli che serve qualcosa che non sia un semplice singolo: ci vuole un album, o almeno un EP. Ma calma. È ancora presto. Dobbiamo ancora arrivare a costruire pienamente il nostro suono, il nostro stile, e dobbiamo anche costruire una fan base più solida di quella che abbiamo adesso».
Non male, come lucidità. «Siamo ancora nella fase in cui dobbiamo avanzare singolo dopo singolo. Di sicuro, la pandemia – che resta sia chiaro una cosa drammatica, e speriamo passi – in qualche modo ci ha aiutato, egoisticamente parlando. Ci ha cioè tolto di dosso un po’ di pressione, ci ha evitato il dover prendere un volo ogni due giorni. Abbiamo rallentato i ritmi. Visto che il mondo era giustamente occupato con altro, non c’era bisogno di farsi fretta per uscire con del materiale nuovo. Guarda, tanto per dirtela tutta: avevamo già un singolo pronto e finito, all’epoca il terzo, con tanto di ospite, terminato di lavorare proprio pochissimi giorni prima dello scoppio della pandemia e programmato di lì a poco, ma proprio questo momento in cui abbiamo all’improvviso rallentato i ritmi ci ha permesso di capire, riascoltando la traccia con calma, che no, non sarebbe stato il seguito giusto dopo Piece of Your Heart e Lose Control. Abbiamo cestinato tutto. E siamo ripartiti da tutt’altro, da un vecchio demo che avevamo in archivio. Da lì, con la voce di Dermot, è nata Paradise». Tradotto in numeri: da lì, è nato un altro brano da centinaia di milioni di stream (anzi, aggregando i canali facile si arrivi già al miliardo e passa).
Non saranno insomma i Måneskin ma, ehi, questi producono i fatti. Fatti concreti. «Ma da quando siamo finiti in questo universo assolutamente incredibile di fama mondiale abbiamo paradossalmente rivalutato tanto ma proprio tanto le piccole cose: lo stare in famiglia, il fare la spesa sotto casa. Quando torniamo da un tour negli Stati Uniti o in qualche altra parte del mondo, tutto questo ci riempie il cuore. Prima non accadeva».