Si poteva capire già dal titolo self-inflicted: il Cosmo tende alla vastità. Ma il cosmo è anche un sistema in costante ricerca di ordine e armonia e così appare questo momento nella vita e nella produzione artistica di Marco Jacopo Bianchi, insieme star e antistar dell’alt-pop elettronico italiano, un tipo che sembra conoscere sempre un po’ in anticipo le regole del gioco, addirittura troppo, rischiando a volte di finire per essere l’unico giocatore al tavolo.
Il quinto album solista di Cosmo, Sulle ali del cavallo bianco, segue La terza estate dell’amore, disco godibilissimo ma di scarsa simmetria pop, è una prova di maggior intelligibilità in quanto a forma, comprensione, temi. È un disco di canzoni, con il solito peregrinare di generi e abbondanza di gusto, ma con un centro tematico ben a fuoco. È il disco più intimista del cantautore di Ivrea, una volta si sarebbe detto “il disco della maturità”, per alcuni il terzo romanzo, quello dove si fanno i conti con se stessi, la propria vita e i grandi temi.
Esce in concomitanza con un documentario formidabile, probabilmente il migliore tra le agiografie dei cantanti nostrani, Antipop di Jacopo Farina, che va visto proprio perché in grado di ridurre all’osso la componente auto-celebrativa raccontando una vicenda umana e artistica diversa, varia e piena di seconde e terze linee narrative. Un percorso davvero unico che rispecchia e spiega moltissimo di quel che ascoltiamo quando approcciamo un disco di Cosmo. Il significato di fare musica, il successo, il fallimento, le responsabilità, il divertimento, la sperimentazione, lo scarto dalla via maestra. Tutti temi che si ritrovano pienamente in Sulle ali del cavallo bianco, scritto insieme a un altro alfiere di quell’elettronica che vuole essere compresa, Alessio Natalizia, in arte Not Waving.
«Ho sempre visto Alessio musicalmente 10 metri più avanti di me, provo una sincera ammirazione per lui. Insieme abbiamo prodotto La verità, a fine 2022, e ho detto cazzo, proviamo a lavorare insieme in modo più profondo. In quel momento lì non mi sentivo più tanto sicuro di fare le cose da solo, perché avevo paura di aver esaurito la vena. Perché sai, una volta uscito dalla band (i Drink to Me, ndr), fare le cose da solo è stato un sogno, l’idea di poter fare un po’ tutto. E poi passano gli anni e magari l’ispirazione se ne va, si può perdere in originalità. E c’è anche meno sicurezza di dire qualcosa di nuovo. Io volevo ritornare su un discorso armonico un po’ più sviluppato, perché l’ultimo è stato un disco di uno o due accordi, e mi sono detto, dai, mi fido, proviamo, facciamolo».
«Alla fine è stato un processo abbastanza rapido, abbiamo fatto tutto in nove mesi. Prima session a febbraio, master del disco chiuso a novembre del 2023. Quindi nove mesi sì, ma vedendoci tre giorni al mese. Lui vive a Londra e veniva da me in studio a Ivrea in questa casa che ho preso durante la pandemia con la Dora che scorre subito sotto. Uno studio fatto bene, con tutti i synth attaccati, tutto collegato, sincronizzato. E quindi abbiamo lavorato molto bene, session divertenti a livello creativo e ricreativo. Alessio mi ha spinto a fare una roba più italiana, magari mettendoci i suoni della trance o della acid, ma più italiana, mi ha convinto a usare le chitarre, a fare cose più pop, ha portato una sorta di concretezza maggiore e mi ha aiutato anche a togliermi dei dubbi. Non ci siamo dati limiti capito? E infatti credo si percepisca. Oh, cazzo».
Si sente un bel mix di generi: c’è il cantautorato, c’è la jungle, ci sono i suoni della trance e della acid, c’è un po’ di tutto, quindi in effetti sembra sia stato un disco divertente da creare. Ma il riflesso di questa composizione ampia è più figlio di un semplice gusto estetico e di una serie di considerazioni sul suono anche in relazione alla sua fruibilità o di uno stato d’animo e del momento che stai vivendo?
Tutto questo insieme. Sicuramente è stato un anno pazzesco. È stato un anno strano per me, tra viaggi psichedelici e sentimentali, sono stato, come dico anche nel primo pezzo del disco, in una zona di confine. Ho capito che vivo in una zona di confine tra l’aldilà e l’aldiquà, e se vado in contatto con cose che stanno di là, posso anche fare da tramite e portarle di qua. Poi è tutto un immaginario certo, ma mi piaceva immaginarmi così. E anche a livello di produzione quello che ci siamo detti era di partire da una sorta di utopismo di base, cioè provare a fare un pop che ancora nessuno avesse fatto in Italia. Il cantautorato con i synth della trance sotto, che ne so, tentare dei clash con puro approccio sperimentale e poi guardarci in faccia e dire: «Ma che cazzo è sta roba? Assurdo no?». Insomma, inseguire e cercare la sorpresa in noi stessi per primi senza stare lì a scimmiottare, capito? Non volevamo lavorare cercando di somigliare a qualcosa che funzionasse all’estero in questo momento. E poi abbiamo anche cercato di fare una cosa che provasse a collegarsi di più alla tradizione. Quindi c’è anche la melodia vocale, la ballad, quell’approccio un po’ alla Luca Carboni ma con dei suoni più alieni diciamo. Ecco quello che ci dicevamo: facciamo del pop assolutamente immediato, facile, ma che sembri fatto dagli alieni, no? Bello.
Dal punto di vista delle tematiche, dei testi, mi pare di capire che il cuore dell’album siano una serie di riflessioni intime su te stesso e la tua vita. Temi che fanno addirittura parte se vuoi della tradizione del romanzo borghese, il disequilibrio tra singolo e società, la verità e le sue conseguenze, la fiducia, l’amore, la coppia.
Sì, non mi va di parlare di queste tematiche così in chiaro ma è stato un anno tosto, di riscoperta e di rifondazione di certe cose. Anche il rapporto di coppia è stato un’esplorazione molto intensa. Nello scorso disco mi ero buttato completamente su una dimensione politica, collettiva, mentre a sto giro ho ripiegato sicuramente verso l’interiorità, anche verso la psichiatria se vuoi, l’altrove assoluto, quindi questo cavallo bianco è un po’ anche il simbolo di questo traghettarsi tra i due mondi. Però sì, è stato un viaggio interiore, senza dubbio.
In questo gli psichedelici hanno avuto un ruolo immagino.
Ho avuto esperienze molto forti durante l’anno che mi sono servite parecchio. Hanno aperto un po’ di chakra, hanno spalancato delle visioni. Ovviamente è una materia delicata, non è una passeggiata. È più un percorso spirituale.
Quindi, per utilizzare una vecchia espressione, stai vivendo una specie di riflusso nel privato ma psichedelico.
Sì, ma sento che è ancora in atto, è un percorso. C’è stato un ripiegamento su di me in quanto individuo ma non in senso individualistico, direi più una ricerca psicologica mia. Però, appunto, è tutto ancora in corso e sono sempre frenato perché mi sembra di accollare agli altri i miei pensieri, le mie elucubrazioni. Cioè di stare lì a lamentarmi davanti a un ascoltatore, non ho voglia, no? E quindi cerco di estetizzare quello che può essere un momento difficile, rendendolo un’esperienza magari comprensibile anche da altri. Non so se ci sono riuscito perché, appunto, non ho ancora il confronto col pubblico, però sono molto curioso di capire come reagirà.
A proposito del pubblico, nel tuo film c’è una sottotraccia potente che gira intorno all’idea di successo e fallimento, la sensazione di aver raggiunto l’apice, anche in termini di semplice popolarità, l’aver fatto il Forum in quel caso, e una specie di ineluttabilità del male intesa come destino di discesa.
Beh un po’ sembra così, no? Però non è detto che lo sia in realtà. Più che scendere, la domanda è che cosa succede dopo? Cioè una volta arrivato lì, cosa fai? Dovresti fare di più. Molti fanno così: «Ho fatto un palazzetto, farò un tour nei palazzetti». E dopo il tour nei palazzetti cosa fai? Te li tieni o magari fai uno stadio. Io dopo il Forum ho detto ok, l’ho fatto, adesso mi fermo, pausa.
Ok, ma in questa fase che rapporto hai con, chiamiamolo, il mainstream, il grande pubblico? Nel senso che il disco precedente chiaramente non poteva fare i numeri, immagino tu lo sapessi.
Sì certo, La terza estate se ne fotteva abbastanza, mettiamola in questi termini. Ma anche questo poi in realtà… Non ci penso particolarmente. Quando scrivo è la logica delle canzoni singole che mi interessa, non scrivo per produrre la hit. Parto da un’idea e lavoro intorno a quella. Non penso «faccio un singolone da paura per le radio». Seguo, chiamiamole così, le logiche interne della canzone, pur dandomi delle regole, dei limiti. Insieme ad Alessio ci siamo detti: «Ok tutto ma non facciamoci le seghe», pezzi troppo lunghi o certi suoni troppo difficili. Volevamo lavorare su una formula più breve. Poi vedi quello che hai in mano e dici, ok, chissà la gente che cosa penserà di questo. È lì che viene la domanda. Solo allora ci penso. Questo pezzo va bene, questo magari no. Ma poi quello che in realtà mi consola è pensare allo zoccolo duro di chi apprezza la mia musica, quelli che mi seguono e che mi stanno seguendo anche adesso, nel momento in cui il mio hype, diciamo, è forse vicino allo zero.
Ma non temi di perdere o di aver addirittura già perso dei pezzi importanti di pubblico?
Beh sì, c’è un timore artistico di perdere dei pezzi di pubblico. Penso però che sia anche abbastanza inevitabile. Chi si allontana è giusto che lo faccia, il nostro percorso insieme probabilmente si è esaurito. Ma quello che però posso dirti è che se guardo la media del mainstream italiano come produzione artistica ogni tanto mi scoraggio e mi dico: ma dove cazzo voglio andare con questa roba che faccio? Cioè forse sono proprio fuori dal tempo. Poi sai hai 42 anni, inizi a pensare: sono un po’ invecchiato per la media, tutti questi ragazzini di adesso che fanno delle robe strepitose in termini di numeri. Poi nei momenti di ottimismo invece mi ricordo che io non sto scrivendo per passare oggi in radio ma perché tra 50 anni voglio che chi ascolti la mia roba dica: «Ma che cazzo di musica faceva questo?». Capito? Io punto a quella roba lì, che è una roba da megalomani magari, e allora sarò megalomane. Quando fai delle cose diverse stai aprendo delle possibilità anche per altre persone, per chi viene dopo. Cioè quello che voglio comunicare a tutti è che si può fare anche in un altro modo. Però adesso devo dire che anche a livello di colleghi da pochi ho sentito questa empatia, molti mi guardano come un alieno. Quando ho provato a chiedere dei featuring è sempre andata abbastanza male.
In che senso?
Nel senso che non mi si caga. Perché sono un materiale un po’ strano da maneggiare. Molti “no” però li ho detti anche io, a dire il vero. Ma comunque non essendo un hit-maker ne ho anche ricevuti. Comunque non so davvero cosa aspettarmi da questo disco se non che a chi mi seguirà garantisco un viaggio diverso dalla Terza estate. Tanto, bene o male il pubblico ha capito che faccio un po’ il cazzo che voglio. E credo apprezzino proprio questo. Ma io non posso inseguirlo il pubblico. Cioè, se insegui il pubblico sei fottuto. Diventa moda. E devi fare Sanremo, devi fare i pezzi fatti in un certo modo. Non è roba per me.
Però collegato al tema del pubblico c’è quello della sussistenza economica degli artisti. Con tutte le polemiche che stanno mano a mano accerchiando le piattaforme di streaming, fare i numeri da un lato diventa fondamentale per poter mantenere una certa libertà artistica e non rischiare l’estinzione. Non è una condizione che vivi o potresti vivere anche tu?
A parte che ormai mi incazzo se sento qualcuno che mi dice cha ha Spotify craccato. Cioè dai ragazzi, ma siamo a questi livelli? Neanche 10 euro al mese per tutta la musica che vuoi? Questo non lo sopporto più, preferivo il download illegale perché almeno dovevi sbatterti, cercare la roba. Cioè parliamo di queste cifre e tu ancora non paghi? Siamo fuori di testa. Non lo so, penso che probabilmente ci vorrà un’altra rivoluzione, bisognerà fare delle robe tipo OnlyFans per musicisti, degli abbonamenti, non lo so davvero.
Ma tu che i grandi numeri li hai avuti, bastano a campare?
Diciamo che se non integri con i live o con i brand come fanno alcuni, fai molta fatica. Io attività con i brand ne faccio sempre meno possibile e solo se c’è un risvolto artistico reale.
Ma a questo modello economico-retributivo che appare sempre più iniquo e contrario allo spirito dell’arte per come dovrebbe essere non c’è collegato il rischio che sempre più cantanti oltre a doversi omologare di fatto finiscano in burnout quando smettono di fare i numeri o non li raggiungono direttamente?
Io l’ho avuto un periodo così, poco prima del Forum. Facevo un disco un disco all’anno e il tour relativo, con mille date. Per L’ultima festa abbiamo fatto 90 date in 11 mesi, poi il tour di Cosmotronic, il primo veramente grosso e con i sold out, alla fine sono arrivato che non ne avevo proprio più.
Beh ma questo è diverso, è un burnout frutto di un’attività definiamola positiva. Di risultati ottenuti. Io parlo dell’esatto opposto.
Eh beh allora devo essere un po’ spietato: se sei abituato a numeri enormi e poi non li fai più e nel momento in cui ti mancano vai in crisi, mi dispiace per te ma è lì che comincia la vita vera. E questi invece vanno ko e si fermano. Cioè devi sapere perché fai questo lavoro. Non si fa musica per fare i numeri. Non devi farlo per quello. Se lo capisci magari impari qualcosa. E se vai in burnout, bene, vuol dire che sta entrando un nuovo messaggio dentro di te. Per esempio che questa logica fa schifo e devi uscirne. Prima lo impari e meglio è. Cioè io non so perché questa gente faccia musica. Se la fai solo per il successo è meglio che smetti. Non è che voglia infierire su questi artisti, però ecco forse è meglio che guardiate da un’altra parte quando scrivete. Anche perché nessuno può fare i numeri per sempre e a noi ci tocca ascoltare il 90% delle produzioni mainstream omologate, con una puzza di piaggeria, di paraculaggine insopportabili. Quando senti le canzoni pop italiane, senti la ricerca di fare il compitino per riuscire a piacere a tutti. Ed è tremendo, proprio. La discografia ormai è una catena di montaggio, è pazzesco.
Forse c’entra anche il fatto che non esistano praticamente più posti dove suonare e ascoltare la musica live e se l’orizzonte è solo il numerino sulla piattaforma poi in fondo non riesci a capire molto di quello che significa davvero fare musica.
Certo. Infatti, con Ivreatronic stiamo provando ad aprire il nostro club, il nostro circolo. Ci sto lavorando da due o tre anni e sarà figo perché vogliamo fare una roba con una direzione artistica nostra, un luogo dove fare quello che ci piace. Oggi per i ragazzini non c’è nulla, solo somministrazione, ragazzi di 20 anni che si ubriacano in posti in cui non c’è manco la musica tra un po’. È una roba tremenda. Bisogna che ci svegliamo un po’ tutti.
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Foto: Matteo Strocchia e Marco Servina
Styling/art direction: Thais Montessori Brandao
Styling assistant: Virginia Bettoni
MUA: Serena Congiu
Looks: MorphineOnline, HG / LF, Dem