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Il mantra dei Goat

Una chiacchierata surreale con una delle band più misteriose in circolazione. Nessuno sa chi sono, ma tutti sanno cosa fanno: world music come nessun altro
Foto: Stampa

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«Non posso dirti il mio nome» è stata la risposta alla prima domanda in questa intervista telefonica, che quando si tratta di una band solitamente è: «Ciao, con chi parlo?» Ebbene, parlo con i Goat e, come spiegherà più sotto l’intervistato, non è necessario specificarne l’identità. Goat è un tutt’uno, un gruppo di ragazzi dell’estremo nord della Svezia—Korpilombolo, un villaggio che pare abbia alle spalle una storia di comunità voodoo, cosa che spiegherebbe le vistose maschere con cui si esibiscono—che di colpo si sono ritrovati in una stanza a suonare.

Il risultato è una world music tenuta insieme da una pasta psichedelica, fortemente in debito con i Jimi Hendrix Experience. L’ultimo album Requiem conferma questa doppia natura, per quanto sia chiaro che, col tempo, la sete di collezionare elementi etnici da un po’ ovunque stia rosicchiando terreno rispetto alla parte più classicamente rock.

Quindi non solo mettete maschere, ma non dite nemmeno i vostri nomi.
Siamo anonimi in tutto e per tutto. Lo saremo fino al giorno in cui moriremo.

Perché?
È una questione di libertà. Voglio essere libero da ogni attenzione. Ti basti sapere che suono il flauto.

Posso chiedere almeno dove ti trovi?
Sono a Göteborg, in Svezia. Però siamo tutti nati più a nord.

Ho letto qualcosa. C’è sicuramente un nesso fra la vostra musica e il vostro luogo di nascita, no?
È un posto dove la gente ha una mentalità aperta. Una comune composta da viaggiatori e costruita su idee di apertura totale verso l’arte, la musica, le religioni, le culture del mondo. Un posto bellissimo, molto a nord. Ci piace la neve.


Come mai allora vi siete trasferiti in città?
Molto presto tutta la comune si trasferirà, asfissiata dal troppo turismo. Però non diremo a nessuno dove ci trasferiamo. È chiaro che il mondo appartiene a tutti, e tutti hanno bisogno di viaggiare, di scoprirlo.

E voi avete deciso di farlo con addosso delle maschere.
Già, ognuno di noi si è scelto la sua. Alcuni hanno reinterpretato antiche tradizioni religiose, altri hanno semplicemente varcato la soglia del negozio di maschere dietro casa.

Sono vere tutte quelle storie sulla vostra comunità? Voglio dire, quelle di quando è arrivata la Chiesa a rovinare tutto.
Non esattamente, però la comune è molto antica. Ti parlo di almeno 200 anni. La gente che abita quella zona ha alle spalle molti viaggi, da cui ha assorbito tutto. Per molto tempo, alcune di queste influenze e abitudini da tutto il mondo non sono andate giù al governo svedese. Ora però le cose si sono sistemate, anche se c’è sempre il problema del turismo.

Come mai un nome tanto macabro per il nuovo album?
Requiem parla della fine e dell’inizio, della chiusura di cicli e dell’apertura di altri. Non si può mai sapere quale disco sarà l’ultimo. Sentiamo comunque di aver portato a compimento qualcosa, solo che ancora non sappiamo cosa.

Che lingua è quella nella traccia di apertura?
Quella se non sbaglio è tratta da una canzone di Oumou Sangaré, una cantante maliana che adoriamo. Ce ne sono tante altre, di lingue, nel disco. Non importa quali lingue siano, sono le parole che ci interessano. Quelle nella traccia di apertura sono bellissime, ti invito a leggere la traduzione quando hai tempo. Senza nulla togliere alla canzone originale, incantevole anche quella. Nel disco, così come in tutto ciò che facciamo, l’ispirazione è venuta da ogni espressione della civiltà umana. Questo perché non applichiamo distinzioni fra le culture: esistono più somiglianze che differenze, capisci? Puoi sentirti più affine a qualcosa al di là del muro rispetto al mattone che hai davanti al naso. Everything is our culture.

Io per esempio ci sento molta musica andina, tipo Perù.
Beh, se lo dici tu sono contento. È la tua personale interpretazione. Ho capito a cosa ti riferisci, parli dei flauti di Union Of Mind And Soul. Devi sapere che molto spesso il riff viene fuori così, e solo in un secondo momento dici: “Ah, sembra proprio musica andina!”

Immagino siate grandi collezionisti di dischi.
Abbiamo molti dischi, certo. Però non ce li andiamo a cercare, non puntiamo di certo alle prime edizioni o alle edizioni limitate che costano centinaia di euro. Se possibile preferiamo il formato fisico, ma se c’è qualcosa che ci piace lo si cerca su Internet oppure lo suoniamo per i fatti nostri.

Quanti siete? Ricordo che siete in tanti, ma foto stampa secondo me c’è anche qualche intruso.
Dal vivo siamo in sette, ma molto spesso ci ritroviamo a fare jam session con più di dieci persone. Ci sono molti individui che gravitano attorno al pianeta Goat. Ci siamo formati per caso, trovandoci tutti a Göteborg. Qui abbiamo affittato uno spazio e ci abbiamo messo dentro uno studio dove suonare e registrare. Quando il primo disco è uscito, la Rocket Recordings ci ha chiesto di esibirci anche dal vivo. Alcuni di noi hanno scelto di andare in tour, altri no. Non è qualcosa che ci piace fare troppo spesso.

È un peccato, perché?
Se vuoi continuare a divertirti devi farlo poche volte. Non ha senso suonare una canzone 20 milioni di volte all’anno, un paio di volte vanno più che bene. A ottobre comunque facciamo un mini tour europeo, due settimane.

Passate per l’Italia?
No, mi spiace man. Non vogliamo stare lontano da casa per troppo tempo. Il grosso delle date, lo facciamo in UK perché abbiamo molti fan da quelle parti. Comunque in Italia ci siamo stati poco fa.

Eh, lo so, a Torino. Ma come mai il nome Goat? Che c’entra la capra?
La capra è l’animale sacrificale per eccellenza. La nostra comune, così come la vita in sé, fa parte di un immenso sacrificio collettivo. Per ottenere qualcosa devi sempre sacrificare qualcos’altro. Se non vuoi lavorare troppo devi sacrificare le spese. Se vuoi denaro devi sacrificarti a lavoro. Se vuoi una famiglia devi sacrificare la tua vita da playboy. Facendo parte della comune Goat sacrifichiamo una parte della nostra individualità.

E anche della vostra identità, mi pare.
Esattamente.

Perché la capra ha gli occhi a spirale e rossi? Quando avete suonato a Milano l’anno scorso ho comprato una di quelle splendide magliette.
Hai presente il logo dei Bathory, la band black metal? Ecco, abbiamo preso tutto da lì aggiungendo gli occhi a spirale. Quest’anno comunque la capra avrà gli occhiali da sole, non chiedermi perché.

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