E così va a finire che Benvenuti, il nuovo disco dei Selton, diventa una sorta di album politico già dal titolo. Un po’ per il momento, un po’ per le intenzioni del gruppo. «Il concept è nato prima della pandemia, quando il tema era Salvini e i suoi porti chiusi. E ovviamente sì, ci siamo chiesti se dopo il lockdown avesse ancora senso. Risposta: affermativa». Che succede? «Stiamo diventando più egoisti. Il lockdown ci ha isolati in noi stessi, sugli schermi dei nostri telefonini. È una truffa: siamo un’unica grande comunità, speriamo di riscoprirlo presto». Insomma, non potevano uscire in un momento migliore, o peggiore. Punti di vista.
Certo è che la band di Daniel Plentz, Eduardo Stein Dechtiar e Ramiro Levy è un cortocircuito totale ai tempi che corrono anche a livello di filosofia. Sono brasiliani ma da anni vivono a Milano, mischiano origini e riferimenti raccolti in tutto il mondo, fanno dei viaggi e della contaminazione un credo (nell’album registrato fra la madrepatria e qui ci sono duetti, tra gli altri, con Willie Peyote e Margherita Vicario) e – per quanto il loro genere sia definito folk rock brasiliano – ci portano dalle parti di un ibrido fra it-pop e bossanova. Tanto più che Benvenuti, che arriva a quattro anni dal precedente Manifesto tropicale, sotto una faccia solare, da Mika carioca, nasconde una certa malinconia. Amori dismessi, ansie per il futuro, nostalgia, disillusione per le sorti del mondo. E poi è il primo lavoro in cui cantano interamente in italiano.
Anche qui, questione di contaminazione?
Daniel Plentz: Questione di mettersi in gioco. Credo faccia parte del processo naturale della mutazione dell’identità. Parliamo portoghese fra di noi, il mondo intorno a noi è italiano. E, dopo dieci anni che siamo qui, ormai ci è entrato dentro. Certo a livello artistico abbiamo messo in discussione la nostra identità: di solito scriviamo i pezzi fra di noi, con Tommaso Colliva in cabina di regia; stavolta invece abbiamo chiamato anche altri musicisti e produttori. Ci siamo detti: anziché parlare di contaminazione, contaminiamoci davvero.
E com’è andata?
Daniel: Non è stato per niente facile (ride). Ci siamo mossi su quella riga sottile fra il “diminuire” la nostra identità e l’accrescerla. Alla fine è un disco sperimentale.
Ramiro Levy: Del resto la nostra musica è sempre ricerca. Tanto più stavolta, che non volevamo diventare la caricatura di noi stessi, ma provare un salto in avanti. Parlavamo di contaminazione ma poi eravamo chiusi in una bolla. Siamo da sempre un mash-up, eh.
Daniel: Considera che Ramiro ha anche origini egiziane, mentre Eduardo polacche…
Ramiro: E abbiamo iniziato a suonare a Barcellona, figurati. Però sentivamo che stavamo facendo sempre la stessa cosa. Ci stavamo chiudendo.
E invece?
Daniel: Con un disco come questo sono venute fuori maggiormente le identità di ciascuno di noi. In un certo senso, è un album frutto del compromesso. Ma non in senso negativo. Dove c’è compromesso, c’è vita. C’è incontro, c’è progresso.
Ma che mondo vedete intorno a voi? Tutt’altro che aperto al compromesso, direi.
Daniel: A livello politico siamo speranzosi, perché l’ondata di estrema destra sembra stia passando. Chiariamo: il “benvenuto” del disco è un invito metaforico, se Bolsonaro ci bussasse oggi per un caffè… anche no. A livello sociale la situazione è più difficile, quasi à la Black Mirror.
Eduardo Stein Dechtiar: Se il telefono fosse spento, uno neanche verrebbe a sapere che è uscito il disco. Tra l’altro, benvenuto è un termine elastico: ha persino più senso ora, che c’è la pandemia, di quando è stato concepito, cioè coi porti chiusi. E quindi comunque sì, ha un valore politico.
Ramiro: Pure perché non vediamo l’ora di riaprire le porte, tutti. A livello politico, cadono maschere. La gente, quella che ha votato Bolsonaro, si rende conto dei disastri della sua gestione.
Voi la sua elezione, a livello simbolico, come l’avevate vissuta?
Daniel: Male, perché non è che avesse vinto lui ma la non-sinistra. Dopo gli anni di Lula si era creata una paura del comunismo che ha portato la gente a votarlo. Ma Bolsonaro ha sempre detto di appoggiare la dittatura militare, di essere omofobo…
Ramiro: Voleva armare la popolazione, una cosa palesemente fascista. Infatti con lui il Paese si è spaccato, come si è spaccato il nostro gruppo di amici. È normale, con idee così. Ora stanno aprendo un’inchiesta sulla gestione della pandemia, forse ci si sta rendendo conto dei disastri che ha fatto anche ai piani alti. Menomale.
Daniel: Aggiungo una cosa: per vincere, ha fatto leva sulla cicatrice dello schiavismo. Perché in Brasile, per via di questo passato, c’è necessità di differenziarsi. Lo dicono i sociologi: la classe media cerca di tenere distante quella disagiata. La ghettizza, la tratta in maniera classista. Si dice: perché dovrei viaggiare in aereo accanto alla mia donna delle pulizie? Ecco, lui rappresenta il finto mito della meritocrazia.
Quella corrente di pensiero per cui se sei povero è colpa tua.
Daniel: Esatto. Quello però è il punto di vista del privilegiato. A cui conviene pensarla così.
Ma in un mondo del genere, un gruppo coi valori dei Selton che posto ha?
Daniel: Mi auguro il più grande possibile. E non lo dico per me, ma a livello sociale. Non dobbiamo cadere nella trappola dell’estremo neoliberismo, del capitalismo, della finta democrazia.
Dall’altra parte, comunque, ci sono anche gli “sciacalli del bene”. Quelli che “trasformano la solidarietà in mi piace”, come cantante nella title track.
Daniel: Il bene si può fare anche per puro tornaconto personale, sì.
Questo è un disco di duetti. Mi raccontate quello con Margherita Vicario in Karma sutra?
Ramiro: Il pezzo è un dialogo fra un ragazzo e una ragazza, in cui lui fa lo stronzo e dice “il problema sono io”.
Daniel: Tra l’altro ispirato a una storia vera: la tua (ride).
Ramiro: Lo ammetto (ride). Con lei stima reciproca: ci serviva una voce che interpretasse la ragazza, che ne scrivesse la risposta, altrimenti suonava solo come la mia versione dei fatti. Ci interessava – perché so benissimo che il mio personaggio recita la parte dello stronzo – che lei mi distruggesse.
Eduardo: Tra l’altro è un’attrice bravissima: si è calata nella parte.
Daniel: All’inizio ci andava giù leggera, poi le abbiamo detto di andarci pesante. Ne è venuto fuori un brano ironico, che è la caratteristica che accomuna entrambi.
Però la sua ironia mi sembra più cinica, mentre la vostra malinconica. È un’ironia brasiliana?
Ramiro: Mmm… Più ne parliamo, e più ci accorgiamo che l’ironia è una cosa solo nostra, che non riguarda il nostro Paese. Siamo cresciuti con quella inglese, dei Monty Python e dei Beatles. Siamo un incrocio anche in questo in effetti (ride).
A proposito: Benvenuti è il vostro disco più italiano?
Daniel: Sai che non lo so? Sicuramente era il disco con cui volevamo uscire dagli stereotipi della musica brasiliana. Abbiamo cercato i suoni del Brasile contemporaneo, e mi rendo conto però che per chi non è brasiliano questo è un concetto che non arriva.
Eduardo: Questione di stereotipi e tradizione: si fatica ad andare oltre a ciò a cui siamo abituati a pensare.
Identità e tradizione sono termini a cui ci attacchiamo per non vedere il cambiamento.
Eduardo: Attaccarsi alle tradizioni è parte dell’essere umano, da sempre.
Daniel: Perché è spaventoso rendersi conto che non sei una cosa sola, ma tante in continua evoluzione. Questo è un disco che invita ad abbassare un po’ la guardia verso la paura di perdere la propria identità. Per fare il citazionista: per Nietzsche la tradizione è il tentativo disperato dell’uomo di fermare il tempo. Per me, è hangover da globalizzazione. Che porta contaminazione culturale, è vero, ma con un processo che va dai Paesi ricchi verso quelli poveri, e basta. Questo fa sì che tutto questo viaggiare, tutte queste connessioni, finiscano col rendere i posti uguali, omologati.
E non è bello neanche questo.
Daniel: Il conservatorismo fa leva su queste paure. L’importante è che il mondo resti vario, non monopolizzato. Finché c’è varietà di modo di vivere, va bene. Il punto è il rispetto reciproco.
Ramiro: La globalizzazione è una cosa, la contaminazione culturale un’altra. La prima è pura colonizzazione.
A proposito di cultura: in Pasolini ripetete il suo cognome allo sfinimento, in un ritornello di un pezzo che definite “senza contenuto”.
Daniel: L’idea nasce da un nostro amico che diceva di essere venuto in Italia per scoprire Pasolini: e be’, rimorchiava così.
Eduardo: Per noi era inspiegabile (ride). Per non parlare di quelli che conosciamo che tengono un suo libro sul comodino per fare colpo. A noi serviva un ritornello, così abbiamo scelto di citarlo senza motivo. Perché in Italia lo associ immediatamente alla cultura. Ti dà un tono anche se non dici niente.
Siamo una generazione di poseur.
Eduardo: E, anche qui, volevamo riderci un po’ su.
Prossima estate: tour?
Daniel: Pare di sì, ci dicono dalla regia. Seduti, distanziati, con le mascherine, all’aperto. Va bene così. Vogliamo suonare. L’anno scorso l’abbiamo fatto a Roma, col pubblico ridotto e seduto, e abbiamo notato un altro tipo di attenzione, al di là della festa pura.
Ne è valsa la pena.
Ramiro: A primo impatto la nostra musica sembra la più felice e solare al mondo. Quando ti siedi ad ascoltarci, invece, vai più in profondità e scopri che c’è altro.
Daniel: C’è uno stereotipo che ci riguarda: se vai al concerto dei Selton, ti diverti. Vero, ma non è solo così. Non siamo il Valium della gente. Ci piace affrontare temi tristi col sorriso. Il modello è Jannacci. O Jovanotti, Daniele Silvestri, Pino Daniele. A livello italiano e direi anche europeo, sembra che se non sei triste e arrabbiato non hai credibilità artistica. Non è così.