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I personaggi delle vecchie canzoni di Springsteen oggi voterebbero Trump?

La classe operaia cantata da Bruce si è spostata a destra? Come può riconoscersi nei valori del rocker? Perché lo citano anche i repubblicani? Lo abbiamo chiesto all’autore di ‘There Was Nothing You Could Do: Bruce Springsteen’s Born in the U.S.A. and the End of the Heartland’

Foto: Gary Gershoff/Getty Images

Sono passati quarant’anni da quando Ronald Reagan ha citato Bruce Springsteen, primo presidente americano a farlo. «Il futuro dell’America» disse nel corso di un comizio nel New Jersey «è nei mille sogni racchiusi nei nostri cuori, è nel messaggio di speranza delle canzoni di un uomo che tanti giovani americani ammirano, il figlio del New Jersey Bruce Springsteen».

All’epoca Springsteen era al centro della cultura popolare americana avendo da poco pubblicato il best seller Born in the U.S.A. il cui messaggio, per via della title track e della copertina con la bandiera americana, poteva essere mal interpretato. Da allora Bruce ha manifestato chiaramente la sua simpatia per la sinistra americana, ha appoggiato candidati democratici, ha persino fatto coppia con Barack Obama in un podcast e un libro.

Pure oggi, nell’epoca in cui Freedom di Beyoncé è la colonna sonora della campagna di Kamala Harris, il nome e la musica di Springsteen continuano a comparire nella conversazione politica. Donald Trump lo tiene in considerazione, Tim Walz è un suo fan e si è sentita Born in the U.S.A. alla convention nazionale dei dem.

L’impatto culturale e politico di quell’album è ben analizzato da Steven Hyden nell’eccellente There Was Nothing You Could Do: Bruce Springsteen’s Born in the U.S.A. and the End of the Heartland. Gli abbiamo chiesto di rispondere a un po’ di domande sul perché Springsteen è ancora politicamente rilevante.

Il primo momento springsteeniano di questa campagna elettorale è stato quando Donald Trump ha detto, così dal nulla, che a Bruce lui non piace. Che idea ti sei fatto?
Il rapporto di Trump col classic rock è decisamente interessante. Per via della sua età è ovviamente un gran fan del rock anni ’60 e ’70, ma è una situazione imbarazzante perché non è ricambiato da nessuno di quei musicisti, men che mai da Springsteen. Mettiamola così: i suoi eroi musicali lo considerano unanimemente un male per il Paese.

Eppure dei tanti musicisti che non lo apprezzano Trump continua a parlare di Springsteen. Il fatto che a Bruce non piaccia – gli ha dato dell’imbecille quando gli ho parlato per Rolling Stone nel 2016 – lo infastidisce parecchio. E forse ha a che fare col fatto che Bruce ha un peso che altre rockstar non hanno.

Era vero 40 anni fa e probabilmente lo è ancora di più oggi. Non è visto come una figura politica, eppure si sente tale più di qualunque altra rockstar. E ha qualcosa del populismo. E quindi è probabile che ci sia una parte di Trump che pensa che Bruce dovrebbe essere uno dei suoi perché rappresenta l’americano medio che parla a nome degli americani medi. Forse nella testa di Trump c’è questa illusione, forse pensa che lui e Springsteen siano in qualche modo dalla stessa parte. Ecco perché gli brucia in modo particolare non avere la sua approvazione.

Nel libro racconti che nel 2016 il New York Times ha rintracciato il tizio di cui Bruce canta in Youngstown ed è un elettore di Trump. In un certo senso, Springsteen e Trump parlano alle stesse persone…
La dice lunga su come sia cambiata politica dell’America rurale. Negli anni ’80 era molto più facile trovare un operaio che lavorava in fabbrica ed era democratico. Ora non è più così e credo abbia a che fare con la guerra culturale, col modo in cui le persone di destra e di sinistra si presentano alla gente che vive nel cuore dell’America. Quindi sì, se vuoi una metafora di com’è cambiato il Paese la puoi trovare nei personaggi delle canzoni di Bruce Springsteen che diventano elettori di Trump. È una metafora facile del cambiamento degli Stati Uniti negli ultimi 40 anni.

Poi arriva Tim Walz, uno che ama la musica ed è un fan di Springsteen. C’è un video in cui parla di musica con Kamala Harris e cita The River.
Credo che parlare dei suoi gusti musicali sia un modo per presentarsi come un tizio normale opposto ai repubblicani che vengono definiti come quelli weird. Secondo me quando Walz parla di Springsteen la gente pensa «ah, come papà» oppure «mi ricorda mio zio». È un modo per umanizzarlo in modo semplice e veloce. Ma ha anche a che fare con la collocazione di Springsteen nella cultura odierna. Quand’è stato eletto Obama, Bruce aveva quasi 50 anni, non era così avanti con l’età. Oggi invece se pensi a Springsteen, pensi a un artista che piace a tuo padre o forse persino a tuo nonno. Ed è positivo. È una cosa molto americana e progressista. È un ritorno all’idea che si può essere colletti blu e nel contempo sostenere i diritti dei trans e il diritto dell’aborto. Non sono cose per forza incompatibili.

Bruce è associato a una fanbase avanti con l’età, ma ci sono anche giovani che lo amano, certamente fra gli artisti. È stato cool a livello indie per una ventina d’anni, dai tempi di Arcade Fire e Killers.
In un certo senso ha preso il posto di Johnny Cash, l’anziano che le nuove generazioni considerano un faro di integrità.

O Neil Young negli anni ’90.
Sì, anche come Neil Young, ma Cash e Springsteen hanno qualcosa di più… americano. Sono uomini duri e virili, ma anche sensibili. Sono politicamente progressisti. Bilanciano aspetti che gli americani apprezzano: l’individualismo e la durezza, ma anche la ponderatezza. È il lato positivo della gente che canta «U.S.A.!». Non il lato sciovinista, idiota e reazionario, ma il lato giusto. Per la gente della mia generazione, Johnny Cash era quel tipo di persona. Secondo me è interessante pensare anche ai feat di Bruce come Sandpaper di Zach Bryan: è come mettere una bald eagle in una canzone. O i Killers che hanno ri-registrato A Dustland Fairytale e Bruce ci ha cantato sopra. Mi ha ricordato la volta in cui gli U2 hanno chiamato Johnny Cash a cantare con loro. Bruce è un simbolo dell’America come l’aquila di mare testabianca o la bandiera americana o la torta di mele o cose del genere.

È questo che dà fastidio a Trump. Se non ci fosse stato quel periodo tra il 1984 e il 1985, quando ha usato il titolo Born in the U.S.A. e ha fatto la copertina del disco con la bandiera, che portava sul palco, forse sarebbe diverso.
Sì, assolutamente. È chiaro che già prima scriveva degli americani della classe operaia, ma il simbolismo di Born in the U.S.A. e il suo successo pazzesco sono ancora impressi nella coscienza popolare. Nel mio primo libro ho scritto di Chris Christie e Bruce Springsteen e di quanto debba essere strano per Christie essere un fan di Springsteen e sapere che Bruce, almeno politicamente, ha tutt’altre idee. E credo che questo valga anche per Trump. Bisogna tenere in mente che è possibile interpretare le sue canzoni in modo diverso a seconda della propria posizione politica. Ci un sacco cose nella sua musica in cui un conservatore può ritrovarsi se riesce a ignorare tutto il resto, cosa che peraltro la gente fa con le canzoni. Sai, tendiamo a ignorare le cose che non sono in linea con le nostre esperienze. Ci attacchiamo a una frase e nella nostra testa facciamo sì che tutta la canzone sia su quello. È ovvio che ci sono molti repubblicani che amano Bruce Springsteen, da sempre. Se sei un conservatore, puoi trovare nei suoi pezzi un sacco di cose in linea col tuo modo di vedere l’America, ma questo ti costringe a ignorare molte altre cose che sarebbe altrimenti scomodo considerare.

Non era così prima del fenomeno MAGA? Mi pare difficile dire oggi: «Sono un repubblicano MAGA e queste sono le cinque cose che sento nella musica di Bruce in linea coi valori MAGA».

Molti di quelli che votano Trump non sono come quelli che leggi online. Conosco gente che vota per Trump perché vota repubblicano da una vita. Non è che tutte le persone che vanno a vedere Springsteen allo stadio nel New Jersey sono democratiche. La distribuzione tra le idee politiche è più equilibrata di quanto possa sembrare, anche se non possiamo saperlo con certezza se non facendo un sondaggio.

Giusto. Durante la convention dem si è sentita Born in the U.S.A. almeno un paio di volte. Anche i democratici hanno usato o abusato della canzone come fanno tradizionalmente i repubblicani, intendendola come inno patriottico. Il patriottismo sofferto, tradito e arrabbiato di Born in the U.S.A. va bene nel contesto della DNC, dato che sappiamo che questo è il partito che Bruce sostiene, oppure è comunque strano?

Un po’ strano lo è, ma stiamo pur sempre parlando di una canzone che in un palazzetto assume un carattere diverso che trascende il testo. La musica è coinvolgente, il ritornello ti spinge a cantare. E in mezzo a una massa di persone vien facile ignorare le sfumature del testo. Prova a dire «aspettate, questa è in realtà una critica all’America, non una celebrazione» in mezzo a 20 mila persone e verrai sommerso da gente che urla «Born in the U.S.A.!». È così che funziona. È il potere e anche la natura problematica della canzone.

Curioso che la delegazione del New Jersey l’abbia usata come theme song. È chiaramente ambientata nel Jersey e quindi la “dead man’s town” del primo verso è una città del Jersey.
Sarebbe ancora più strano se fosse stata Born to Run che probabilmente dipinge un quadro ancora più cupo del New Jersey. Bruce non scrive di un paradiso in cui va tutto alla grande. Non è così il Jersey nelle canzoni di Springsteen.

Da Rolling Stone US.

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