Un’idea bizzarra, un sound nato quasi per caso e un successo fulmineo che si consuma nell’arco di un’annata. Dal glam proto-punk dei New York Dolls ai Suicide alla Euro dance, i Sigue Sigue Sputnik hanno sintetizzato tutto in un disco che sta per uscire in versione expanded per la storica label Cherry Red: Flaunt It, il debutto – e il loro best seller – del 1986.
Abbiamo parlato con il leader della band Tony James (bassista prima dei Generation X, poi dei Sisters Of Mercy e dei Carbon/Silicon) per farci raccontare la genesi della band e i retroscena del primo, fortunatissimo, album.
Partiamo dalla nascita: come ti è venuta l’idea di creare un progetto simile, dopo i Generation X?
Credo proprio di avere maturato l’idea mettendo a sistema tutto ciò che avevo imparato dal punk-rock, da Malcolm McLaren e da tutte le esperienze fatte e le cose che avevo compreso. L’obiettivo era mettere in piedi il mio gruppo dei sogni.
E questo sogno come era?
Volevo combinare tutti gli elementi che più amavo del rock’n’roll. Volevo un gruppo che avesse il sound dei Suicide, ma anche dei T. Rex, che avesse elementi di dub reggae e che suonasse così come immaginavo che sarebbe stata la musica di Elvis a 50 anni dal suo debutto. Il mio scopo era creare un progetto che mettesse insieme tutte queste cose. E volevo anche due batteristi: ero un grande fan dei Pink Fairies, da ragazzo, loro ne avevano due e mi piaceva quel sound con un beat “grosso”. Il primo passo, dopo essermi chiarito le idee, fu mettermi a cercare in giro le persone giuste.
È stato facile far combaciare tutto?
(Ride) Diciamo che, osservando la faccenda ora, col senno di poi, fu un’idea folle la mia – cioè quella di pensare di riuscire a trovare le persone giuste semplicemente incontrandole in giro, per strada. Però è un po’ così che vanno le cose: da giovane, per esempio, è facile trovare una ragazza, ma quando sei molto più grande imbatterti in qualcuno che ti piaccia davvero diventa più complicato. Comunque, iniziai a cercare gente, in preda a questo entusiasmo ingenuo e il primo che incontrai fu Neal X (vero nome Neal Whitmore, chitarrista, poi collaboratore di Adam & The Ants e Marc Almond, nda), tramite un annuncio piazzato su una rivista musicale. Gli piaceva tutto quello che piaceva a me e suonava ispirandosi a Johnny Thunders, era di bell’aspetto, biondo… sembrava una rockstar.
Gli altri componenti dove li hai scovati?
Neal ed io passammo quasi un anno insieme per le strade di Londra, nei caffè, nei bar, nei club più alla moda e nelle zone dove c’erano i negozi più cool, sai quelli dei designer più giovani e all’avanguardia. Pensavamo: lì vedremo qualcuno che fa al caso nostro. E in effetti è andata così, perché trovammo Martin Degville (cantante della band, nda) in un negozio dalle parti di Kensington Market, dove lavorava: lui aveva un aspetto meraviglioso e ci colpì immediatamente. Così è nato, in pratica, il nucleo principale. Poi sono arrivati tutti gli altri… è una lunga storia, ma la racconto nel sito ufficiale www.sputnikworld.com se qualcuno vuole approfondire.
Come avete mosso i primi passi, una volta assemblata la line-up?
Una grossa difficoltà fu quella di avere un cantante che non era mai stato in una band prima di quel momento. Ma anche due batteristi che non avevano mai suonato la batteria. Per cui pensai che dovevamo creare qualcosa che non esisteva ancora e il punto di partenza erano le cose che ci piacevano e avevamo in comune: la stessa musica, ma anche l’immaginario di film come Mad Max, Arancia meccanica, 1997 fuga da New York. Era quella la chiave per creare qualcosa. E infatti il gruppo, in pratica, si coagulò e prese forma proprio guardando tutti insieme quei film in televisione.
Sono curioso dell’elemento elettronico: c’è stato, quindi, fin da subito?
Nel primissimo periodo in realtà eravamo molto influenzati dai Public Image Limited, per via del loro sound con il basso presentissimo e la chitarra su tutto, tagliente e sottile. Quando abbiamo iniziato, io suonavo il basso – un basso normale. Poi Mick Jones (dei Clash, nda) ci diede un synth, un Pro-1, e un altro nostro amico – Fachna O’Kelly, che era il manager dei Boomtown Rats – ci procurò una drum machine. Per puro caso ci accorgemmo che, se collegavamo i due macchinari assieme, la drum machine dava il ritmo al synth, creando quel suono sincopato “di-di-di-di-di-di-di” (ride)… ed è così che il sound degli Sputnik è nato. Da lì è partita la vera svolta elettronica: è stato quello che definirei un felice incidente.
Ricordi qualcosa delle primissime registrazioni?
Certamente. Abbiamo inciso i primi demo nel salotto di casa di Magenta Devine: era una giornalista e addetta stampa, oltre che essere la mia ragazza all’epoca. Vivevo con lei in una casa dove, in passato, aveva abitato nientemeno che Sid Vicious. Era un posto particolare… credo che in qualche modo fosse infestato da una specie di spirito rock’n’roll. Registrammo i demo con quel setup elettronico che avevamo sperimentato, senza usare il basso vero: ci piaceva quel sound, anche perché apprezzavamo moltissimo il lavoro di Giorgio Moroder nel pezzo I Feel Love e nella colonna sonora di Fuga di mezzanotte e di Scarface.
Dal vivo era facile ricreare quel tipo di sonorità?
Era il nostro pensiero principale. Per farlo, ci dotammo di due drum machine e di quella buffa chitarra synth della Roland, che potevo suonare come una chitarra, ma in realtà comandava un synth. Tanti pensavano dal vivo usassimo basi preregistrate, in realtà era tutto suonato sul momento. Nei concerti dei Sigue Sigue Sputnik ogni nota era vera. Non c’erano nastri o basi.
Ricordi il vostro debutto live?
Molto bene, sì. Ci mettemmo quasi tre anni per arrivare al primo concerto, perché alcuni dovevano imparare a gestire quelle apparecchiature e dovevamo prendere confidenza con quel sound. Il primo concerto fu a Parigi, con Johnny Thunders. Io all’epoca facevo parte anche della band che lo accompagnava e da lì è nata l’occasione… Johnny era un nostro grande fan, gli piaceva l’idea di ciò che stavamo tentando di creare perché considerava quel suono simile alle cose che i New York Dolls avevano fatto molti anni prima. Ho una foto bellissima, scattata durante uno dei nostri primi concerti londinesi: c’è Johnny, in prima fila, in piedi, intento a guardarci sul palco. Era davvero un grande supporter degli Sputnik.
Hai menzionato Giorgio Moroder prima: come è entrato nel progetto?
Come ho detto poco fa, eravamo suoi grandi fan. Per me la band era un progetto anche visivo, vicino al cinema e per questo pensai che per il nostro disco ci volesse qualcuno che fosse abituato a lavorare col cinema. Fin dal primo momento io vedevo il sound degli Sputnik in forma di immagini e non solo come musica. Quindi Giorgio Moroder, come produttore, era la scelta perfetta: così la EMI ci organizzò un viaggio a Monaco per incontrarlo nel suo studio e parlargli. Gli portammo i nostri demo da ascoltare e a lui piacquero molto, anche perché erano particolari e non somigliavano a nulla che già avesse fatto.
Come era Giorgio in studio? Come è stato lavorare con una leggenda come lui?
È stato meraviglioso lavorare con lui. Iniziava le session di registrazione sempre puntualissimo alle 10 del mattino. Appena entrato in studio, la prima cosa che faceva era bere tre caffè espressi molto ristretti… (ride) naturalmente, è una cosa molto italiana. E ogni giorno alle 6 di sera in punto chiudeva tutto e andava a casa: aveva un approccio molto professionale e da lavoratore. La cosa più affascinante del lavorare con Giorgio era che ogni volta che ci rendevamo conto di avere bisogno di un’idea, di una parte in più o di una variazione, lui era sempre in grado di creare qualcosa di adatto e geniale, subito, su due piedi, in studio. Sempre. Per noi è stato un onore lavorare con un musicista e produttore così creativo e talentuoso.
Se non erro è anche segnalato fra gli autori dei pezzi.
Sì, è corretto. Ha scritto, come co-autore, una traccia. (Ride) Quando entrammo in studio avevo questa idea un po’ fuori di testa per cui volevo che tutte le canzoni si somigliassero. Però a un certo punto Giorgio, mentre eravamo al lavoro, ci disse: «Avete bisogno di un pezzo lento». A noi tutti piaceva tanto Cheree dei Suicide (un pezzo del 1978 uscito come singolo, nda), quindi dicemmo: «Scriviamo un pezzo così». E così Atari Baby è nata in studio, l’abbiamo scritta sul momento con Giorgio Moroder, che è la mente dietro a quel beat meraviglioso. È uno dei miei pezzi preferiti degli Sputnik.
Parlami dell’idea di inserire degli spot pubblicitari pagati fra una canzone e l’altra.
Considerando il suono degli Sputnik e la nostra fascinazione per il cinema e la tv, mettere della pubblicità fra i brani ci sembrò una trovata naturale. Certo, devi tenere conto del fatto che in quel periodo io ero completamente fuori controllo: la mia testa era in subbuglio, avevo sempre troppe idee e volevo fare troppe cose insieme. In retrospettiva, penso che se avessimo avuto un manager stile Peter Grant, per esempio, sarebbe stato meglio, perché mi avrebbe posto un freno e avrebbe fatto da filtro alle idee continue che cercavo di incorporare nel progetto: troppe!
Ma la casa discografica come la prese?
Fortunatamente la nostra etichetta dell’epoca, la EMI/Parlophone, credeva tantissimo in me. Probabilmente erano convinti che io avessi anche il potere di camminare sulle acque, per cui mi concedevano tutto quello che domandavo. Riuscimmo ad avere alcuni spot pagati, ma alcuni li creammo noi, erano finti. Il problema era che – in quel momento – per qualche motivo il gruppo era percepito come una band che ispirava violenza. Ma la violenza, negli Sputnik, fin dall’inizio era una cosa da cartoon, non reale, frutto di una finzione filmica. Eppure le cose in un certo senso sfuggirono di mano a livello di percezione, per cui non fu semplice trovare degli investitori che volessero avere a che fare con il gruppo e comprassero quegli spazi pubblicitari. Nessuno, in fondo, voleva davvero essere associato ai concetti di ultraviolenza e sesso così a cuor leggero.
David Bowie ha inciso una cover del vostro singolo Love Missile F1-11 nel 2003. Cosa ne pensi?
Da teenager lo seguivamo tutti, lo andavamo a vedere dal vivo e l’abbiamo sempre rispettato moltissimo come artista. Per noi è stato un onore scoprire che Bowie aveva capito i nostri intenti, il nostro progetto musicale. Ed è stato fantastico scoprire che aveva fatto quella cover.
Sei mai riuscito a incontrarlo?
L’ho incontrato una sola volta, Bowie, a un party. Gli ho parlato brevemente, ma purtroppo era prima che lui incidesse quella cover.
Quando siete esplosi il mondo viveva ancora gli ultimi scampoli della Guerra fredda. E voi avevate un nome russo che significa “brucia brucia Sputnik”. Avete mai ricevuto le attenzioni delle autorità sovietiche?
No (ride). Non ne sapevano nulla molto probabilmente. Sai, non c’era alcun rapporto né comunicazione. Era un mondo diverso… nel 1986 i computer erano ridicoli, non c’era Internet… adesso quello che succede in Inghilterra può arrivare in Russia, nelle Filippine o in Australia nel giro di pochi istanti e diventare un fenomeno anche lì, magari. E poi in quegli anni temo che il governo sovietico non fosse particolarmente interessato al rock’n’roll… diciamo che probabilmente avevano altri problemi nel 1986.
Dopo questa ristampa, pensi ci sia qualche chance di rivedere la band in azione, per una reunion?
È una domanda complicata, in realtà. Mettiamola così: tu davvero vorresti vedere, dopo tutti questi anni, i nonni dei Sigue Sigue Sputnik su un palco? È difficile. Io non ho voluto andare vedere i New York Dolls da vecchi, quando hanno fatto la reunion. Johnny Thunders è morto prima di diventare vecchio e rimarrà sempre legato all’immagine che avevamo di lui quando era giovane… ma sono sicuro che non vorremmo vederlo anziano, a 70 anni, su un palco. Quindi è davvero un dilemma. Spesso penso a come si potrebbe fare, ma l’unica soluzione che mi viene in mente è… tornare giovani (ride). Questa devo ricordarmela per le prossime interviste che farò!