I segreti di ‘Tall Tales’, il viaggio prog-tronico di Thom Yorke e Mark Pritchard | Rolling Stone Italia
Kid T

I segreti di ‘Tall Tales’, il viaggio prog-tronico di Thom Yorke e Mark Pritchard

È una delle cose migliori fatte dal cantante senza i Radiohead. Il producer racconta com’è nato: la scelta di fare un disco a distanza che è tutto produzione e zero scrittura, le canzoni come rompicapi da risolvere, le scelte assurde e geniali. «Mai sentito Thom cantare così»

I segreti di ‘Tall Tales’, il viaggio prog-tronico di Thom Yorke e Mark Pritchard

Thom Yorke e Mark Pritchard

Foto press

I Radiohead non pubblicano un album dal 2016, ma Thom Yorke non si è certo fermato. Oltre ad avere pubblicato colonne sonore e tre bei dischi con gli Smile, la band con Jonny Greenwood e Tom Skinner, dal 2020 collabora senza grandi clamori col produttore e veterano dell’elettronica Mark Pritchard. Il risultato è un album sublime intitolato Tall Tales che uscirà il 9 maggio per la Warp (il duo ha già pubblicato i singoli Back in the Game e This Conversation Is Missing Your Voice). È accompagnato da un film d’animazione decisamente psichedelico realizzato dall’artista Jonathan Zawada che uscirà nelle sale per un solo giorno.

Dalla spettrale The White Cliffs alla pulsante (ma senza batteria) The Spirit (“I keep the spirit alive”, canta Yorke, in uno dei suoi momenti più ottimistici dai tempi di The Bends) passando per la mattata a 8 bit di Gangsters, Tall Tales ha tutta l’aria d’essere il progetto più compiuto fra tutti quelli in cui Yorke s’è imbarcato fuori dalla band, un viaggio sonoro prog-tronico dal tocco distopico che ricorda i migliori Radiohead. Per assemblarlo Pritchard, inglese trapiantato in Australia, si è scambiato le tracce a distanza con Yorke. Il processo è durato quattro anni e ha permesso al cantante di stratificare e modificare le linee vocali, oltre ad aggiungere parti di synth (i due avevano già  collaborato per il brano del 2016 Beautiful People).

Nella sua prima intervista sul disco, Pritchard spiega come è andata la lavorazione, la natura della loro collaborazione, la possibilità di fare dei concerti e altro ancora.

Voi due avreste dovuto fare un album già molto tempo fa. So che avevate già pubblicato Beautiful People, che è un gran pezzo. Come vi siete incrociati, la prima volta?
Mi è stato chiesto di fare dei remix, ma in quel frangente non c’è stato alcun contatto tra di noi, è stato tutto gestito dall’etichetta. Poi i Radiohead sono venuti a suonare a Sydney (era il 2012, nda). Il mio amico Clive Deamer era il loro secondo batterista. Avevano un sabato off, cosa che penso sia piuttosto rara per i Radiohead, e Clive ha detto sarebbero venuti dove suonavo quella sera con Steve Spacek a un festival. La sera dopo siamo andati a cena tutti insieme. È così che ho conosciuto Thom, abbiamo chiacchierato un paio d’ore, abbiamo visto gli show della seconda serata del festival, siamo stati nel backstage. Gli ho cheisto se gli andava di fare qualcosa, prima o poi. «E se ti mandassi della musica?». E lui: «Sì, sì, mandami quel che vuoi, ci sto». Così ho iniziato a spedirgli delle cose e una è diventata il singolo Beautiful People dal mio album Under the Sun. Ha provato a lavorare su tre o quattro tracce, ma era molto preso. Siamo rimasti in contatto via e-mail. Di tanto in tanto, ci si scriveva.

Mark Pritchard & Thom Yorke | Beautiful People [Lyric Video]

Qual è stato il percorso che ha portato a questo album? Com’è iniziato tutto quanto?
Mi pare fosse il 2019 e stavo ragionando sul mio prossimo disco. All’epoca pensavo di farlo di nuovo con vari vocalist. Poi sono arrivai  il 2020 e la pandemia. Dopo pochi mesi dall’inizio della pandemia, Thom mi ha mandato un’e-mail: «Spero tu stia bene, è tutto un po’ assurdo e sono chiuso in casa. Se hai della musica, mandamela, perché sono bloccato qui, non posso uscire». Ci ho ragionato per un paio di giorni. Per scrivere cose nuove ci voleva del tempo, così ho pensato di mandargli un po’ di idee random, qualche canzone completa, qualche abbozzo dove magari c’era solo una batteria con un paio di suoni sopra, e qualche pezzo ambient. Nella cartella che gli ho spedito c’erano una ventina di spunti.

Poi ho scoperto che stava lavorando al primo disco degli Smile, era immerso nella fase di scrittura delle parti vocali del loro album. Mi ha risposto quella sera stessa: «Posso fare questa?». Era il pezzo che poi è diventato Happy Days. Qualche giorno dopo, mi pare, mi ha mandato un’e-mail dicendo: «Posso fare solo queste 14?». E io: «A me va bene tutto, prova e basta». Nei mesi seguenti di tanto in tanto mi mandava un’e-mail per aggiornarmi: «Non dimenticarti di me». A quel punto bisognava mettere un po’ di ordine nel materiale. Verso agosto o settembre, mi ha scritto che mi avrebbe inviato i primi demo. Per una settimana me ne ha spediti due o tre al giorno. Ero in ansia: non avevo idea di cosa avrei sentito.

Il primo giorno ne ha mandati tre: erano Men Who Dance in Stags’ Heads, Fake in a Faker’s World e, forse, This Conversation Is Missing Your Voice. Erano molto forti e non l’avevo mai sentito cantare come in Stags’ Heads, in quel registro. Erano demo fantastici. Ha continuato a spedirmene un paio al giorno. C’erano anche frammenti di testo, ma gli interessavano soprattutto la melodia e il timbro. Certe canzoni dovevano essere rallentate o semplificate. Provava a cantarle in modi diversi e, se le cose non funzionavano, mi rimandava il pezzo e io provavo a farci su qualcosa. Per molto tempo ci siamo concentrati su questi aspetti.

I demo di Thom sono poi finiti nell’album?
Alcuni di quei 14 brani sono stati accantonati. Dopo quei 14 gli ho mandato Stags’ Heads, che avevo fatto più di recente, e White Cliffs, che risaliva a molto tempo prima. In realtà gliel’avevo già mandata insieme a Beautiful People, ma non avevo ricevuto risposta, o non gli piaceva o non aveva ricevuto l’e-mail. Un amico mi ha detto che era fortissima e che dovevo insistere, così l’ho rispedita a Thom che l’ha trovata fantastica. «Voglio assolutamente farla».

Immagino che sia molto diverso comporre per cantanti che poi devono scrivere i testi rispetto a quando crei degli strumentali.
Sì, però la cosa strana di questo album è che tutto ciò che gli ho mandato era già stato scritto, e in periodi diversi. Wondering Genie aveva forse addirittura nove anni. Sai, scrivo di continuo, le cose rimangono lì e poi cerco di utilizzarle. È stato un processo strano, perché dal momento in cui abbiamo iniziato non c’è stata scrittura, solo produzione. La sfida era quella di fare funzionare quel materiale ed è stato entusiasmante. Avevo già fatto molti brani con vocalist, mai un album intero. Cercavamo di spronarci a vicenda: lui tentava di fare qualcosa di diverso e io di spingere le canzoni verso nuovi territori. È stata un’impresa impegnativa, forse tre anni di lavoro.

Torniamo un attimo indietro nel tempo, a quando è uscito Kid A e i Radiohead erano una rock band gigantesca che attingeva ai suoni che gente come te stava creando. Nel mondo dell’elettronica c’era chi amava quel disco, ma anche chi lo guardava con un certo sospetto. Qual è stata la tua reazione iniziale di fronte a quel cambiamento nel sound dei Radiohead?
Mi è piaciuto molto. E poi si sentiva già un po’ in OK Computer, non l’ho trovato così sorprendente, ne avevo già colto alcuni aspetti. Forse avevo già sentito Idioteque in anteprima e mi aveva sorpreso piacevolmente. È una canzone molto elettronica, con la drum machine, e il suono dei pad e l’hook sono straordinari. Da giovane ero un fan della musica indie ed elettronica, quindi non è stato uno shock per me. Per me, la loro è stata un’ottima mossa. Ho apprezzato i loro dischi ogni volta che hanno cambiato direzione, secondo me è questo che li rende interessanti. C’era chi avrebbe voluto cose più chitarristiche e in seguito le hanno fatte. Bisogna lasciare che facciano quel che vogliono.

Però alcuni fan delle prime cose della Warp non l’hanno presa benissimo.
Posso immaginarlo, sì. E scommetto che sono stati più i fan che gli artisti. Nessuno degli artisti elettronici che conosco ha mai detto che si sono appropriati di quello che facevamo. Credo anzi che siano contenti del fatto che i Radiohead si siano ispirati alla loro musica. Un’altra cosa che Thom mi ha detto, e che mi è sembrata molto interessante, è che quando era all’università a Exeter, che non è molto distante da dove sono cresciuto io, nell’Inghilterra occidentale, faceva il dj nel campus e suonava le prime cose della Warp. Mi ha parlato di Nightmares on Wax, della prima ondata della Warp, che faceva una specie di techno sferragliante e coi bassi fortissimi. Era un fan delle cose Warp di quel periodo.

La gente pensa che si sia avvicinato a quella roba molto più tardi, subito prima di Kid A.
Sapevo che era un fan degli Autechre e di Aphex Twin. Poi è uscita la storia per cui prima di Kid A i Radiohead si sarebbero fatti mandare dalla Warp tutto il catalogo. Sarà anche andata così, ma lui era già un fan.

So che tu e Thom avete fatto parecchie cose interessanti lavorando sulle tracce vocali. Parlamene un po’.
Lui ha cercato di trovare un modo per far sì che la voce si adattasse a quello che avevo scritto. Ma anche a lui piace sperimentare, quindi ha fatto passare le voci attraverso il suo sistema modulare. Ogni volta che ci parlo su Zoom, dietro di lui vedo un enorme muro di roba modulare tipo Eurorack. Penso si sia divertito, credo volesse trovare un’atmosfera diversa per il disco, non voleva fosse come gli Smile o altre cose che ha fatto. Io poi, ovviamente, volevo che ci fosse un contrasto, quindi alcune dovevano essere manipolate, altre semplicemente con la sua voce. In Bugging Out mi pare di aver fatto passare la sua voce attraverso il Leslie, ho sempre desiderato provarci e quella canzone mi sembrava peretta per farlo. Così l’ho mandata nel Regno Unito a un mio amico che ha diverse casse Leslie e abbiamo registrato la voce così. È una cosa abbastanza difficile, perché si genera un sacco di distorsione random, ma è anche il suo bello.

Ho individuato alcuni brani in cui sarebbe stato divertente giocare, tipo Back in the Game. Thom aveva registrato una voce piuttosto pulita e funzionava come canzone, però poi mi ha chiesto di darci dentro con gli effetti, «prendi quel che ho fatto e incasinalo». Mi ha incoraggiato a mettere le mani su alcuni pezzi, su altri l’ha fatto lui stesso, altri ancora ha voluto lasciarli puliti. Non volevo che il disco fosse pieno di voci alterate solo perché fa molto musica elettronica, ma è riuscito a fare le cose in modo diverso e di sicuro si è divertito. Immagina come deve essere cantare per tutto quel tempo. Deve provare nuovi modi per trovare la spinta a usare la sua voce e scrivere canzoni in modi diversi. Mi ha detto che per questo progetto ha scritto in modo differente dal solito. Normalmente non pubblica i suoi testi, io glieli ho chiesi per me e per Jonathan, che stava facendo i video. E invece Thom mi ha mandato un’e-mail dicendo che voleva farli leggere a tutti e metterli nell’album.

Mark Pritchard & Thom Yorke - Back in the Game (Official Video)

Mi dici di una canzone che avete modificato scambiandovela più volte?
The Spirit è stata una delle più difficili. L’ho scritta io, era più veloce e c’era la batteria. Lui ha provato a cantarla e ha tolto la batteria. Ci avevo messo una drum machine vecchio stile, impostata su una specie di preset latin, ma era invadente. Ha piazzato una linea guida di batteria provvisoria per cantarci sopra, tipo cassa e rullante. Non riuscivo a metterci nulla, ho provato un paio di cose e poi ho deciso: niente batteria. Dovevo ancora trovare il modo per far funzionare la canzone, così ho chiesto a un amico bassista di suonarci su una parte semplice, perché il basso può essere anche percussivo ed è un buon punto di partenza. A quel punto ho inserito delle percussioni. Ho anche una batteria vera, quindi ho solo dato un colpo di charleston di tanto in tanto, poi ho messo un rullante elettronico e alcuni charleston elettronici. Ho continuato ad aggiungere roba e a vedere se funzionano. Il pezzo aveva qualcosa di speciale, dovevo lasciare spazio alla performance vocale, tutto è incentrato sull’interpretazione di Thom. Lui però non era ancora soddisfatto della voce, così ha cambiato il punto di vista del testo e alla fine ha trovato il giusto equilibrio.

Di sicuro è una delle canzoni più allegre e piene di speranza dell’album, sia come testo che come musica.
Non sono abituato a scrivere in tonalità maggiore, è troppo banale. Di solito ci orientiamo su accordi minori più tristi o cose più strane, ma penso che, di tanto in tanto, si debba fare qualcosa di diverso. L’idea era che lui cantasse in tonalità minore su una maggiore, rendendo tutto più triste. Ma quando mi ha mandato il demo, ho sentito che aveva seguito gli accordi. Mi ha spedito un brano di Janet Kay intitolato Silly Games, che è stato in classifica nel Regno Unito ed è passato persino a Top of the Pops. È un pezzo reggae con una voce bellissima. «La nostra canzone non ha nulla a che vedere con questo reggae, ma c’è un feeling speciale in quel pezzo e in molta altra musica di quell’epoca. È un sentimento di speranza e di ottimismo: dobbiamo restituire quella sensazione».

A Fake in a Faker’s World apre il disco in modo forte e inquietante. Ti ricordi come si è evoluta la canzone?
Per questa Thom ha preso la batteria e il basso da un pezzo che gli avevo mandato; ha eliminato i pad che avevo messo e poi ha preso gli archi di un altro brano che gli avevo fatto avere. Ha anche aggiunto la sezione modulare di suoni che arriva dopo la prima parte cantata e va avanti per un po’, prima che rientri la batteria. Ha inserito la batteria e ci piazzato degli effetti. In alcune canzoni ha aggiunto sintetizzatori, suoni e pad extra: è stato molto bello perché non si riduceva tutto a me che gli mandavo una canzone e lui ci cantava sopra. Credo che si diverta a fare queste cose tanto quanto a cantare, anzi forse a volte si diverte più così che a cantare. Thom ha aggiunto un bel po’ di cose. In Gangsters c’è un riff di synth percussivo pazzesco, ce l’ha messo lui. Gli piace divertirsi coi sintetizzatori e tutto quello che ha per le mani.

The Men Who Dance in Stags’ Heads ha un suono molto naturale. Sembra quasi una canzone dei Velvet Underground o qualcosa del genere.
Mi piace un sacco Ivor Cutler, il poeta scozzese che suonava l’armonium. Nello studio con cui lavoro, nel Regno Unito, ci sono un sacco di sintetizzatori e organi degli anni ’50 e ’60. Ho mandato a un amico alcune parti e chiedendogli di riprodurle con dei sintetizzatori vintage. Aveva anche un paio di armonium, perché anche lui è un fan di Cutler, allora gli ho chiesto di campionare ogni nota dell’armonium. Le ha registrate sia con microfoni direzionali che ambientali, ma l’idea era poi di fargli suonare le parti. Alla fine, però, il risultato era così buono che ho tenuto i suoni campionati che mi aveva fatto e non ho avuto bisogno di fargli reincidere tutto. Quindi, in realtà, quello sarebbe stato un pezzo folk, ma poi ci ho messo l’armonium con un po’ di distorsione che l’ha reso più psichedelico. Poi ho inserito la batteria, una specie di timpano medievale che fa la parte semplice della grancassa; infine ho usato un tamburello che avevo trovato in una specie di negozio dell’usato e che dà un’impronta decisamente alla Velvet Underground. In un certo senso è la versione folk della loro musica. Per bilanciare il pezzo ho inserito la parte di fagotto.

Non avevo idea di cosa Thom avrebbe fatto in quella canzone. Ha scelto una specie di cantato a voce bassa stile Bob Dylan, non lo avevo mai sentito fare una cosa del genere. Mi ha detto che era una cosa che aveva sempre voluto fare, ma non era mai riuscita. Agendo sulla velocità di riproduzione dell’audio è riuscito a entrare un po’ di più nel ruolo e a cantare in quel registro. L’ha fatto in quella canzone e in White Cliffs. È stato uno dei primi demo che mi ha mandato. La voce non era ancora definitiva. «Ci sono quasi», mi ha scritto. «Devo solo trovare il modo di farla un po’ più mia: voglio fare quella cosa alla Bob Dylan e Lou Reed, ma naturalmente a modo mio». Mi piace molto. È una delle mie canzoni preferite dell’album.

C’è qualcosa di ancora più strano in canzoni come Happy Days, con tutte quelle voci acute.
Thom ha fatto delle parti vocali pazzesche. Quando me le ha mandate ho pensato che era una follia. Ci abbiamo trafficato fino al momento del mastering. A me piaceva il fatto che c’era la voce per tutto il tempo, poi è una canzone pazzesca e mi sembrava che la voce dovesse martellare di continuo. A lui, invece, pareva di avere cantato troppo, quindi ci siamo rimpallati il brano per molto tempo. È stato molto difficile farlo funzionare. Nelle parti introduttive sembra di sentire un’annunciatrice inglese degli anni ’60, tutta composta. Nel mezzo diventa quasi punk. E poi canta delle parti bellissime. Per fare roba del genere devi avere una tale fiducia in te stesso da lanciarti a fare cose che sembrano ridicole. Non devi avere paura che sembri un’assurdità. È divisiva. La si ama o la si odia, ma è una delle mie preferite perché ti sorprende.

In Tall Tales il parlato ricorda la sintesi vocale dei vecchi Macintosh, come in Fitter Happier.
Lui l’aveva già fatto, vero? A me è capitato spesso di farlo e nell’EP che ho pubblicato nel 2020 ho utilizzato questa tecnica. Non se la sentiva di fare da solo le parti parlate, così ho pensato: «Dovremmo far fare queste voci a delle persone invece di usare la voce di un computer?». A un certo punto ho anche provato a ingaggiare dei doppiatori per incidere le voci e poi appiattirle per renderle meno umane. In quel periodo l’intelligenza artificiale si stava diffondendo e le persone la usavano per clonare le voci: ci ho pensato, ma era una tecnologia ancora agli albori. Ho impiegato un sacco di tempo cercando di far funzionare quelle voci stile Mac. Credo che alla base della canzone ci sia un’idea che, per me, è la rappresentazione sonora di ciò che era Internet nel 2020. Penso che Thom volesse creare una cascata di voci e rumori, quasi una specie di versione audio del Twitter in preda al caos di quel periodo. Perché stavano accadendo tante cose terribili: il Regno Unito stava affrontando la Brexit, Trump era alla fine del primo mandato. A me sembravano tutte chiacchiere, solo rumore e voci che si sovrapponevano l’una all’altra.

Eravamo molto riluttanti a definire questo lavoro un disco figlio del lockdown, perché la musica è stata tutta composta prima. Ma, ovviamente, Thom ha scritto i testi e le canzoni nel corso del 2020 e si possono sentire dei riferimenti. Nel film Jonathan ha affrontato questi argomenti in vari modi, così da trasmettere quella sensazione, ma il disco non parla solo di quel periodo. Ad esempio, Stag’s Head è ispirata a un libro intitolato The Gallows Pole di Benjamin Myers, che parla di contraffattori di monete. L’album toccavari temi, anche politici, e abbraccia diversi periodi.

La traccia finale senza testo, Wandering Genie, è un vero viaggio.
Thom ha provato a cantarci sopra, ma poi ha capito che non avrebbe funzionato. Così ha stratificato la voce, facendo da contraltare ai riff. C’era una enorme quantità di linee vocali: 40 strati di voce e di effetti modulari. E poi ha fatto armonizzazioni a tre, quattro parti con la voce invece che col pianoforte e gli archi. Durante le discussioni preliminari, abbiamo parlato degli ambiti vocali in cui sperimentare e gli ho mandato delle cose degli Hi-Los e dei Four Freshmen da sentire. Per me nei pezzi c’è un po’ di quell’atmosfera e mi piace, adoro quel tipo di cantato.

This Conversation Is Missing Your Voice potrebbe avere una seconda vita come pezzo rock, ci sento quell’atmosfera lì.
Anche se sono accordi fatti coi synth, ha un’atmosfera leggermente indie. E non ci sono le chitarre. Ho anche pensato di inserirne, ma Thom era contrario. Immagino abbia pensato: «Faccio già un sacco di cose con le chitarre, qui non ce n’è bisogno».

Mark Pritchard & Thom Yorke - This Conversation is Missing Your Voice (Official Video)

Vi siete incontrati di persona in qualche fase della lavorazione?
No. Ci siamo scambiati delle e-mail, ma ho capito quasi subito che così era troppo difficile, non ci si capiva. A un certo punto lui ha fatto una cosa che mi è piaciuta molto. Gli ho scritto qualcosa tipo «Fantastico, ben fatto», ma per quale motivo l’ha interpretato come un «non mi è piaciuto». A quel punto abbiamo cominciato a comunicare via Zoom, per capirci meglio. Non abbiamo perso tempo. Capitava di litigare, avevamo opinioni diverse. A volte lui ha insistito su qualcosa e magari aveva ragione, ma altre volte avevo ragione io. Ma tutto è sempre stato all’insegna del «come possiamo far funzionare questa cosa per il bene del progetto?». È un tipo schietto e ci siamo subito fidati l’uno dell’altro. Niente giochetti, niente manipolazione: solo un dialogo onesto e diretto. Sarebbe stato bello trovarci nella stessa stanza, ma non si poteva fare diversamente. Per due anni non mi è stato possibile uscire dall’Australia. Alla fine è andata bene così. Lui poteva fare le sue cose, io le mie. L’unico inconveniente era che lui era chiuso in casa e non poteva andare in studio. Ma, a parte questo, è andata bene.

Avete mai pensato, e non so come potrebbe funzionare, di esibirvi dal vivo?
Quando Thom, di recente, è stato in tour da solista, aveva intenzione di fare Beautiful People, ma non credo abbia avuto tempo per lavorarci su. Però ha trovato il modo di fare un tour tutto da solo, cosa che mi ha detto che stava cercando di fare da un pezzo. Ha trovato il sistema per aggiungere delle canzoni in scaletta nel corso del tour, per divertirsi con vari strumenti e fare in stili diversi molti dei pezzi che ha inciso nel corso degli anni. Quando è venuto a Sydney, mi ha chiesto se volevo andare a fare qualcosa. Sono arrivato per il soundcheck e abbiamo provato un po’. Ero piuttosto nervoso perché non sono abituato a stare sul palco e ad avere di fronte così tante persone, non mi piace stare davanti alla gente. All’inizio pensava che non si potesse fare dal vivo, «troppo complicato». Poi però mi ha detto: «Potremmo fare delle cose dal vivo come i Depeche Mode, con una base su nastro, una bobina dietro di noi, e premendo il tasto play». Io ero un po’ preoccupato, perché non avevo mai suonato dal vivo e neppure avevo mai avuto molta voglia di farlo. Quindi una parte di me era elettrizzata e un’altra parte era pietrificata all’idea di salire sul palco e andare in tour. Dopo averlo visto in concerto ho pensato che era un modo interessante di fare le cose.

Dell’idea di andare in tour mi scoraggiava il fatto che la roba elettronica è difficile da proporre dal vivo, né voglio starmene lì a premere un bottone. Ma quando ho visto come faceva lui e la varietà di cose riusciva fare dal vivo, gli ho detto: «Se ti va di fare qualcosa, io ci sono». Credo che alla fine girerà in tour per tutto il mondo. È stato impressionante quel che ha fatto: lui, da solo, per due ore. Alcune canzoni erano acustiche, altre suonate al pianoforte, altre ancora con un synth. A volte c’era solo un sequencer. Ma era tutto dal vivo, non usava nessun computer. Così aumentano le probabilità che qualcosa vada storto, il che è piuttosto eccitante.

Realisticamente, credo che Thom sia pieno di impegni. Lui è una delle persone più indaffarate che abbia conosciuto. È tremendamente produttivo e impegnato, mai conosciuto nessuno come lui. Io lavoravo a questo disco e nel frattempo lui ne faceva due con gli Smile. Insomma, sarei sorpreso se succedesse quest’anno, ma non ne ho idea. Dipende dai suoi impegni. O forse lui farà una cosa da solista e suoneremo alcune canzoni insieme, o magari sarà una combinazione delle due cose. Magari a un certo punto succederà.

Sono curioso di sapere come questa esperienza ti ha fatto cambiare idea sulle tue possibilità creative o sul tuo modo di lavorare.
Non capita spesso che elimini grosse porzioni dei brani, ma è necessario quando hai a che fare con pezzi cantati. Devi trovare un modo per far funzionare tutto e capita di dover cambiare le cose. A volte è stato un po’ uno shock, perché gli mandavo qualcosa e lui, magari, eliminava tutta la parte di basso. Per esempio, White Cliffs aveva una linea di basso completamente diversa che costituiva una grossa porzione del pezzo e lui l’ha tolta. Gli ho chiesto: «Che diavolo ne hai fatto della mia linea di basso?». E lui: «Ho dovuto togliere il basso per riuscire a cantare, per essere più libero e per trovare l’hook». Aveva senso. Io dovevo trovare un modo diverso di inserire il basso, che non cozzasse con quello che faceva lui. Perché poi si è capito che la canzone funzionava proprio perché era molto minimale.

Ho appena iniziato a pensare a ciò che farò in futuro. Ho scritto un po’ di roba da club. L’anno scorso ho cominciato a lavorare a quello che sarà un nuovo album, ma è tutto allo stadio embrionale. Sono arrivato al punto in cui scrivo per vedere cosa esce, dove va a finire, per poi pensare a chi potrebbe cantarci su. Thom è molto versatile e si è cimentato in un sacco di stili differenti, impressionante. Sono certo che ci sono altre persone là fuori che possono fare questo tipo di cose, ma lui ha molto, molto talento. Comunque il prossimo disco sarà totalmente diverso da questo.

Volevo chiederti qualcosa a proposito del suono a 8 bit di Gangsters. So che hai usato un sintetizzatore Atari 2600: è quello che c’è nel pezzo?
Credo che Thom sia rimasto scioccato quando gli ho fatto vedere cosa c’era davvero nel brano. Si tratta di un synth giocattolo Mattel Bee Gees, se vuoi vai a dare un’occhiata.

Ce l’avevo da piccolo e so perfettamente di cosa stai parlando.
Forse ha un’ottava di estensione e tre preset di basso. I Kraftwerk l’hanno usato per fare Pocket Calculator, mi pare, forse dal vivo. Ci hanno messo sopra un po’ di carta stagnola per farlo sembrare più figo. Sono abbastanza certo che l’abbiano usato per fare i beep in Pocket Calculator o una di quelle canzoni. Sapevo che l’avevano utilizzato e che anni fa ne stavano cercando uno. Io in realtà non ho usato i beep, ma un preset di basso. Un’unica nota. L’ho poi modificata con Melodyne, alzando e abbassando la tonalità. E ne è uscita quella cosa lo-fi a 8 bit.

Mark Pritchard & Thom Yorke - Tall Tales (Visual Experience) [Official Trailer]

Una cosa che hai in comune con Thom e i Radiohead è il senso di spazio fisico che la musica evoca. In questo album lo sento davvero: ogni pezzo è come un mondo che crei, e sono curioso di sapere se e fino a che punto pensi in questi termini.
Mi piace il suono dei vecchi dischi ed è quello che ho cercato di ottenere negli ultimi lavori. Mi piacciono molto gli album degli anni ’50 e ’60, ma non voglio neppure fare qualcosa che suoni semplicemente rétro. Per cui l’obiettivo che mi prefiggo è: come posso usare i suoni che mi piacciono e mixarli in modo da evocare l’atmosfera di quei vecchi dischi? Non ho usato compressione. Non ho posto limiti alla musica e ho lasciato le dinamiche naturali. Ho mixato tutto con un vecchio banco manuale. Ho usato un po’ di attrezzatura nuova e un po’ di roba vecchia. Quella era la mia vera missione. Poi Thom, aggiungendo le sue cose, ha cambiato ancora le carte in tavola. E Jonathan, con quello che ha fatto, ha riequilibrato nuovamente tutto: con l’elemento visivo è riuscito a portare la musica in un’altra direzione.

La versione originale di Back in the Game, per me, sembra una colonna sonora di John Carpenter. Ci ho messo la batteria ed è diventata un po’ più new wave. Thom ha fatto una strofa molto accattivante e io ho incasinato le strofe e le ho fatte diventare un po’ più folli, aggiungendo gli effetti. Poi arriva la sezione strumentale e, nell’ultimo ritornello, si entra di nuovo in una zona completamente diversa, in cui lui canta in registro basso. Per fare la batteria ho usato un organo anni ’60. E Jonathan ha realizzato un video pazzesco in CGI, totalmente spiazzante: non è affatto rétro. Di alcune canzoni non ero sicuro. Di quella non lo sono stato finché Jonathan non ha fatto il video e la stessa cosa è successa per Gangsters: quando ha fatto il video, finalmente sono riuscito a coglierne il senso. È successo spesso. Credo che anche i Radiohead facciano così. Cercano di fare la stessa cosa, ma a modo loro.

Thom parla dei Radiohead come se fossero ancora in attività? L’ho chiesto agli altri membri e non ne sembrano molto sicuri.
Non ne parla di certo con me, perché credo che debbano tenere tutto segreto. Ma si sono visti l’anno scorso, hanno fatto delle prove insieme e se avessero litigato o altro, non sarebbe successo. Posso solo cercare di indovinare cosa pensano, tutti stanno facendo le loro cose e si divertono. Molti fan vorrebbero un altro disco dei Radiohead, ma sai, credo che arriverà solo se sarà la cosa giusta da fare nel momento giusto. Credo che sia anche una questione di tempismo legato a vari fattori. E gli Smile sono un bel gruppo. Nell’ultimo album c’erano delle canzoni micidiali. È forte come qualsiasi altra cosa abbiano fatto in passato.

È quel che penso anche del vostro album.
Grazie! Voglio solo che esca, voglio che la gente finalmente lo senta.

Da Rolling Stone US.

Altre notizie su:  Mark Pritchard Radiohead Thom Yorke