Daniel (Kessler) degli Interpol si fa trovare con la divisa d’ordinanza: completo nero e camicia nera, fa un caldo bestiale ma è una questione che sembra aver risolto da tempo e per sempre. La sensazione che ho, quando mi siedo di fronte a lui per l’intervista, è che sia difficile sfondare i confini di un’identità così definita, nel bene e nel male. La riconoscibilità che gli Interpol si sono costruiti fin dagli esordi e che li ha portati a diventare una delle band più rilevanti degli ultimi vent’anni rischia di assomigliare a un limite. Il nuovo album Marauder è chiaramente un album degli Interpol, è un buon disco con un singolo, The Rover, che vi entrerà in circolo al primo ascolto, ma ha veramente poco di spiazzante.
Daniel parla di un «album più ruvido, più diretto e allo stesso tempo più profondo. Siamo migliorati molto come musicisti, questo significa arrivare a una forma di verità sempre più vicina a noi stessi». Di nuovo, una rivendicazione identitaria. «In realtà funziona come per una statua», mi spiega. «Ci può essere un modo istintivo nell’abbozzare una forma, ma la vera forma è quella che scoprirai alla fine, dopo aver scolpito, cesellato, levigato. E non è artificiale, è la forma che cercavi».
Molte band oggi si affidando alla tecnologia per arrivare a quella forma nascosta, gli Interpol mantengono la vocazione degli inizi e ci tengono ancora a vedersi e provare insieme. «Non siamo una band concettuale. Non sappiamo cosa aspettarci da un album in anticipo. Né lasciamo le cose in sospeso pensando di sistemarle dopo. Non è una critica verso chi lavora in questa maniera, noi però abbiamo ancora bisogno di quella dimensione live e fisica per fare musica». Per Marauder gli Interpol hanno lavorato con Dave Fridmann, già produttore di Flaming Lips, MGMT e Mogwai. Era dai tempi di Our Love to Admire che non avevano a che fare con un produttore, ma anche qui si è trattato di catturare «quell’energia live, quell’alchimia possibile solo in sala prove, e poi dargli una direzione inaspettata». Han- no scelto Città del Messico per lanciare il disco, perché «abbiamo un rapporto molto stretto con il Messico, ci sono i nostri fan più appassionati, era un atto d’amore nei loro confronti».
Quando gli chiedo se sia anche una scelta politica in tempi di trumpismo ci tiene ai suoi distinguo: «Noi non siamo una band politica, per quanto personalmente mi senta un animale politico, ma manifestare un amore e una devozione verso un Paese come il Messico rappresenta di per sé qualcosa, è mostrare che esistono altre culture, altri modi di vivere, semplicemente altre possibilità». A quanto pare, venire a contatto con queste “altre possibilità” è anche una forma di decolonizzazione individuale, nonché uno stimolo creativo per Daniel. «Quando sono in tour difficilmente scrivo musica, ma viaggiare, incontrare altre persone, forme assurde di bellezza, vedere una mostra, un paesaggio, sentire, imparare altre lingue, tutto questo agisce a livello inconscio, ti forma e soprattutto ti trasforma come per- sona. Ti fa evolvere. O almeno lo spero… poi magari la gente pensa che sono lo stesso di sempre!».
A giudicare dall’implacabile look potrebbe venire il dubbio, ma forse la vera sfida trasformativa è immergersi nell’esotismo globale senza rinunciare mai al total black. Comunque l’ispirazione principale per scrivere musica non gli arriva dal mondo, ma dal cine- ma: «Quando mi metto a suonare ho bisogno di vedere un film, mi serve da atmosfera». Non sono riuscita a tirargli fuori granché in termini di nomi («Antonioni… Bergman», «Ok, qualcuno di vivo?», «Aha! non sono preparato sui vivi!»), ma ho scoperto che è un grande fan di Gomorra. «Quindi ti piace Garrone?». «Chi è?». Intendeva la serie.