Bob Log III è un’istituzione nel mondo delle one-man-band. Passa sei mesi all’anno in tour e gira tutto il mondo, Australia, Giappone, Americhe, Europa, armato di una chitarra slide, un casco con una cornetta incorporata che gli copre il volto e una collezione di tute da Elvis Presley; i suoi live sono delirio puro a base di schitarrate infuocate, palloncini e crowdsurfing su un canotto. In occasione del suo live al Magnolia di Milano lo abbiamo fatto intervistare al duo synth-freak Il Culo di Mario, visto che le canzoni di Bob spesso parlano di culi…
Nei tuoi pezzi si parla spesso di culi e tette.
In effetti diverse mie canzoni hanno avuto come soggetto alcune parti del corpo, ma negli ultimi due album non c’è un singolo riferimento a culi o tette. Volevo fare uscire anche un terzo disco di strumentali alla chitarra ma sono partito per questo tour prima di finirlo.
Come hai iniziato a fare quello che fai? Il casco con la cornetta, la chitarra slide, la one-man-band?
Ero in una band di due elementi, i Doo Rag: io e un batterista. Un giorno il batterista se ne andò. Era già successo altre volte e ogni volta mi dicevo: “Eccoci qui, il tour è finito, mi tocca tornare a casa cazzo!” Quel giorno entrai in un negozio di dischi e vidi Eugene Chadbourne (chitarrista e suonatore di banjo che ha collaborato con John Zorn, Jello Biafra, They Might Be Giants, N.d.a.) che stava suonando una scopa a cui era legata una corda sola. Il set durò 40 minuti e fu incredibilmente divertente. Vedendolo pensai: “Ehi, anche io posso suonare la chitarra per 40 minuti ed essere incredibilmente divertente! Stasera non torno a casa, vado a fare il mio concerto!”. Quella sera dovevamo aprire per gli Ween, così li avvisai: “C’è un cambiamento: il batterista mi ha mollato, suono da solo!”. In macchina avevo solo una chitarra, dei vestiti sporchi, un casco da motociclista, una cornetta del telefono e poche ore di tempo prima dello show. Così mi sono inventato questa cosa. Le invenzioni migliori nascono dal panico.
Come andò il concerto?
Quando finii di suonare una ragazza tra il pubblico mi portò a casa e mi scopò tutta la notte. Pensai: non male, potrei farlo anche domani! Non farò il suo nome, ma voglio ringraziare quella fanciulla per aver dato il via a tutto questo.
Come nascono i tuoi brani?
Parto sempre dalla chitarra: se salta fuori una parte divertente per chitarra comincio a pensare “come faccio a renderla più divertente?” allora ci metto un beat di batteria, poi arrivano i testi. Per qualcuno le mie non sono nemmeno canzoni ma “robe alla chitarra”. Sono d’accordo, anche perché mi considero soprattutto un chitarrista. Mi piacciono le cose semplici, dirette… non amo i bridge, mi confondono (ride). Mi piacciono le canzoni che un bambino di quattro anni potrebbe capire. In fondo nella mia testa io ho tipo undici anni. Se mi piace quello che suono, allora funziona.
Tanti musicisti pensano a cosa potrebbe piacere al pubblico, a cosa potrebbe avere “successo”.
Sono in tour sei mesi all’anno: le canzoni che faccio le devo suonare centinaia di volte. Se non mi piacessero, questo sarebbe il lavoro più orribile del mondo. Senza contare gli spostamenti. Stare in tour così tanto è molto faticoso tra treni, alberghi, navi, traghetti, ma se ti piace quello che suoni, ogni sforzo è ripagato quando sei sul palco e suoni quello che ami.
Preferisci la dimensione live o lo studio?
Amo suonare la chitarra dal vivo più di quanto ami registrare. Ecco perché tra un mio disco e un altro possono passare anche cinque anni, perché sto un sacco in tour. Mi sono fermato sei mesi giusto per registrare due dischi nuovi. Viviamo in un’epoca di grande libertà in questo senso: non c’è più bisogno di etichette discografiche, di MTV, di airplay, ognuno può essere l’etichetta di se stesso e fare dischi. Ovviamente bisogna suonare molto dal vivo, per fare in modo che la gente ti conosca. Poi ti fermi e quando ti va fai uscire un CD o un vinile.
Dove registri? A casa?
Sì. Ho un capanno degli attrezzi nel retro di casa mia. Ho anche dei vicini, ma per fortuna passano la maggior parte del loro tempo a fare lavori in casa. Quindi appena sento dei colpi di martello corro a registrare nel capanno: non si possono certo lamentare se fanno lo stesso casino che faccio io, giusto? Inevitabile poi che qualche loro martellata finisca nella traccia registrata.
Girano un sacco di storie su Bob Log III. Per esempio il fatto che per un certo periodo hai vissuto in macchina…
Beh, quando sono in tour è davvero così: mediamente dormo sei ore e ne guido otto: passo più tempo in macchina che in qualsiasi altro posto. Se dovessi trovarmi un’altra occupazione da un giorno all’altro credo sarebbe al volante di un’auto. In realtà ho due case, dove vivo quando non sono in giro a suonare. Ma per metà anno sono un homeless (ride).
Su di te gira una leggenda metropolitana: per colpa di un incidente suonavi con una zampa di scimmia al posto della mano. La creazione di miti e leggende fa parte del processo?
Certo. Parlare di musica, come di pittura, è impossibile: il linguaggio verbale non può tradurre efficacemente le note. Puoi dire che i dischi di tizio somigliano a quelli di caio, ma non è mai davvero così. Invece, descrivermi come un bluesman solitario e misterioso con un casco e una cornetta del telefono o raccontare storielle divertenti è qualcosa che la gente può capire. Il lavoro grosso però lo fa sempre la musica. Se suonassi roba schifosa non starei in giro tanto a lungo. Una volta vidi Johnny Cash dal vivo: suonava canzoni tirate e ballate, e tra un brano e l’altro raccontava storielle divertenti. Cash era un intrattenitore fantastico: la gente si sbellicava. Poi partiva la musica e boom! Era ancora più bella.
Parlando di live, hai fatto migliaia di concerti. Anche qui in Italia ci sono un sacco di band più o meno giovani che macinano un sacco di date: quali sono i tre consigli che daresti a chi vuole suonare tanto dal vivo?
Primo: accogli il caos. Se qualcosa va male, se c’è un imprevisto, usalo! Avevo 16 anni e ho visto una band di cui non voglio fare il nome… Ok, erano i Nine Inch Nails (risate diffuse). Erano gli headliner di un megafestival. Salgono e hanno subito problemi coi loro sampler e invece di suonare le chitarre e le batterie se la filano. Il pubblico urlava: “tornate fuori, fighette!”.
Secondo: arriva in anticipo al luogo del concerto. È importante essere preparati: accordare le chitarre, controllare l’attrezzatura, prendersi il tempo per rilassarsi.
Terzo: sembra banale ma è molto utile essere sobri. Se ti ubriachi tutte le sere difficilmente suonerai alla grande. La gente vuole vederti suonare, non bere e vomitare. Me l’hanno insegnato i Cramps.
I Cramps ti hanno insegnato a essere sobrio?
Sì, quando ci ho fatto un tour insieme, nel 1995, bevevano solo tè, non guardavano tv e non mangiavano carne. Erano super salutisti.
Suoni in tutto il mondo, ma la tua musica è di matrice squisitamente americana. Secondo te il blues è un linguaggio universale?
Da ragazzini tutti sapevamo cos’erano gli AC/DC, giusto? Sia in America che in Italia, che in Giappone… Cos’erano? Erano un guitar party! Certo, ci sono anche i testi, ma sinceramente, a chi interessano i testi degli AC/DC? Stessa cosa con i Rolling Stones: sono eterni perché sono un guitar party. Anche i Led Zeppelin… Le parole contano, ma mai quanto le chitarre. Nel mio caso è lo stesso: le chitarre nel mondo le capiscono tutti.
Tranne i sordi…
Anche loro! Ho suonato in Inghilterra in un istituto per bambini audiolesi e ti garantisco che quando picchiavo sulla grancassa col piede e attaccavo un accordo facevano headbanging.
Questo ci porta alla prossima domanda: quali sono i posti più strani dove hai suonato?
Ce ne sono tantissimi: ho suonato in una specie di festa messicana con un rodeo, in una crociera per single in Finlandia, su un rimorchio trainato da un camion tipo carro a una parata in Francia… Ho suonato in un sacco di situazioni assurde, principalmente perché sono una one-man-band e sono agile. Ho suonato su un treno, a una festa di compleanno per un bambino di cinque anni… Più la situazione è strana, più gente nuova ha la possibilità di sentirmi. Come quella volta che aprii per i Franz Ferdinand o Ani di Franco.
La cosa più assurda che è successa a un tuo show?
Quando succede un casino allora so che il mio show ha raggiunto lo scopo, e prima dell’era dei cellulari la gente faceva cose assurde ai miei concerti. Oggi però se una resta in topless a un mio concerto si ritroverà la foto sul desktop del suo computer aziendale il giorno dopo. Qualche anno fa stavo suonando in Belgio, questa ragazza sale sul palco, si volta in modo teatrale, si slaccia il reggiseno e, ve lo giuro, ha tre tette! Mi chiede “quale vuoi nel tuo whiskey?”; io ovviamente ho risposto: quella di mezzo!
Tre tette? Come la marziana mutante di Atto di Forza?
Infatti, ho scoperto dopo, la ragazza era proprio quella del film con Schwarzenegger e indossava la tetta finta come nel film. A me però piace pensare che fosse vera…
Ti è mai capitato, vista la maschera, di essere scambiato per qualcun altro?
Sì e ogni volta non mi sono mai spiegato il perché: qualcuno ha detto che ero Beck travestito, poi quando sono esplosi i White Stripes pensavano fossi Jack White e questa cosa mi ha fatto un po’ incazzare (ride); poi siccome Tom Waits aveva detto delle cose carine su di me pensavano che fossi Tom Waits. Nessuno riesce ad accettare il fatto che sono semplicemente uno che vuole suonare la chitarra in giro per il mondo.
Ultima domanda: sei il terzo Bob Log, ma che ne è stato degli altri due?
Sono vivi e suonano anche loro. Sono mio padre e mio nonno.