La call con Andrew Dominik mi attende nel tardo pomeriggio, al termine di una tipica giornata di merda. Di quelle che ti fanno sentire oppresso, che rendono la vita senza senso, per giunta una di quelle giornate in cui il caldo stabilisce qualche nuovo record inimmaginabile e l’apocalisse arriva alle porte della città. Avrei bisogno di una doccia, di una seduta di meditazione, ma non c’è tempo. Non c’è mai tempo.
Andrew Dominik è un regista che ammiro e che mi incute timore, vorrei chiedergli un sacco di cose, dimostrargli la mia stima, vorrei parlargli di quanto abbia amato profondamente alcune scene de L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, vorrei farmi spiegare mezza trama di Mindhunter, vorrei chiedergli del suo film in arrivo basato sulle memorie di Marilyn Monroe in lavorazione da più di dieci anni. Ma non c’è tempo. Siamo qui per parlare di This Much I Know to Be True, il suo secondo documentario su Nick Cave dopo One More Time with Feeling, presentato alla 72esima edizione della Berlinale, poi in sala la scorsa primavera e oggi in arrivo su Mubi Italia dall’8 luglio.
Incespichiamo in convenevoli su quanto Roma sia una città magnifica – annuisco mentre osservo le colonne di fumo degli incendi che mi circondano – e su quanto sia un delirio Los Angeles. Poi succede quello che non succede sempre, parte una conversazione che restituisce senso alla mia giornata. Sarà incentrata inevitabilmente sulla figura di Nick Cave, di cui Dominik parla come un amico fraterno, senza mai anteporre il proprio ego, mostrandomi un’umanità e uno sguardo sulle cose che mi ha commosso. Questo è quello che ci siamo detti.
Andrew, sarò onesto, posso farti un sacco di domande ma la verità è che vorrei ascoltarti per ore mentre racconti tutto quello che non si vede in This Much I Know to Be True, le conversazioni, i backstage, le telefonate, gli imprevisti, so che è impossibile, ma vorrei rubarti un pezzetto delle sensazioni che non si possono provare limitandosi a guardare il film.
Non c’è molto devo dire, lo abbiamo dovuto fare molto rapidamente. C’era questa urgenza di fare il film, credo che questo si percepisca guardando. È stato molto divertente, fondamentalmente eravamo circondati tutto il tempo dalla musica, eravamo tutti lì per quello.
Ti aspettavi che Warren Ellis fosse così a proprio agio difronte a una telecamera? Io francamente no.
Waz si sente molto più a suo agio di Nick di fronte a una telecamera! Semplicemente perché quando la musica procede lui non si preoccupa di nient’altro e si dimentica di tutto il resto. È una persona misteriosa, davvero straordinaria.
Quali altri film o documentari hai guardato per prepararti a un lavoro del genere? Mi riferisco a entrambi i documentari, che considero un lavoro unico nel complesso.
Per One More Time with Feeling ho rivisto con attenzione Don’t Look Back e Cracked Actor, che è il mio preferito nel suo genere. L’idea era comunque quella di entrare nelle situazioni e cercare di capire cosa stava succedendo, senza cercare di imporre un’idea sul contesto, cercavamo la realtà. Per This Much I Know to Be Truth invece volevo girare senza riferimenti, ci siamo concentrati molto sulla musica e sul come farla rendere al meglio.
È stato faticoso, ci sono stati dei momenti in cui ti sei pentito o l’hai considerato un lavoro impossibile? Soprattutto One More Time with Feeling, che è stato girato praticamente a ridosso della tragica scomparsa di Arthur, il figlio di Nick.
Diciamo che in One More Time with Feeling non ero molto in intimità con Nick, cioè sì eravamo amici ma non abbastanza e lui in quel momento stava provando delle sensazioni inimmaginabili. Non sapevamo bene come comportarci per essere rispettosi e al tempo stesso rappresentare quel periodo in maniera onesta, non lo sapeva neanche lui. C’era molta confusione, non avevamo un vero e proprio piano, non eravamo nemmeno sicuri che fosse una buona idea fare un film in quel momento.
Quindi non c’era una sceneggiatura, una scaletta o qualcosa del genere?
Per One More Time with Feeling non proprio, no. Sapevo che il film avrebbe dovuto fare i conti con questa cosa e anche Nick lo sapeva, ma ciononostante non sapevamo bene cosa fare, è venuto fuori l’istinto, quello che doveva emergere è emerso. Il montaggio è stato incredibilmente divertente perché è stato lì che di fatto il film è stato scritto. This Much I Know to Be True da questo punto di vista invece ha molto più la struttura di un documentario, il significato profondo è quello di Nick che mostra come ha cercato di sopravvivere alla perdita di Arthur. Credo che ogni cosa che dica Nick in quel film abbia a che fare con questo. È evidente che in questi anni abbia imparato qualcosa su come arrivare a patti con il lutto e trovarci dell’umanità, persino della bellezza, per essere più connessi con il mondo, con le persone attorno ed essere coinvolti più profondamente con la nostra vita. In qualche modo il lutto ha iniettato in lui una forma di vita.
La stima con cui ne parli è davvero potente, si vede che è ricambiata dal modo in cui Nick Cave è sincero e concentrato nelle scene che intervallano la musica. Ho letto da qualche parte che il vostro primo incontro è stato molto interessante, ti va di raccontarcelo?
Ho incontrato Nick per la prima volta nel 1986 in Australia. Lui era già il principe delle tenebre e io invece ero un liceale in cerca di un po’ di eroina, condividevamo lo stesso spacciatore e per un periodo sono stato con una sua ex fidanzata a cui ogni tanto Nick telefonava a casa per parlarle, ne era ancora innamorato, a volte rispondevo io e ci perdevamo in chiacchiere. Ci siamo conosciuti così, ma come ti dicevo siamo diventati realmente amici molto tempo dopo.
La scena delle ceramiche, come è nata? Non so, lui ti ha detto «ah sì ci sarebbe questa cosa»? Oppure l’hai scoperto tu e gli hai chiesto di parlarne?
Ha iniziato a mostrarmele appena sono arrivato a casa sua e ho capito subito che dovevano comparire nel film, Nick si stava rivelando al mondo attraverso quelle sculture.
Ancora non ci credo che le abbia fatte davvero lui, sono bellissime, sembrano fatte da un professionista.
Nick è interessato alle ceramiche più di ogni altra cosa. Dovresti vederle ora che sono colorate. Credo che prima o poi saranno esposte da qualche parte, dovrebbe esserci qualcosa del genere in ballo nell’imminente futuro.