«Per l’ultima volta: non siamo una band punk, cazzo!», ha precisato di recente dal palco Joe Talbot degli IDLES, band di Bristol incazzosa e delicata al tempo stesso, che ha pubblicato due album grandiosi: Brutalism, lo scorso anno, e Joy as an Act of Resistance, qualche mese fa. Quindi, come vi definite? chiedo al cantante qualche giorno prima dell’unica data italiana. «Non mi piacciono le etichette, quello che volevo dire è che ognuno deve pensare agli IDLES come meglio crede», risponde Talbot. Ok, ma visto che ti sei sbilanciato nel dire che non siete punk… «Be’, se dovessi trovare un genere, direi che siamo heavy post-punk, per via della natura motorik della nostra sezione ritmica. E del fatto che chitarre e voce sono belli pesanti. Ma… solo se proprio dovessi».
Questo esordio non faccia pensare che Talbot sia scostante, anzi. È disponibile e attento. Del resto è l’idea che mi sono fatto di lui grazie ai suoi testi: “I wrote a love song / ’cause you’re so loveable / I carried a watermelon / I want to be vulnerable“. Ma anche: “I’m a real boy/ Boy, and I cry/ I love myself / And I want to try”. Non esattamente quello che ti aspetteresti da una band pun… voglio dire, heavy post-punk come questa, che alla violenza della musica accosta temi che nascono (anche) da dolorose esperienze personali (ci arriviamo tra poco) e dalla rabbia per una situazione politica inglese – vedi alla voce “Brexit” e “May”. Gli IDLES sono solo una, forse la più interessante, tra le band inglesi che oggi sembrano riscoprire il rock come strumento per diffondere il proprio messaggio: «Band come Cabbage, Fat White Family, Goat Girl, Shame, Wolf Alice, Slaves trovano un denominatore comune con il mood di questo Paese, con le idee fasciste che stanno affiorando. Perché diciamocelo chiaro, UK is fucked. La Brexit è la peggiore idea mai escogitata dal nostro governo. E la gente l’ha pure votata».
Ma tutto questo rock sembra costituire una bella dose di anticorpi, faccio notare. In Italia non siamo messi meglio, eppure la nostra risposta musicale è affidata a ragazzotti dal lessico scarso che si limitano a contare quanti Rolex hanno al polso. «Voi siete messi peggio dell’Inghilterra! Avete Berlusconi», ribatte Talbot. Ingenuità d’oltremanica! Oggi Silvio sembra quasi un padre della Patria, in confronto ai talenti che sono seguiti. «Il rock deve abbattere i vecchi modelli che hanno contribuito a renderlo un genere morente», continua Talbot. «Una volta era dominato da egocentrici uomini bianchi, ricchi, arroganti, misogini (alzi la mano a chi è venuto in mente Axl Rose, ndr). Oggi per essere rilevanti bisogna essere persone migliori. Non c’è abbastanza denaro in giro per permettersi di essere degli stronzi».
Parlando con Talbot, non si può fare a meno di affrontare le dolorose esperienze personali dietro molte canzoni. Mother affrontava la lunga malattia e la morte della madre, nel 2017. June, una delle più struggenti del secondo album, parla della perdita della figlia Agatha, morta durante il parto: “A stillborn but still born / I am a father”; e più avanti, evocando il celebre e terribile racconto in sei parole attribuito a Hemingway: “Baby shoes for sale: never worn”: «Quello che ho passato riguarda soltanto me e la mia compagna. Ma essere aperti riguardo al dolore è un veicolo per incoraggiare gli altri a fare lo stesso. Spesso chi soffre prova vergogna, isolamento. Ho cercato di aprire una conversazione a proposito del dolore».