In modo semplice. Così sembra far le cose Daniele Silvestri. I testi del nuovo disco li ha appuntati sul telefonino, e c’è oggi una via più veloce e semplice? La musica ha deciso che era meglio suonarla in lunghe jam tra amici, semplicemente. Allo stesso modo si presenta la mattina dell’intervista, stropicciato, disponibile, entusiasta del suo lavoro. Già per uno che da anni è abituato a surfare in equilibrio sulle onde del pop in Italia, chiamare un disco Acrobati è qualcosa di più che un gioco.
C’è una grande naturalezza nella tua scrittura di oggi.
Acrobati è nato con musicisti nuovi nel corso di tre giorni passati in Puglia. Non avevamo nulla di pronto e invece ce ne siamo tornati a casa con 28 tracce. Volevo che il parto fosse collettivo. Non ci conoscevamo, eravamo vergini l’uno per l’altro. La terza registrazione era sempre quella buona. È quel momento speciale in cui le canzoni sono giuste, perché non sono troppo ragionate. I musicisti erano in una fase di pura creatività, carichi di follia e di una grande sapienza, che deriva dal loro lungo percorso.
Se c’è sempre un legame con la politica nella tua musica, ora lo vedo nelle storie che racconti.
Ho raccontato tante volte l’attualità, quasi con senso del dovere. Ultimamente, invece, sono tornato all’essenza: raccontare storie.
Mi riferisco soprattutto a un pezzo come A dispetto dei pronostici.
È la vicenda di un carabiniere di vent’anni, che scopre di colpo di che pasta è fatto il mondo. È una storia che può suonare molto contemporanea, ma è ambientata nell’Italia prefascista. Le storie sono più forti quando non s’ispirano alla polemica di ieri. Poi sei tu che ci scopri un legame con il tuo tempo.
Monolocale è un pezzo alla Jannacci, o alla Lucio Dalla (a cui il disco è dedicato, ndr) di un determinato periodo…
Ho chiesto alla band d’immaginare una specie di Gaber che canta con i Doors. Come Jannacci, aveva una grande capacità di raccontare le vite, con nome e cognome. Finivano per sembrarti più vere di una cosa letta sul giornale. La storia inizia in modo cinematografico, con un fermo immagine, e poi continua con un flashback di pensieri e sensazioni.
Alle tue nuove canzoni d’amore, come Pochi giorni, manca lo spleen, sembra che in tutte ci sia molta ironia. Il che è una cosa bella…
Ho lavorato su embrioni di testo, su due parti armoniche che si rincorrono. Scrivendo a posteriori, non ho dovuto creare una base a partire dal testo, ma, al contrario, costruire il testo a partire da un flusso preesistente. Ecco la leggerezza. Per me è un modo nuovo di scrivere.
Elio Germano, Zerocalcare, tu, qualche rapper come Colle Der Fomento o Gemitaiz: Roma è un territorio dove è ancora possibile essere di sinistra. Da altre parti sembra che un vento anti-ideologico abbia spazzato tutto.
In questa cosa forse siamo un po’ vecchi, anche se te lo dico con orgoglio. Nel mondo degli attori/autori, c’è stata un po’ questa tendenza a dover essere di sinistra. In modo corporativo, insieme al numero Enpals. Poi, però, c’è chi è rimasto davvero di sinistra, per estrazione sociale o per passione sincera, come Mastandrea o Germano.
Contessa e Calcutta, due della nuova scena romana, invece sono più anti-ideologici, o meglio post-ideologici.
È normale che sia così. Del resto, anche l’hip hop ha vissuto una certa involuzione, allontanandosi dall’impegno.
In Acrobati torna spesso, a cominciare dal primo pezzo La mia casa, un tema anni ’90 come quello del viaggio, del musicista globetrotter. Oggi molti cantautori si sono chiusi nella loro cameretta.
Anche se non racconta nulla dell’attualità, credo che questo sia un disco politico. Mentre scrivevo, intorno a me succedevano cose. Prima Parigi, poi Istanbul, una città dove ho lasciato un pezzetto di me. Io ho cercato di raccontare in modo infantile, innamorato.