«Sono ancora a letto», «lo vedo». L’intervista su Zoom a Tim Burgess è cominciata così, con il frontman dei Charlatans in maglietta bianca, avvolto in lenzuola bianche, appoggiato su cuscini bianchi contro una testiera del letto bianca, che saluta dall’altra parte dello schermo con un sorrisone di quelli che aprono il cuore.
È inizio luglio e il motivo della videochiamata è l’uscita del suo nuovo doppio album, il quinto da solista, Typical Music. “Curiosity started getting the better of me”, canta il 55enne songwriter di Salford, anche fondatore dell’etichetta O Genesis, in una delle 22 tracce del disco: un elogio al valore terapeutico di quella curiosità che, unita al desiderio di condivisione, lo ha spinto, in piena pandemia, a inventarsi dei listening parties su Twitter che nel giro di un anno gli sono valsi un aumento dei follower del 250%. L’idea: in un giorno e in un orario prestabilito un musicista reclutato da Burgess fa partire in diretta uno dei suoi album, mentre i fan a casa sono invitarti ad ascoltarlo in contemporanea e a commentare con lo stesso autore. Il bello è che l’iniziativa è arrivata a coinvolgere artisti e band come Paul McCartney, Franz Ferdinand, Iron Maiden, Suede, Libertines, Blur, New Order, Flaming Lips, Liam Gallagher, Chemical Brothers, Pulp, Eddie Vedder, tutti pronti a svelare aneddoti e ispirazioni legati alla loro produzione discografica.
Durante lo scorso weekend è toccato a Typical Music, contagioso e policromo intruglio di rock psichedelico, synth pop, Brit pop, acid house, soul e molto altro, tutta roba che Tim si è divertito a smontare e rimontare con piglio personale come un prestigiatore. Un viaggio dallo spirito gioioso ed esuberante, realizzato con la complicità del tastierista e genietto dei synth Timothy Lewis alias Thighpaulsandra (Julian Cope, Spiritualized, Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins) e del multistrumentista Daniel O’Sullivan.
Tim, come mai questo titolo, Typical Music?
Il titolo è nato da un incontro. Avevo invitato da me Charles Hayward dei This Heat per suonargli qualche brano del disco in anteprima e quando gli ho chiesto come avrebbe descritto quei pezzi lui ha scosso la testa e poi, allargando le braccia, mi ha detto «typical music, no?». Come se fosse una cosa ovvia (ride, nda). C’è da dire che avevo una canzone il cui testo iniziava con le parole “typical day” e alla fine mi è sembrato perfetto definire tipico quel miscuglio di colori, di contrasti, di psichedelia che sono questi nuovi brani. Brani che per me lo sono, tipici: rispecchiano il mio amore per la musica in tutte le sue sfaccettature, il fatto che amo spaziare tra i generi sia da musicista, sia da ascoltatore.
Nella cartella stampa c’è scritto che volevi espandere il suono, e lo hai fatto con molta elettronica…
Sì, fondamentalmente ho lavorato con le stesse persone che erano al mio fianco per il precedente I Love the New Sky, però volevo spingermi oltre. Thighpaulsandra è ingegnere del suono su entrambi i dischi ed è un mago dei sintetizzatori. Così ho pensato che se I Love the New Sky attingeva dal folk pastorale e dalla scena di Canterbury, in questo nuovo lavoro volevo, sì, lasciare questi elementi che continuano a piacermi, ma sviluppandoli, portandoli oltre, cosa che ho fatto anche con la complicità, al mixaggio, di Dave Fridmann. Perché non è bello ripetersi, no?
Il risultato è un album che trasmette positività, allegria, e sotto questo profilo hai dichiarato di aver abbracciato, nel corso della pandemia, una nuova prospettiva. Come ci sei riuscito?
Sai, mi sono successe parecchie cose mentre lavoravo a questo disco, mi sono lasciato con la madre di mio figlio (la musicista Nik Void, nda) ed è stata dura, mio padre è morto (nell’aprile 2020, nda) ed è stato molto triste. Ma a un certo punto ho deciso di guardare a ciò che di bello avevo attorno a me. In primis le amicizie, dopodiché mi sono concentrato sulla scrittura di nuovi pezzi, sulla musica, e ho letto tanto, visto film… Insomma, avevo perso un genitore e la mia partner, avevo bisogno di ricostruire il mio mondo. Non è che fossi così ottimista, voglio dire, con la pandemia un sacco di gente è crollata. Però mi sono messo in gioco, ho iniziato a organizzare questi gruppi di ascolto su Twitter e lì è scattato qualcosa, quella trovata mi ha aiutato molto psicologicamente, e alla fine… Ti rendi conto che questo album ha 22 tracce?
Perché dici questo?
Perché sono tante e la ragione è che sono stato completamente assorbito dal desiderio di scrivere qualcosa di bello che potesse fare sentire meglio me stesso e gli altri. E visto il delirante periodo storico che stiamo vivendo, spero funzioni.
Da questo punto di vista il titolo della quinta traccia, Revenge Through Art, è perfetto. Rispecchia anche lo spirito dei tuoi Twitter Listening Party online? Cosa pensi che la musica possa trasmettere in un’epoca così complicata, per usare un eufemismo?
Viviamo un momento particolarmente triste della storia, ma quel che penso è che nell’impotenza generale c’è una cosa su cui posso avere il controllo: quello che faccio, la mia persona, ciò che sono. E la gente può capire chi sono ascoltando questo disco come attraverso i listening parties. Su come si sta evolvendo la società posso dire la mia e a volte lo faccio, ma a parte questo ciò che posso davvero controllare è solo il modo in cui vivo io in questa società: come mi comporto, come tratto le persone, che approccio ho nei confronti della musica… Partiamo da qui, partiamo da noi stessi.
Hai registrato Typical Music ai Rockfield, studi in una fattoria del Galles che hanno giocato un ruolo importante nella storia dei Charlatans: è lì che avete inciso i vostri dischi più rappresentativi, in primis Tellin’ Stories del ’97, il vostro album più di successo, quello del singolo One to Another, ed è lì che durante la lavorazione di quel disco il tastierista della band, Rob Collins, morì in un incidente d’auto. È vero che non ci tornavi da 25 anni?
Quello studio era stato il mio posto preferito nel mondo per un lungo periodo, e l’idea di tornarci era terrificante. Ci sono andato una prima volta mentre facevo ricerche per Telling Stories, il mio libro autobiografico. In quel caso sono passato dal luogo dove Rob è morto, volevo vedere che effetto mi avrebbe fatto, che cosa avrei provato, ricordo che dopo mi ero messo a scrivere. A parte questo… Vedi, il fatto è che la mia voce non mi è mai sembrata così bella come quando l’ho registrata in quello studio, e per raggiungere quel risultato non devo nemmeno fare chissà quante take. Senza contare che quando entri in quelle sale sai che di lì sono passati Black Sabbath, Stone Roses, Oasis, Coldplay, tutta questa gente fantastica ha suonato tra quelle mura, dove tra l’altro c’è un sound pazzesco. Quindi volevo tornarci e l’ho fatto con Daniel O’Sullivan e Thighpaulsandra per questo album: eravamo solo noi tre in quella fase, perché c’era il Covid, ma abbiamo creato la base, la struttura di tutte le tracce di Typical Music. Era come se nelle nostre teste avessimo un’orchestra.
Hai detto di avere letto molto nell’ultimo paio d’anni: ossia?
Avendo trascorso un periodo in Irlanda, dove sono andato a trovare degli amici, mi sono ritrovato a leggere alcuni poeti e autori irlandesi, ma in generale un punto di riferimento per me fondamentale è Andy Warhol – mi affascina la sua visione – e ho sempre con me l’opera completa di Allen Ginsberg. Quando vivevo negli Stati Uniti ero ossessionato dai poeti beat e L’urlo di Ginsberg è probabilmente il mio poema preferito in assoluto. Sono anche legato a tutti gli artisti con cui ha collaborato, da Arthur Russell a Peter Zummo a Ernie Brooks, ai racconti di come si sono ritrovati a condividere esperienze con Ginsberg, che era gay e scriveva queste poesie così sensuali, cosa che mi ha sempre affascinato e divertito. Senza dimenticare Vomit Express, il disco che fece con Bob Dylan, lo adoro.
È noto che hai fatto uso di droghe, nel tuo memoir Telling Stories hai raccontato anche il tuo passato rapporto con le sostanze stupefacenti, la cocaina, l’alcol…
Già, che posso dire? In certe sostanze avevo trovato una via per esplorare, per aprirmi a nuove idee, ma a un certo punto ho iniziato a chiedermi se fossero la strada giusta per stimolare la creatività, per accedere a una dimensione psichedelica e a quella sensazione di libertà che avevo provato inizialmente. Perché dopo un po’ subentra l’assuefazione e non funziona più come pensavi. Da allora (attorno al 2006, nda) ho adottato uno stile di vita sano, e adesso mi diverte pensare che io e gli altri Charlatans quando siamo in tour viaggiamo senza nemmeno una sigaretta. Siamo maturati, è una questione di età, di conoscenza. E di coraggio, perché ci vuole coraggio a mettersi su un palco di fronte a migliaia di persone facendo la musica che ami senza aiutini. Oggi penso che senza droghe la musica sia più vera. Non che quella che ho fatto sotto effetto di droghe non lo fosse, ma era un altro tipo di verità, meno genuina.
Non hai l’impressione che da qualche tempo il mondo della musica live sia sempre più ingessato? Mi è rimasta impressa un’intervista che feci nel 2015 a Bill Gould, bassista dei Faith No More, in cui lui mi disse di rimpiangere «gli artisti eccentrici e fuori di testa del passato» e che «il business ha reso tutti seri». Che ne pensi?
Per molto tempo ai festival volevano tutti venire nei camerini dei Charlatans, perché erano il posto dove ci si divertiva di più, dove c’era il party. Poi i tempi sono cambiati ed è vero che l’atmosfera di festa che c’era in certe situazioni si è un po’ affievolita. Non voglio giudicare le scelte di nessuno, di certo, però, posso affermare che non mi piace l’idea che i musicisti della scena rock’n’roll possano diventare come degli impiegati di banca. Perché amo l’aspetto più pericoloso e selvatico di quel che facciamo, adoro l’esplorazione e questo non ha niente che vedere con le droghe, come dicevo prima, ma con un atteggiamento libero sicuramente sì.
Ho notato che quando parli di te stesso non come songwriter e musicista, ma come fan e ascoltatore, associ spesso la musica a una possibilità di trascendenza, parola tua. È questo il potere di un disco, di una canzone?
Sono ossessionato dalla musica sin da quando ero un bambino e mi guardavo video e concerti alla tv. Ricordo che tra me e me mi chiedevo: ma come hanno fatto ad arrivare là? Come funziona? Desideravo da morire fare parte di quel mondo, ma non sapevo se sarebbe stato possibile nella cittadina fuori Manchester dove vivevo. Alla fine ce l’ho fatta e la mia passione non è scemata nemmeno da ascoltatore. Perché la musica è una cura, per questo i Twitter Listening Party sono piaciuti così tanto; non sai quanta gente mi ferma per strada per ringraziarmi di quegli incontri online, per dirmi quanto sono stati di aiuto. Centinaia e centinaia di persone, giuro! Quanto alla trascendenza, questa è una parola che si lega alla mia esperienza con la meditazione trascendentale, che pratico in solitudine ogni mattina, ma che mi è capitato di praticare anche in gruppo, persino con un centinaio di persone, ed è qualcosa che ti manda fuori di testa. E durante i listening parties accade qualcosa di simile: ci sono tutte queste persone connesse da ogni parte del mondo che ascoltano lo stesso disco nello stesso momento, e tu quelle persone le senti, ne percepisci la presenza, è qualcosa di molto potente. In qualche modo ciò che volevo ricreare era la sensazione che avevamo noi che siamo cresciuti nell’era pre-Internet quando compravano un nuovo disco e invitavamo gli amici a casa per ascoltarlo in compagnia.
Sei un influencer ormai, che effetto ti fa?
Oh, bellissimo, ho realizzato il sogno della mia vita (ride).
Per chiudere, mi racconteresti qualcosa di Weirdo, canzone dei Charlatans del 1992? È un pezzo di colonna sonora della mia adolescenza…
Ho pensato a lungo che quel brano parlasse di me, ma non era così. Mi spiego: sono consapevole di passare per un weirdo, per un tipo di strano, ma al tempo stesso a me sono gli altri che sembrano strani. Quindi, come la mettiamo?