I numeri di iann dior – scritto proprio così, in lettere minuscole, come d’altronde i titoli di tutte le sue canzoni – sono impressionanti per la sua età: nel 2020, a soli 19 anni, ha raggiunto la n° 1 della classifica americana e di quella inglese come feat nel singolo di 24kGoldn mood. Dopo gli ottimi risultati dell’album di debutto industry plant si appresta a fare il bis con il suo secondo lavoro, on to better things, uscito qualche giorno fa. Ancora più impressionante è il fatto che il suo nome potrebbe risultare sconosciuto ai più, così come quello di molti suoi collaboratori abituali: 24kGoldn, Jxdn, LilHuddy, Upsahl, Lil Baby, Illennium. Se più che pseudonimi artistici sembrano dei veri e propri nickname, non è un caso: quasi tutti sono esplosi grazie a SoundCloud o TikTok, dove caricavano il proprio materiale autoprodotto prima ancora di costruirsi una fan base o intercettare l’interesse di una casa discografica. «Se vuoi farcela devi dare tutto te stesso, e soprattutto credere in te stesso, ben prima che chiunque altro creda in te», sottolinea dior in collegamento via Zoom da Los Angeles, dove ormai vive.
Il suo stile, come spesso capita con i figli della Gen Z, è un misto di molte suggestioni diverse, filtrate e rielaborate attraverso la sua rete (sia nel senso di world wide web, sia nel senso di connessioni personali e neurali): l’hip hop, la trap, l’emo, il pop-punk. Canzoni brevi se non brevissime, ma perfette per inquadrare il senso di straniamento di chi, come tante web star, emerge quasi per caso, si trova a vivere il sogno di molti coetanei, e poi all’improvviso si accorge che non è tutto così perfetto come credeva, e che dopo il lieto fine da commedia americana le montagne russe del successo non accennano a rallentare. “Finally made it, but it don’t feel right / Don’t feel like I thought it would”, dice in uno dei brani estratti dall’ultimo album, thought it was. Quando finalmente si può dire a buon diritto che ce l’abbia fatta, insomma, c’è qualcosa che gli suona sbagliato; la felicità che si prefigurava non è poi così assoluta e trionfale e le certezze vacillano pericolosamente. Con tutte le conseguenze del caso.
Ma per arrivare a questo bisogna fare un passo indietro, più precisamente al 2004, quando i genitori di iann dior emigrano a Corpus Christi, in Texas, partendo dalla natìa Porto Rico, dove il nostro vive un’infanzia da senzatetto. «Nel mio Paese d’origine la musica è molto importante, tutti suonano qualcosa o ballano, è una cosa che si respira nell’aria», racconta. «Nessuno della mia famiglia aveva questo interesse, però. Ho scoperto solo dopo essere diventato un musicista che anche mio nonno adorava suonare, ma non mi hanno mai incoraggiato. Diciamo che mi è venuto spontaneo».
Inizialmente, in effetti, l’idea di diventare un artista non lo sfiora neanche. «È diventata una specie di fissazione solo dopo la fine del liceo» riflette. «Sapevo solo che volevo vivere a Los Angeles, ma non avevo idea di cosa avrei voluto fare laggiù». Anche perché il dilemma si pone in termini un po’ inconsueti. Suo padre, infatti, che è riuscito a trasferirsi in America con la famiglia arruolandosi nella marina militare degli Stati Uniti, decide che per il figlio la cosa migliore è seguire la sua stessa strada, e a 17 anni lo inserisce in un programma di pre-arruolamento contro la sua volontà. È urgente fare una scelta di vita, insomma, quantomeno per sfuggire alla scelta che qualcun altro ha fatto per lui.
Per iann dior è un momento durissimo, perché non si sente minimamente a suo agio in quel tipo di ambiente e trascorrere anni sotto le armi non è affatto nei suoi piani. «Quando me l’ha detto non sapevo davvero cosa fare: mi sono attaccato al telefono e ho cercato di trovare un modo qualsiasi per evitarlo. Per fortuna, mi è venuto in mente che se hai dei tatuaggi visibili sulle mani non puoi entrare nell’esercito, così me ne sono fatto fare uno. A mio padre non ha fatto molto piacere, ma è stata una mossa abbastanza brillante, da parte mia», ride.
Il rovescio della medaglia, però, è che insieme alla sua carriera militare va a rotoli anche quella civile, ovvero il lavoretto che gli avrebbe permesso di emanciparsi dalle decisioni della sua famiglia, perché neanche lo spedizioniere presso cui lavora accetta tatuaggi visibili. Insomma: è disoccupato, suo padre lo caccia di casa, e lui si ritrova sì diretto a Los Angeles, ma senza sapere esattamente che ne sarà di lui. «È stato allora che ho deciso di fare sul serio con le mie canzoni. È stata dura, ma senza questa storia non avrei nulla da raccontare, perciò sono grato per tutto quello che mi è successo nella vita».
A farlo innamorare della musica è stata la possibilità di mettere nero su bianco pensieri ed emozioni, spiega. «Amo creare una storia con le mie parole, abbinarla a un beat e fare provare un’emozione a chi la ascolta. È stato davvero terapeutico, per me. Se ho vissuto una brutta esperienza, o se voglio dire qualcosa a qualcuno, la metto in una canzone e mi aiuta molto a esternare i miei sentimenti».
Come dicevamo, il successo arriva quasi istantaneamente, dopo una manciata di tracce autoprodotte e pubblicate online. Ma insieme al successo arriva anche tutto il resto. «Negli ultimi due anni della mia vita ho avuto parecchi problemi: tossicodipendenza, depressione», ammette con semplicità. «Sono molto legato a quest’album proprio perché rappresenta una svolta per me. È grazie a questo secondo disco se mi sono lasciato tutto alle spalle e sto meglio, finalmente».
È intitolato on to better things, “verso cose migliori” proprio per questo: è un augurio che vuole fare a se stesso e ai suoi fan, anche perché «è qualcosa in cui tutti possono riconoscersi. La pandemia ha sicuramente avuto un effetto sulla mia salute mentale. È stato davvero spaventoso e strano, e sicuramente ha un po’ peggiorato le cose, per me. Penso che sia successo un po’ a tutti: non c’è nessuno che è stato davvero bene, dal 2020 in avanti». La colpa la dà alla vita in generale, ma anche un po’ a se stesso, soprattutto per quanto riguarda i suoi problemi di droga: «Tutto è iniziato perché cercavo di evitare di affrontare le situazioni, ma ogni volta che provavo a smettere, a cambiare i miei comportamenti, era davvero difficile. Ho dovuto mettere in pausa la musica per riuscire a concentrarmi sulla guarigione, ecco perché ci ho messo così tanto a finire l’album».
Per on to better things, iann dior ha abbandonato progressivamente il sound che lo aveva fatto conoscere e apprezzare dai fan di tutto il mondo – una sorta di trap molto melodica e malinconica – per avvicinarsi sempre di più all’emo e al pop-punk dei primi anni ’00: se non sapessimo che è suo, sembrerebbe quasi l’album di un’altra persona. «Il mio stile sta cambiando, ma è perché mi evolvo come persona. Non restiamo mai uguali a noi stessi, e anche per la mia musica è così, ma sono sempre io. Mi piace sperimentare e vedere quanto in là posso spostare l’asticella, ma so esattamente quello che piace ai miei fan: non faccio altro che mischiare le mie influenze precedenti con quelle attuali».
Ben tre brani hanno il featuring di Travis Barker, batterista dei Blink-182, il che non fa che aumentare l’impressione che il suo mondo di riferimento si stia spostando sempre di più. Secondo il diretto interessato, però, non si tratta di una scelta di campo, ma di una traslazione del tutto spontanea. «Io e Travis ci siamo incontrati per la prima volta per il mio album di debutto, lavorando insieme alla traccia darkside. Da allora, ogni volta che ci incontravamo finivamo per fare musica insieme e siamo diventati molto amici. È venuto naturale registrare così tanti brani insieme».
Al di là di tutto, i suoi fan non l’hanno abbandonato, i tempi bui sembrano essere ormai alle sue spalle e iann dior ha ricominciato a godersi il successo, come qualsiasi altro ventiduenne spensierato. «Anche se può essere destabilizzante, non mi dispiace essere riuscito a raggiungere una fama mondiale così giovane», afferma. «Finalmente posso prendermi cura della mia famiglia. Ma soprattutto, finalmente mi sento ascoltato, che è la cosa che mi interessa di più in assoluto».