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I Phish oggi, spiegati bene da Trey Anastasio

Intervista senza reticenze al leader della band: il traguardo dei 60 anni, la brutta fine di Jerry Garcia, l’avidità di chi circonda i musicisti rock, l’alcol e le droghe che lo stavano fregando, l’ultima canzone dell’ultimo concerto

Trey Anastasio compirà 60 anni poche settimane dopo la fine del tour estivo dei Phish. Qualcun altro sarebbe depresso alla sola prospettiva del compleanno, ma non lui. «Sarà strano, ma sono contento. È l’età in cui esci dalla mischia e inizi a vedere le cose da fuori, e a godertela. È una Bellissima sensazione. E puoi anche condividere con gli altri quel che hai imparato e prendere tutto quanto con filosofia. Non mi sbatto più. Presente il testo di Room Full of Mirrors di Jimi Hendrix? “Vivevo in una stanza piena di specchi / Non vedevo altro che me stesso / Poi ho preso il mio spirito e ho distrutto gli specchi / E ora posso vedere il mondo intero”».

Qual è la musica che più ti emoziona oggi?
Ravel, perché le sue opere stanno ai confini estremi delle emozioni, dell’armonia, della sensibilità. Le sento vicine alle emozioni confuse che ho provato per buona parte della vita. Se invece parliamo di rock, direi Hejira oppure Blue di Joni Mitchell, per lo stesso motivo. È riuscita a esprimere emozioni complesse senza dare mai una risposta. Non ho mai avuto la sensazione che Joni mi stesse dicendo: questa cosa l’ho capita. Trasmetteva lo stesso disorientamento che tutti quanto proviamo ogni singolo giorno.

Quali sono gli aspetti positivi e quali negativi del successo?
Il successo ti dà la possibilità di lavorare. Tipo, domani suonerò con un’orchestra ed era un mio sogno da ragazzo, senza i Phish e le altre cose che ho fatto non sarei mai stato in grado di realizzarlo. Il successo apre delle porte. In quanto al lato negativo, hai contezza della tua stessa presenza e può essere tremenda questa cosa. Non sto in una band famosa, ed è una gran fortuna, ma quando esco di casa gli sguardi della gente mi fanno pensare che forse un po’ noto lo sono. È gente gentile, eh, ma improvvisamente capisci che ti stanno guardando e questa cosa ti manda fuori di testa. Se la porti alle estreme conseguenze, è roba per cui la gente s’ammazza ed è effettivamente successo. Si tratta di imparare a conviverci. Una volta che ci riesci, va tutto bene. Smetti di pensare che sia reale e ti godi gli incontri che fai con la gente. Il che ci riporta ai lati positivi del successo: mi permette di incontrare persone che mi raccontano di quando hanno visto un concerto, o magari ci hanno portato la madre, cose così. Bello. Mi fa sentire bene.

Dimmi dell’ultimo disco dei Phish, Evolve. Che obiettivi vi eravate prefissi?
Siamo partiti scrivendo molto per poi sperimentare coi pezzi dal vivo. La abbiamo voluta questa cosa. I nostri dischi migliori, e non abbiamo fatto molti grandi dischi, hanno a che fare col nostro essere anzitutto una live band. Io scrivo per avere canzoni da fare dal vivo. Tipo: abbiamo bisogno di un pezzo adatto a fine concerto? Serve un lento? E io li scrivo. E quindi i nostri dischi più riusciti sono quelli nati quando ci siamo stufati di suonare sempre gli stessi pezzi. E le canzoni sul palco a forza di suonarle migliorano anche 20 volte tanto e questa cosa ti fa venire la voglia di tornare in studio e registrarle di nuovo. Ecco perché ho voluto suonare i pezzi inediti in concerto almeno due o tre volte prima di inciderli.

L’altra idea era testare i pezzi con le comunità dei Phish e della Trey Anastasio Band, che poi sono pressappoco le stesse persone, e vedere quali funzionano meglio prima di inserire effettivamente nell’album. E infine, a forza di fare concerti acustici da solo ho imparato bene a distinguere una buona canzone. È quel che innumerevoli produttori mi dicono da 40 anni a questa parte. Tipo Brendan O’Brien: «Prendi uno sgabello e suonami i pezzi. Non si entra in studio finché non abbiamo una canzone che puoi cantarmi alla chitarra acustica».

Giusto.
Quincy Jones è un altro che lo diceva sempre. Una bella canzone è una bella canzone. Quindi, dopo averle suonate dal vivo e prima di registrarle ho fatto un concertino privato con le versioni acustiche delle canzoni, sai, per esaminarle dal vivo un’ultima volta, capire se erano nella tonalità giusta, se i testi giravano, se erano ben rifinite. A quel punto, le abbiamo risuonate tutte dal vivo col gruppo un’ultima volta, dico letteralmente tutte, per poi inciderle nel giro di un paio di giorni. Insomma, c’è stato un gran lavoro di preparazione, ma poi è stato registrato alla vecchia maniera facendo varie take, come Aretha Franklin, come The Band, come i Beatles, che poi sceglievano la migliore. È la forza dei Phish.

Non avete mai avuto una hit radiofonica. La cosa più vicino a un successo è Free e parlo di una canzone che chi non è fan manco conosce. Non avete mai avuto la vostra Touch of Grey che vi ha permesso di suonare negli stadi e attirare nuovi fan. Come la vivi?
Non tutti mi crederanno, ma lo considero il nostro superpotere. È liberatorio, ma di brutto. Vedi, siamo fuori dai giochi. Siamo cresciuti come band, ma lentamente. Abbiamo fatto esperienza passo dopo passo, senza scorciatoie. La musica è una ricerca che dura una vita, con una serie di false vette: pensi di essere arrivato in cima, ma non ci arrivi mai, quando ci arrivi ti accorgi che c’è un’altra vetta più alta da scalare. E alla fine muori. Nessuno arriva in fondo, mai. Ecco, il fatto che che siamo cresciuti in modo naturale è paradossalmente il nostro superpotere perché è quel che ci permette di essere tanto amati quando suoniamo dal vivo. È venuto a vederci Ed O’Brien dei Radiohead e mi ha fatto un super complimento. Ha visto il concerto tra il pubblico ed è venuto in camerino a dirci che aveva passato un sacco di tempo guardando non il palco, ma il pubblico e che «erano tutti quanti presi dal concerto, non solo quelli delle prime file, tutti. A volte penso che molti vengano a vedere i Radiohead perché fa figo senza conoscere necessariamente tutti i pezzi, e quindi si mettono a parlare, mentre i vostri fan sono al 100% coinvolti e conoscono ogni dettaglio, dalla prima all’ultima fila». È quel che succede quando ti prende del tempo per crescere lentamente.

Cerco di immaginare come potrebbe essere una hit dei Phish. Avete mai provato a scriverne una?
No e non saprei come farlo. Ho un’altra strana teoria su questa cosa. Il mondo delle hit non è quello in cui viviamo noi, a questo punto della nostra carriera. Pensa alla storia della musica. Ai tempi di Be My Baby le Ronettes avevano 19 anni, i Beatles 23.

Giusto, voi però negli anni ’90 eravate giovani e altre band di rock alternativo hanno avuto dei successoni.
Voglio farti una domanda io e occhio che potrebbe spiazzarti. Pensa al passato e che età aveva tutta quella gente.

Probabilmente 23 anni o giù di lì.
Esatto. Voglio leggerti una lista di album fatti da 28enni che ho qui perché stavo facendo questo gioco con degli amici. Pronto?

Vai.
The Band, The Band. Levon Helm e Robbie Robertson avevano 26 e 29 anni. Bob Marley, Catch a Fire, 28. Joni Mitchell, Blue, 28. Carole King, Tapestry, 28. Bob Dylan, Blonde on Blonde, 25. Public Enemy, It Takes Takes a Nation of Millions to Hold Us Back. Chuck D aveva 28 anni. Stevie Wonder, Songs in the Key of Life, 28. Kendrick Lamar, To Pimp a Butterfly, 28. The Clash, London Calling, 28. Led Zeppelin IV, Jimmy Page era un 27enne. The Beatles, White Album. John ne aveva 28. Bruce Springsteen, Born to Run, 26. Radiohead, OK Computer. Thom Yorke aveva 28 anni. Sly and the Family Stone, There’s a Riot Going On. Sly era 28enne. Rolling Stones, Exile on Main Street, Mick e Keith erano 29enni, due vecchietti. Velvet Underground, Loaded. Lou Reed 28 anni. The Who, Quadrophenia. Pete Townshend 28. Nirvana, Nevermind, Kurt 24. Hank Williams, Moanin’ the Blues è il suo discone e aveva 28 anni. Patsy Cline, I Fall to Pieces, 28. Miles Davis, Kind of Blue, 33, un po’ più vecchio. Smiths, The Queen is Dead, il loro capolavoro fatto quando Morrissey aveva 28 anni come Freddie Mercury ai tempi di Queen II e Sheer Heart Attack. Taylor Swift, Reputation, 28. Neil Young, Harvest, 28. Talking Heads, Remain in Light, David Byrne ne aveva 28. Nick Cave and the Bad Seeds, The Boatman’s Call… Potrei andare avanti per ore. Capisci dove voglio arrivare?

Le hit sono roba da giovani.
Ecco perché dico che è il nostro superpotere e perché è liberatorio. Siamo fuori da questo gioco. E il gioco che facciamo ci soddisfa in mille altri modi. E comunque, anche quand’eravamo giovani non era quello il nostro obiettivo. Volevamo migliorare dal vivo, non parlavamo d’altro. Il palco era la nostra isola felice. Abbiamo raccolto quel che abbiamo seminato.

Tra il 2004 e il 2009 i Phish si sono sciolti. Come l’hai vissuta?
Pensavo alla salute, stavamo per essere divorati dall’abuso di sostanze e dall’esaurimento. Eravamo cresciuti troppo velocemente. La gente ha dimenticato che siamo stati tra i primi a fare festival in America. Negli anni ’90 non c’erano altri festival oltre a quelli dei Phish. So che sembra assurdo, ma il Lollapalooza era un tour in posti già esistenti. Noi invece abbiamo creato festival da zero attirando 80 mila persone. Per questo ci siamo fermati. Abbiamo ripensato a tutto quanto e siamo tornati nel 2009. Da allora tutto è filato liscio.

Hai imparato qualcosa su di te durante quella pausa?
Ho imparato a distinguere i veri amici e ad apprezzare il fatto di avere una famiglia, in tutti i sensi. Ero inguaiato e sono contento di essere sopravvissuto. Non era scontato. Nei primi due anni ho passato ogni secondo della giornata coi miei figli, mia moglie, mia madre e mio padre. Per due anni non ho parlato con nessun altro, o quasi. Le tre persone che sono tornate nella mia vita sono state Jon [Fishman], Mike [Gordon] e Page. Li adoro. È impossibile descrivere quanto ci si voglia bene all’interno della band. Ne abbiamo passate di cose in 40 anni. Quand’è arrivato il turno mio di andare in crisi, mi sono stati vicini non so neanche dirti quanto.

I musicisti che stanno in una band per troppo tempo poi finiscono per detestarsi.
Sul palco sorridono, nel backstage prendono sei strade diverse il più velocemente possibile. Manco riescono a stare assieme al catering. Noi invece ci piacciamo davvero, lo dico sinceramente. È strano dopo tutti questi anni. Gli unici altri gruppi così che ho conosciuto sono i Rush e gli U2. Loro sì che si volevano bene. Ma i Rush si conoscevano dalle medie.

Se uno dei Phish molla, è finita?
Finita. Ascolta, non c’è proprio modo che questa band esista senza uno di noi quattro. Il motivo per cui tante band soprattutto degli anni ’70 sono andate avanti con uno o due membri sono i soldi. Da un certo punto in poi, è tutto denaro. È solo nostalgia, soldi e oldies. Non è il caso ad esempio dei Led Zeppelin, che non lo hanno mai fatto. Del resto mica sei obbligato a farlo, ma di solito di mezzo ci sono manager e giovani musicisti che vogliono salire sul carrozzone e tirare su dei bei soldi con una vecchia band di cui non hanno mai fatto parte. Spero che a noi non accada.

Sei stato il frontman dei Dead nei loro show d’addio del 2015. Cos’hai imparato da quell’esperienza?
Intanto è stato un grandissimo onore. Per dirla con Jorma Kaukonen, «mi spiace ragazzi, ma è la band di Jerry». Ecco cos’ho imparato suonando con loro. I pezzi sono incredibili e quindi è bello che ci siano tante tribute band che li tengono in vita. Ogni tot emerge un grandissimo musicista americano, un gigante tipo Louis Armstrong o James Brown, che pure lui aveva una gran band come Jerry. Siamo fortunati ad avere vissuto nella sua epoca e ora ne cantiamo le canzoni. Ma al di là di questo, è soprattutto nostalgia. Spiace, ma è proprio così.

L’uscita di scena di Jerry è stata piuttosto triste. Era salito sulla giostra e non riusciva più scendere. Ti ci immedesimi?
Mi ci immedesimo. Sembrerà strano, ma è stata Chappell Roan a dire sul palco una cosa tipo: «Se è tutto quel che ho sempre voluto, perché sono così infelice?». Grazie al cielo qualcuno lo dice e non se lo tiene dentro. Non è l’unica a passarci attraverso, pensa ad Amy Winehouse. È che attorno a te c’è stata gente che ha solo da guadagnarci e tu, essendo un entertainer, sali sul palco col disperato desiderio di far divertire il pubblico. Investi centinaia, anzi migliaia di ore del tuo tempo per farlo, che tu sia un attore di Broadway, Chappell Roan, Amy Winehouse o chiunque altro. Vuoi che venga bene e quindi ci metti tutto quel che hai. Ma le persone che ti girano attorno vogliono guadagnarci su. Non sono persone cattive, è solo che ci devono guadagnare. Anche piccole utilità, magari essere nell’entourage dell’artista ti permette di alloggiare al Four Seasons, avere pass per i backstage, andare alle feste. Diventa difficile dire di no alla gente. Inizi ad accettare di fare cose che non altimenti non avresti fatto, è un’onda che ti travolge. Ma un giovane musicista non ci mette tanto a capire quel che sta succedendo. Tipo: com’è che improvvisamente ho 750 migliori amici quando due mesi fa, prima di diventare famoso, ne avevo uno solo?

E a questa gente, quella che ti gira attorno, non frega granché di te e del tuo benessere.
Nel caso peggiore, può trattarsi persino di membri della tua famiglia, vedi Justin Bieber o Britney Spears. Quando l’ingranaggio si mette in moto persino tuo padre può fregarti. Succede da sempre. Quanto vorrei però che Jerry Garcia fosse ancora vivo. Quanto vorrei che lo avessero lasciato in pace e gli avessero permesso di rimettersi in sesto, in modo da poterlo ancora sentire cantare quei pezzi e suonare quella chitarra come sapeva fare un tempo, ovvero meglio di chiunque altro.

Cosa sai delle droghe oggi che non sapevi quando avevi 20 o 30 anni?
Che fanno schifo (ride). Ma non lo capisci nemmeno nel momento in cui ti stanno rovinando. Soprattutto le droghe pesanti. Ma pure l’alcol, che probabilmente è il più insidioso. Nulla al mondo ti mette ko come come una grande, gigantesca bottiglia di vodka. La cosa folle è che ci sono finito dentro dopo aver passato la vita a dire che mai l’avrei mai fatto. Ho passato gli anni ’80 e ’90 suonano in una band e riuscendo ad evitarle del tutto. E all’improvviso, eccole. Manco te ne accorgi. Quando ho iniziato a ripulirmi, parliamo di 17 anni e mezzo fa, uno dei primi terapeuti mi ha detto: «Qual era la tua droga preferita?». E io: «Eroina e antidolorifici». «Probabilmente stavi soffrendo. Le persone che prendono quella roba di solito soffrono». Non ti fai una cosa del genere se non stai cercando di spegnere il mondo per un minuto.

Fa strano, da sobrio, guardare una folla di persone di cui una buona parte è sotto l’effetto di droghe?

In realtà no. Del resto suono in una band con un solo componente completamente pulito: io. La vedo così: alcuni amici sono vegani e altri mangiano carne. Non sono qui per giudicare e dire che una scelta di vita è migliore di un’altra. Esistono milioni di scelte di vita. Ho avuto grandi esperienze da giovane con le droghe psichedeliche e simili, prima che tutto andasse a rotoli. Non do un giudizio su alcunché, tranne che su me stesso. Ecco, come me stesso sono molto critico. Una cosa però la posso aggiungere alla conversazione e cioè: c’è una via d’uscita. Se hai un problema, lo sai. Se avete un amico che ha un problema, lo sapete. Tutti abbiamo avuto un problema o abbiamo conosciuto qualcuno che lo ha avuto. Lo riconosci subito.

Ora quando esco a cena coi miei genitori o i miei figli, che hanno 27 e 29 anni, loro prendono un cocktail, io no. Ma loro non hanno problemi. Non do la colpa al cocktail, ma non ne posso bere e va bene così. Non ci penso nemmeno più. Come ho detto, l’unica cosa che posso aggiungere alla conversazione è che c’è una soluzione.

Nel 2003 ti auguravi di fare l’ultimo concerto dei Phish superati gli 80 anni. Ci speri ancora?
No, adesso mi auguro sia dopo i 90. Voglio fare come Willie Nelson. La ragione: voglio che Jon, Mike e Pag stiano bene, voglio bene a quei tre, ci dobbiamo prendere cura l’uno dell’altro. Poi è chiaro che, statisticamente, le cose avvengono e qualcosa succederà, siano quattro uomini che si conoscono da 40 o 50 anni, è normale che qualcosa succeda. Così ora ogni sera al lato del palco ci guardiamo e ci diciamo grati di poterlo fare per un’altra sera. È diventata una cosa sempre più evidente. È una specie di rituale. Ci mettiamo in cerchio e diciamo: «Oggi siamo tutti in salute. Possiamo farlo. Siamo tutti qui. Ci è stato concesso un altro giorno assieme». Ecco perché mi piacerebbe continuare suonare con loro superati i 90 anni.

Quale vorresti fosse l’ultima canzone dell’ultimo concerto dei Phish?
Direi You Enjoy Myself, con la jam vocale. Deve essere quella. Anche dopo tanti anni non so spiegarti perché funziona, ma funziona. Era sul primo album che ci ha subito collocati fuori dal mainstream perché nessuno sapeva che farsene di un gruppo come il nostro. Ricordo quando alle prime prove della band ho portato tutti questi appunti su una composizione che è atonale. Li ho dati a Page, che mi ha detto che non vedeva l’ora di suonare quella roba. Abbiamo aggiunto altre cose strane e ancora oggi quando la facciamo mi parte un sorriso perché mi riporta a quegli anni lì. Sarebbe perfetto chiudere con quella.

Da Rolling Stone US.

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