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Ian Astbury racconta David Bowie: «Non era di questo pianeta»

Il rocker dei Cult parla di uno dei suoi miti a otto anni dalla scomparsa. C’entrano Ziggy e il buddismo. «Era un barometro degli umori dei tempi e un’icona pop dell’era dei consumi pur non essendo attaccato ai beni materiali. La morte è stata l’ultima delle sue trasformazioni»

Foto: Lester Cohen/Getty Images (1), Pedro Gomes/Redferns (2)

«Nel 1972 David Bowie parlava di Marte, non della Luna come tutti. Era avanti eoni rispetto ai suoi contemporanei. Mi stregava questo aspetto avanguardistico. Non c’era mai nulla di scontato in Bowie. Non apparteneva a questo pianeta, era in perenne metamorfosi e quando pensavi di averne catturato l’essenza lui era già altrove. Non è mai stato intrappolato dal suo personaggio, soprattutto perché non era schiavo del suo ego».

Per Ian Astbury, David Bowie era il mito, colui che l’ha folgorato con l’esibizione a Top of the Pops del 1972, portandolo a fare musica. Non solo: i due erano accumunati dall’interesse per il buddismo e per la spiritualità. «Quando ho incominciato ad approfondire la cultura degli indiani americani e del buddismo, ho capito che Bowie viveva in due dimensioni, una terrena e l’altra soprannaturale. Era quasi diventato un monaco, ma ha poi scelto la via della trascendenza attraverso l’arte e ha saputo esprimerla in un linguaggio pop, non iniziatico».

Astbury ha conosciuto Bowie nel 1987. I Cult gli facevano da supporter e i due ebbero l’opportunità di conversare amabilmente nei camerini, quasi come amici. Non era scontato. Nato nel 1962, Astbury era il cantante di una band che arrivava dal post punk e virava verso l’hard rock, mentre Bowie, classe 1947, era già stato tutto: ricercatore inquieto, artefice di commistioni artistiche fino ad allora inesplorate, sovvertitore di regole morali e di costume. «Era un barometro degli umori dei tempi». Più avanti, nei tardi anni 2000, si sono trovati per caso a vivere nello stesso quartiere di New York ed era normale incontrare Bowie nel negozio di bagel o mentre passeggiava per strada.

Reduce da un tour britannico con la formazione precedente ai Cult, ossia i Death Cult, Astbury racconta in questa intervista l’inestimabile eredità del suo mito di sempre, morto esattamente otto anni fa, il 10 gennaio 2016. «Parlava della morte come di un evento naturale, l’ultima delle sue tante trasformazioni».

Come hai saputo della sua morte?
Ero a Los Angeles e mia moglie è venuta a svegliarmi un po’ sconvolta dicendomi che David Bowie era morto. È stato un colpo duro, un vero lutto. Non ci potevo credere, per mesi mi sono sentito come se mi avesse travolto un tir. David viveva a New York dove si trovava Supreme in Lafayette Street, e io dal 2006 al 2010 ho abitato proprio dietro all’angolo. Mio figlio lo incontrava spesso nel negozio di bagel, era normale vederlo nei paraggi, amava vivere da uomo comune.

Ricordi quando lo hai ascoltato per la prima volta?
Avevo 9 o 10 anni, abitavo ancora in Inghilterra prima di trasferirmi in Canada e lo vidi a Top of the Pops. Era il 1972, fece Starman. Rimasi folgorato. Esistevano un simbolismo e un lato mistico nella canzone che già allora alimentavano il mio immaginario e una certa malinconia. Appena riuscii a racimolare i soldi andai a comprarmi The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars.

In che modo quell’album ti ha influenzato?
Mi ha avvicinato al concetto dell’esistenza umana di Nietzsche e del buddismo tibetano. La visione di andare su Marte era sia metafisica che avanguardistica, visto che oggi al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena organizzano realmente i futuri viaggi verso il pianeta rosso. Bowie era davanti a tutti, anche a Kubrick. Quando ho incominciato ad approfondire la cultura dei nativi americani e del buddismo ho capito che viveva in due dimensioni, una terrena e l’altra soprannaturale. Era quasi diventato un monaco, mai poi ha scelto la via della trascendenza attraverso l’arte e ha saputo esprimerla in un linguaggio pop, non iniziatico. Era molto ispirato dall’autore di Addio a Berlino Christopher Isherwood, di cui divenne amico. I suoi romanzi hanno ispirato anche musical importanti come I Am a Camera e Cabaret che hanno contagiato molto la visione di Bowie. Condividevano la stessa passione per Berlino e per l’espressione teatrale. Tuttavia, non tutti sanno che Isherwood era stato anche un prestigioso traduttore della Bhagavad Gita e dei Vedanta, i testi sacri dell’induismo che hanno influito molto sulla percezione esistenziale di David, così come una certa arte afro-pagana.

Quando l’hai incontrato?
La prima volta nel 1987, quando i Cult gli fecero da supporter a Parigi. Lo incontrai nei camerini e passammo molto tempo a conversare. Io avevo 25 anni ed ero intimidito nello stare davanti al mio mito di sempre, ma lui seppe mettermi a mio agio. Era molto gentile, umile, con i piedi per terra. Non era perso in qualche trip artistico o nell’indulgenza narcisistica da rockstar. Sapeva interessarsi a te e ascoltarti. Ricordo che il suo manager venne a chiamarlo perché sarebbe dovuto andare sul palco di lì a poco, ma lui gli disse che prima doveva concludere la conversazione con me. Era molto educato, rispettoso e umano. Conservo quel momento nel cuore, come un dono prezioso.

Lo stesso tipo di arte sarebbe stata possibile se Bowie non fosse stato inglese?
Non credo. L’Inghilterra era un tale melting pot culturale in fermento dopo la de-colonizzazione negli anni ’60 e ’70 che un certo tipo di contaminazione era possibile solo lì. A Londra potevi incontrare sia le influenze africane e caraibiche, che quelle provenienti dall’India e dal Tibet. Il centro buddista scozzese di Samye Ling di Choje Akong Tulku Rinpoche era molto frequentato ai tempi, anche da David Bowie.

E se fosse nato in altri anni?
L’Inghilterra del dopoguerra era un Paese traumatizzato, dove i giovani toccavano con mano il danno che il conflitto mondiale aveva fatto sulla psiche dei loro genitori. Mio padre mi raccontava spesso di cosa significasse trovarsi sotto alle bombe. Io stesso, che sono nato nel 1962, ricordo che da bambino andavo a giocare in edifici bombardati. C’era un grande bisogno di guarigione e di rinascita negli anni ’50 e una idealizzazione della cultura americana fungeva da salvatrice. Dare il cioccolato ai bambini significava diffondere una forma pensiero, è stata un’operazione di marketing. David aveva assorbito e filtrato tutto questo trasformandolo in una maschera artistica, che si è effettuata mediante la transizione di David Robert Jones in Bowie.

Ha indossato tale maschera fino alla fine. Lazarus trasmuta la morte in arte.
Blackstar e il musical Lazarus sono il suo testamento e la sua ultima eredità. Bowie ha fatto la storia ed è parte della storia. Ha sovvertito i linguaggi della musica prima del punk, in un momento in cui il Regno Unito si preparava alla Thatcher. Lui e i Crass ribaltavano la narrativa neoconservatrice, anche se in modo diverso. Attraverso la poetica di Bowie sono state trattate le tematiche ambientali, sociali, razziali, di genere. Tramite lui io ho conosciuto Orwell e Picasso. David era un barometro degli umori dei tempi e, registrandone le correnti sotterranee, li anticipava. Parlava di tecnologia ante litteram e di pop art. Era un trasformatore di informazioni che dipingeva in tempo reale immagini sonore sempre nuove.

È stato un uomo realizzato secondo te?
Sì, ma non in senso comune. Era un’anima che aveva compiuto la sua missione su questo pianeta nella forma che gli era stata data. Nel buddismo si chiama Dharma. Era molto umile perché si riteneva semplicemente il catalizzatore di una forma di energia più alta che attraverso di lui si manifestava.

Dunque, per lui la morte non era un tabù.
Era consapevole del fatto che il viaggio sulla Terra è a tempo determinato: il corpo se ne va, ma la nostra energia fluisce a livello quantico in un’altra dimensione. È il concetto buddista dell’impermanenza. La morte è uno shock se non la comprendi. Io ho perso mia madre a 17 anni e ne fui traumatizzato. Mio padre era diventato instabile e io dovetti occuparmi di mio fratello e mia sorella. Mi salvò la musica. Paradossalmente David è diventato un’icona pop dell’era dei consumi pur non essendo attaccato ai beni materiali. La sua arte era un invito a liberarsi dai condizionamenti, dai pregiudizi e a guardare oltre all’epoca egoica in cui viviamo, oltre alle maschere che indossiamo. David parlava della morte come di un evento naturale, l’ultima delle tante trasformazioni.

Anche tu con i Cult hai spesso trattato il tema dell’impermanenza.
Ma la cosa non era ben vista. Così agli inizi degli anni ’90 ho voluto fermare tutto e ripartire daccapo in modo da non tradire me stesso. Grazie a quel riassetto, però, è nata l’esperienza di A Gathering of Tribes e quella come cantante dei Doors.

Sei stato in tour nel Regno Unito con i Death Cult, la formazione prima dei Cult dalle sonorità goth, post punk e new wave. Com’è stato ritrovarsi di nuovo nel 1983?
Ho risentito in corpo l’energia, la rabbia e la fame di cose che avevo a 21 anni, È stato un tuffo nella memoria, una celebrazione e una sorta di terapia. Quei brani sono nel dna della band, sono la nostra radice. I primi anni ’80 erano incredibili: c’era stata la prima evoluzione tecnologica anche nella musica, i sintetizzatori, la nascita dei CD e di MTV, che spostava il focus dal suono all’immagine. Era tutto nuovo e molto eccitante. David Bowie, comunque, aveva già fatto tutto prima degli altri.

Concordi con chi dice che solo l’arte rimane?
Sì, ma anche lo spirito rimane. Come ha testimoniato Bowie in Blackstar, è bene che l’arte perpetui la propria eternità attraverso lo spirito.

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