I Santi Francesi sanno. Ma non hanno le prove. Essendo degli artisti, però, e parafrasando Pier Paolo Pasolini, con l’istinto del loro mestiere sentono che “Siamo tutti in pericolo”, come ci avvisò nel titolo dell’ultima intervista l’intellettuale ucciso nel 1975 all’Idroscalo di Ostia. E anche Alessandro De Santis e Mario Lorenzo Francese, oggi, ci confessano: Ho paura di tutto. Come nel primo singolo estratto dal nuovo EP in uscita l’8 novembre dove cantano “Ho paura di tutto / Di tutto quel che so” e dove riecheggia la famosa invettiva “Io so. Ma non ho le prove”.
Cosa conosce di così inquietante questo duo hard pop? Per esempio «che felicità e benessere sono due condizioni completamente staccate tra loro». Eppure, sommersi da una mole di informazioni enorme che riceviamo ogni giorno – di cui potremmo fare benissimo a meno – non solo ce lo dimentichiamo, ma rischiamo di perdere la sensibilità verso noi stessi, chi abbiamo intorno e il mondo che ci circonda. Vi sembra poco?
Non a caso, nelle sei tracce del nuovo EP Potrebbe non avere peso ci invitano a ritrovare l’umanità che, a causa della sovraesposizione alla tecnologia, stiamo perdendo. Ma non aspettatevi canzoni di denuncia (almeno non esplicitamente) o slogan da poter utilizzare sui social (che non hanno da tempo). Perché i Santi Francesi, al massimo, vi spingeranno a reagire a un malessere che in fondo sentono in tanti e al quale ognuno può rispondere a proprio modo. Loro, in questa intervista, ci hanno spiegato come hanno fatto: «Ripresi in mano gli strumenti che usavamo a 15 anni, li abbiamo fatti suonare il più forte possibile gridando come pazzi».
Ascoltando il vostro EP ho avuto la sensazione che cerchiate di sfuggire da qualsiasi significato esplicito, privilegiando invece il significante. Cioè una sorta di rappresentazione mentale originata da musica e testo. Ho sognato o c’è del vero?
Alessandro De Santis: In generale sì, non abbiamo mai avuto la tendenza a voler diventare delle bandiere di qualcosa. Anche per un’insicurezza che abbiamo entrambi. E poi perché, con il passare degli anni, ci stiamo rendendo sempre più conto che abbiamo il diritto di parlare solo di ciò che viviamo. È chiaro che la musica, una volta che la scrivi e la pubblichi, fa passare dei messaggi. Però è anche importante capire che è un’indagine che facciamo dentro di noi. Da X Factor in poi la nostra agenda è stata molto fitta e i momenti di silenzio pochi. Ma li desideriamo, perché se non vivi qualcosa non puoi scriverne. O almeno, puoi farlo ma escono fuori canzoni forzate, senza ricerca.
Faccio una digressione prima di tornare all’EP, visto che avete vissuto più o meno lo stesso percorso degli Aura e Marilyn che, dopo l’eliminazione dai Bootcamp di X Factor, hanno detto che «la musica indipendente è morta e Manuel Agnelli l’ha uccisa». L’ho chiesto anche ai Fast Animals and Slow Kids e per loro era più una questione di che cos’era e cos’è diventato l’indie. Per voi?
Alessandro: Sono esperienze talmente singolari che è difficile generalizzare. A noi è andata bene. Ci siamo divertiti, siamo stati rispettati musicalmente e umanamente. Anche perché non avevamo grandi pretese, viviamo occasioni del genere come vetrine per far sentire le nostre canzoni, non c’è molto altro. È importante affrontare un talent nel momento giusto della propria vita. Se sei molto giovane c’è il rischio di prendere troppo sul personale certe cose. È anche vero che quando esci da un talent vorresti ammazzare tutti.
Mario Francese: Non so se l’indie è morto, di sicuro è cambiato. Ora è diventato un genere, mentre prima era un aggettivo. Non ha più la stessa accezione di qualche anno fa, quando con Ale andavamo a sentire Calcutta in mezzo ad altre 30 persone e non sapevamo chi fosse. Come diciamo spesso, forse vanno cercati nuovi suoni e nuovi stili e la musica dovrebbe provare a tornare indie.
C’è anche un’altra tendenza: dopo aver raggiunto il successo, molto giovani artisti si sentono costretti a prendersi una pausa, da Alfa a Lorenzo Fragola e fino a Sangiovanni.
Alessandro: Il punto è non arrivare al punto di dovere fare una pausa. Ci stiamo lavorando da anni. Vogliamo tornare a casa la sera, guardarci allo specchio e non doverci girare dall’altra parte schifati. Ma trovo sia normale prendersi delle pause. Fino a qualche anno fa l’artista faceva questo: scriveva, andava in tour e poi si fermava. Se imposti il lavoro in questo modo, con delle pause decise da te e non perché non ci stai più dentro, non arrivi mai a doverle fare per forza. Se c’è un po’ meno musica che esce il venerdì non è un grosso problema. Fermiamoci tutti per respirare.
Tornando all’EP, nel singolo che lo ha anticipato, Ho paura di tutto, ho sentito dei riverberi dell’ultima intervista a Pier Paolo Pasolini di Furio Colombo, che si intitolava
“Siamo tutti in pericolo”. Cantate: “Ho paura di tutto / di tutto quel che so”. Che suona un po’ come il famoso: “Io so. Ma non ho le prove”. La sto facendo troppo grossa?
Alessandro: Ti ringraziamo per averla fatta così grossa, perché è un bellissimo parallelismo. “Siamo tutti in pericolo” è una traduzione perfetta di “Ho paura di tutto”. In parte è quello che vogliamo dire. C’è in giro del pericolo che fa paura e che nel nostro caso ci ha fatto prendere in mano gli strumenti, che usavamo a 15 anni, e ce li ha fatti suonare il più forte possibile gridando come dei pazzi. Questa è stata la nostra reazione. Il brano, come tutto quello che abbiamo prodotto, nasce da un senso di malessere. Semplicemente da quando apriamo gli occhi e riceviamo tutti gli input che ci arrivano dall’esterno.
Ti arrivano anche se non sei più sui social?
Alessandro: Sì, non ci sono più da un anno, però mi arriva il 90% delle cose che passano sui social, o perché me le mandano con altri mezzi o perché me ne parlano. Però nel bridge scriviamo: “E meno male che / Ho paura di restare triste”. Vogliamo dire che se avete paura, dovete stare tranquilli, è assolutamente normale quando hai 20 anni e un minimo di sensibilità. Poi ognuno trova il modo di sfogarla. Noi lo facciamo suonando.
La paura è un po’ come la noia, alla quale in passato avete dedicato una canzone?
Alessandro: Assolutamente sì. È la prova che senti ancora qualcosa. Quell’ansia che tutti i 20enni provano e che può portare alla depressione, che è una condizione nella quale smetti di sentire tutto. Finché hai una paura che ti tiene sveglio e attento è meglio sfruttarla.
Non è un po’ strano, pensandoci, che la tecnologia che è stata sviluppata per farci stare meglio e invece sta scatenando reazioni avverse?
Alessandro: Probabilmente stiamo scoprendo come felicità e benessere sono due condizioni completamente staccate tra loro. Puoi avere tutti i vantaggi del mondo e sentirti comunque un cretino quando vai a dormire la sera.
Mario: L’intelligenza artificiale è uno strumento nato per farci avere meno paura in settori come la medicina o la scienza. Sappiamo sempre più cose e le facciamo in maniera sempre più precisa. Ma quando si passa alla produzione artistica tutto diventa molto strano e anche un po’ spaventoso. Gran parte di quello che raccontiamo in Potrebbe non avere peso deriva in larga parte da quel mondo. Dalla quantità di informazioni enorme con cui veniamo a contatto ogni giorno e che non ci serve sapere. Non riesci più a concentrarti su te stesso e ti annoi per non pensare a niente. Non ha niente di salvifico.
Anche per questo pensare che “potrebbe non avere peso” è un modo per liberarsi da un tale fardello?
Alessandro: Viaggiamo spesso e quando vieni a contatto con la natura, ti rendi conto di quanto sei piccolo, di quanto poco conta quel che fai in questo meccanismo più grande. È uno scarico di responsabilità che ti dona pace. La mancanza di desiderio è il punto nel quale, paradossalmente, sei più umano.
E i Gatti della canzone?
Alessandro: Ci aiutano tantissimo. Ogni tanto sono a casa con il mio gatto e in alcuni momenti di tristezza lo guardo: lui, a differenza di me, non si sta facendo nessuna domanda, eppure è felicissimo. Dovremmo imitarli di più.
Questo è un EP che, si sente, è molto “fisico”. Come lo avete realizzato materialmente?
Mario: Abbiamo preso le chitarre e le abbiamo suonate fortissimo. Non a Milano, ma in una casetta vicino a Parma, creando un ambiente sereno e super silenzioso. Senza distrazioni. Abbiamo chiamato il batterista Daniel Fasano e in quella situazione, partendo da pezzi che erano nati mesi prima, abbiamo deciso di chiuderli tutti in quella settimana e in quella condizione. Create queste premesse, tutto il resto è arrivato in modo molto naturale. Senza porsi obiettivi particolari, se non finalizzare i pezzi al meglio.
Alessandro: Veniamo entrambi dal rock, quindi per noi è stato come un tornare a casa. Una scena che ci piaceva da piccoli, ma che nel tempo avevamo un po’ perso di vista. Infatti è vero che ci rifacciamo agli anni ’90 e 2000, perché da lì vengono i nostri ascolti.
Sempre più spesso mi capita di incontrare musicisti che decidono di tornare all’analogico o di suonare tutti insieme in studio e non più a distanza. Forse gli artisti, come delle cartine al tornasole, interpretano questo malessere verso la tecnologia?
Alessandro: Da fuori potrebbe sembrare una cosa naïf e invece c’è qualcosa di più vero in una progressione armonica con sopra una linea vocale costruita su un pianoforte e una chitarra, rispetto a suoni costruiti a livello digitale. Fino a quando non esisterà una tecnologia che ci permetterà di avere suoni che sono realmente diversi, che un essere umano non ha ancora ascoltato, siamo per il giocarcela con la chitarra, il basso, la batteria e il piano.
Prima dell’uscita dell’EP avete premesso: «Queste canzoni chiedono calma, gentilezza e rispetto, e come tutta la musica, chiedono di essere ascoltate. Fino alla fine». Lo sapete di essere completamente fuori da ogni trend?
Alessandro: Dici che ci stiamo tirando la zappa sui piedi da soli? E hai ragione, ma purtroppo è più forte di noi. Non riusciamo a omologarci a nessun tipo di struttura che non ci permetterebbe di guardarci allo specchio quando torniamo a casa. In un’epoca nella quale c’è in giro tantissima violenza e quindi una quantità incredibile di informazioni sulla violenza, sarebbe bello riappropriarci della nostra sensibilità, che vediamo sempre più anestetizzata. Sarebbe bello tornare alla vicinanza, al parlarsi, all’ascoltarsi, a essere gentili. E a fidarsi, soprattutto.
Di chi ci dovremmo fidare di più?
Alessandro: Sia il pubblico degli artisti che gli artisti del pubblico. Troppo spesso, purtroppo, si scrive musica con l’idea che il pubblico non è in grado di capirla.
Questi sei brani hanno una particolare vocazione live. Cosa avete preparato per il tour, che partirà il 20 dal Teatro della Concordia a Venaria Reale, vicino a Torino?
Mario: Stiamo preparando la scaletta dei live e di certo avremo una nuova formazione. Saremo in quattro, finora siamo sempre stati in tre. Ma questo EP è molto suonato e richiedeva la presenza di un altro chitarrista, Domiziano Luisetti. Per il resto, faremo tutti i pezzi dei nostri album e delle cover differenti rispetto al passato.
Prima di chiudere, c’è per caso una domanda che Alessandro vorrebbe fare a Mario e viceversa?
Alessandro: Oggi che giorno è? Mario, dove pensi che saremo il 6 novembre 2025?
Mario: Forse in uno studio di registrazione, ma con un altro nome.
Mi state dando una notizia in anteprima…
Alessandro: il problema è che la sta dando anche a me…
Mario: Un altro nome come persone, tipo Carlo e Gennaro. Cambieremo i nostri dati anagrafici per sfuggire da tutto.
E Mario ad Alessandro che domanda vorrebbe fare?
Mario: Alessandro, tra un anno sarai in Italia o all’estero?
Alessandro: Pur desiderando di passare un lungo periodo all’estero, credo che il 6 novembre 2025 sarò in Italia. Anche perché, se non fossi qui, significherebbe che è successo un casino.