I Negrita fanno i conti con questi anni spietati | Rolling Stone Italia
La mia generazione ha perso?

I Negrita fanno i conti con questi anni spietati

Il cambiamento che non arriva mai. Il disincanto e la speranza. La musica ridotta a intrattenimento. Sanremo che al contrario di quel che si dice «non è più il punto di riferimento per la musica italiana». Una chiacchierata con Pau e Drigo in attesa dell’album che uscirà a fine marzo

I Negrita fanno i conti con questi anni spietati

Negrita

Foto: Alessio Pizzicannella

Trent’anni sulle spalle e ancora quella voglia feroce di dire la propria. I Negrita tornano con Canzoni per anni spietati, un album che ha tutta l’aria di essere un j’accuse, un punto fermo da cui ripartire in un mondo che sembra sbandare. L’uscita è prevista il 28 marzo, ma ci hanno raccontato in anteprima che sarà carico di rabbia e disillusione, ma anche speranza di fronte a un presente che appare sempre più fuori fuoco. «Abbiamo voluto esplorare diverse sfaccettature della nostra epoca, mettendoci dentro le nostre sensazioni», dice Drigo.

L’album è stato anticipato dal singolo Noi siamo gli altri, dove i Negrita ricordano di aver «sempre sentito parlare di grandi cambiamenti, ma alla fine tutto è rimasto uguale», come dice Pau. Insomma, una sorta di inno per chi si sente fuori dal coro. «Oggi sembra che la musica debba intrattenere per 20 secondi e via, ma noi non ci siamo mai accontentati», dice il cantante. «La ribellione di un tempo si è trasformata in disincanto, in una accettazione passiva delle cose. Aspettiamo le rivoluzioni, anche se ci chiediamo: chi le ha viste mai?». Perché, spiega in questa intervista, per farle servono «sacrifici, impegno e coraggio» e oggi invece «manca la voglia di rischiare».

Allora rieccoli, che tornano con un disco, un tour che li riporterà sui palchi da aprile e nessuna nostalgia di Sanremo, «un grande show televisivo dove la gara musicale è secondaria».

Avete iniziato negli anni ’90. Come spieghereste oggi a chi non li ha vissuti quel periodo e quell’ambiente musicale?
Pau: Gli direi: ciao, io sono della generazione X e volevo raccontarvi cosa succedeva negli anni ’90. All’epoca il mondo non era cablato come oggi. Si prendevano appuntamenti la sera telefonando a casa, e spesso rispondeva la mamma che diceva: «Drigo, c’è Pau». Si registravano demotape, che erano delle cassettine, e l’unico modo per farle arrivare alle case discografiche era la posta, quindi immaginate i tempi.
Drigo: E poi si facevano le fotocopie per creare le copertine e aggiungere qualche nota sulla band. Quando qualcuno andava in vacanza, raccoglieva le fanzine dei locali che facevano musica dal vivo. Esistevano anche magazine regionali, che fornivano gli indirizzi dei club in cui si poteva suonare. C’erano poi figure di riferimento, come qualcuno che copriva l’Umbria e parte della Romagna, e da lì riuscivamo a ottenere contatti per inviare le nostre demo e provare a chiudere date live. Si iniziava con le zone vicine e poi ci si spostava più lontano. Per noi, che venivamo dal centro Italia, andare al nord o al sud era quasi un’avventura transcontinentale.

Se non fosse andata bene con la musica, avevate un piano B?
Pau: Non ce lo siamo mai chiesti. Qualcuno di noi era iscritto all’università, ma con convinzione pari allo zero. Io e Cesare, che abbiamo iniziato per primi, avevamo un solo obiettivo: diventare musicisti.

Agli inizi preferivate portare cover o pezzi vostri?
Drigo: Abbiamo sempre fatto metà e metà. Suonare le cover ci ha aiutati molto, perché ci permetteva di confrontarci con la qualità dei brani originali. Quando abbiamo raggiunto lo stesso livello nelle nostre canzoni, abbiamo capito di aver fatto un grande passo in avanti.

Foto: Alessio Pizzicannella

Oggi tutto è molto più veloce, secondo voi questo ha tolto qualcosa alla musica?
Pau: Oggi la musica sembra diventata solo intrattenimento rapido, 20 secondi e via. La velocità con cui viene consumata ha cambiato il modo in cui viene creata. Si tende a comporre canzoni con strutture più immediate e dirette, cercando di catturare l’attenzione nel minor tempo possibile, spesso a scapito della profondità artistica. Anzi, direi proprio che la profondità artistica rischia di perdersi.

Quali sono stati i più grandi “no” detti dai Negrita?
Drigo: All’inizio ci rifiutammo di suonare in playback al Festivalbar. Da lì in poi siamo stati piuttosto selettivi nelle nostre partecipazioni.
Pau: Una volta mi contattarono come ospite a The Voice. Fu Piero Pelù a chiamarmi personalmente per unirmi al programma, ma rifiutai. Non mi sentivo adatto. Insistette, provò a convincermi, ma restai della mia idea. Un’altra volta mi chiamarono per fare un provino come giudice a un altro talent e lo feci più per fare un favore al nostro manager che per convinzione. Non mi presero per questioni di etichette, ma ho tirato un sospiro di sollievo.

Invece il rock, dopo il successo planetario dei Måneskin, è davvero tornato?
Pau: Ogni tanto si spara la notizia che il rock è tornato, ma è più sensazionalismo che realtà.

Ma vi piacciono i Måneskin?
Drigo: Li abbiamo visti dal vivo, sono una macchina da guerra. È un’ottima band.
Pau: No comment! Preferisco non esprimermi sui Måneskin perché in passato i giornalisti hanno travisato le mie parole, riportando interpretazioni sbagliate di quello che avevo detto.

Anche a voi è successo che un pezzo diventasse un tormentone, da Mama maé a Rotolando verso Sud. Prima dell’uscita ci si accorge che potrà diventare una hit?
Pau: C’è una differenza tra una hit e un tormentone e secondo me sta nella qualità e nella sincerità della musica.
Drigo: Alcuni pezzi nascono per restare e diventano la colonna sonora della vita delle persone, altri invece hanno una durata limitata. Ci sono brani che diventano virali perché passano in radio ogni ora, ma dopo una stagione spariscono. Noi siamo orgogliosi che alcune nostre canzoni vengano ancora ascoltate a distanza di anni, perché vuol dire che hanno lasciato un segno.

E invece avete mai sottovalutato una canzone che poi invece è esplosa?
Drigo: A Sanremo 2003 presentammo Tonight, ma poco dopo uscì Magnolia, che divenne un successo clamoroso. Col senno del poi, fu un errore strategico, perché Magnolia avrebbe avuto un impatto molto più forte su quel palco e probabilmente avrebbe cambiato anche la nostra esperienza a Sanremo. Forse avremmo dovuto portarla al Festival.

Restando a Sanremo, di solito lo seguite?
Pau: Personalmente no. È diventato un evento con troppa pubblicità e spettacolo, la musica sembra ormai soltanto un contorno. Ai nostri tempi Sanremo aveva un peso diverso, c’era più attenzione ai brani e agli artisti. Oggi sembra più un grande show televisivo dove la gara musicale è secondaria.
Drigo: Sanremo è sempre stato un palco importante, ma nel tempo ha perso quella centralità musicale che aveva un tempo. Oggi è un mix di intrattenimento e promozione, mentre i talenti emergenti hanno poco spazio rispetto ai nomi affermati. Certo, rimane una vetrina incredibile, ma non è più il punto di riferimento per la musica italiana come vent’anni fa.

Canzoni per anni spietati sembra già dal titolo un disco particolarmente critico verso la società, o no?
Pau: Guardiamo il mondo da genitori e siamo preoccupati. C’è rabbia, disillusione, ma anche speranza nelle nostre canzoni. Evitiamo la politica, preferiamo raccontare ciò che viviamo. Questo disco è nato da riflessioni profonde, dalle emozioni contrastanti che abbiamo vissuto negli ultimi anni. È un album che cerca di fotografare il presente con lucidità, senza nascondere le difficoltà, ma anche senza cadere nella disperazione.
Drigo: Abbiamo voluto esplorare diverse sfaccettature della nostra epoca, mettendoci dentro le nostre sensazioni personali. La musica deve ancora essere un veicolo per raccontare storie e dare voce alle emozioni. In Canzoni per anni spietati ci sono momenti di tensione, ma anche aperture alla speranza. Il titolo stesso riflette la durezza di questi anni, ma non è solo pessimismo: è un’osservazione sincera basata su quello che vediamo e viviamo.

Negrita - Noi Siamo Gli Altri

Il singolo che ha anticipato l’album è Noi siamo gli altri, dove cantate che “aspettiamo le rivoluzioni, ma chi le ha viste mai”. È quello che servirebbe in questi anni spietati?
Drigo: C’è rassegnazione, ma anche sarcasmo. La nostra generazione non ha mai visto una rivoluzione vera. Abbiamo sempre sentito parlare di grandi cambiamenti, ma alla fine tutto sembra rimanere uguale. Ci siamo resi conto che la ribellione di un tempo si è trasformata in un disincanto generale, un’accettazione passiva delle cose.
Pau: La società di oggi è intrappolata in una continua illusione di cambiamento. Ci si sfoga sui social, si urla indignazione online, ma nella realtà non cambia nulla. Le vere rivoluzioni richiedono sacrifici, impegno e coraggio, e forse oggi manca la voglia di rischiare davvero. La nostra generazione e quelle precedenti hanno visto più proteste che rivoluzioni, più dichiarazioni che azioni. “Aspettiamo le rivoluzioni, ma chi le ha viste mai” è un modo per dire che siamo sempre stati spettatori di eventi che alla fine si risolvono in un nulla di fatto.

Insomma, neanche dopo la pandemia ne siamo usciti migliori?
Pau: Ha congelato tutto, persino la nostra capacità di scrivere canzoni. Ci ha fatto perdere l’illusione che il mondo possa migliorare. È stato un periodo in cui il tempo sembrava essersi fermato, ma non in modo produttivo. Scrivere musica significa immaginare il futuro, ma per la prima volta ci siamo trovati senza punti di riferimento, senza sapere cosa aspettarci.
Drigo: Abbiamo vissuto un momento unico nella storia, un reset forzato. All’inizio pensavamo che la pandemia potesse portare a una riflessione collettiva, a un cambiamento. Invece, appena le restrizioni sono state tolte, il mondo è tornato più frenetico e disordinato di prima. Ci siamo resi conto che la pandemia ha accentuato l’individualismo, ha creato più distanze tra le persone, invece di unirle. Questo spaesamento è entrato nelle nostre canzoni, perché è impossibile ignorare l’impatto che ha avuto sulle nostre vite. Era come se il futuro fosse stato improvvisamente oscurato, non sapevamo più cosa aspettarci. Il lockdown ha creato un vuoto creativo, perché scrivere significa anche immaginare cosa verrà dopo e in quel momento nessuno aveva certezze. Quando tutto è diventato incerto, la nostra ispirazione ne ha risentito. Ci ha fatto perdere l’illusione che il mondo possa migliorare.

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