Ci sono due cose che mi hanno colpito intervistando Samuel Herring, voce e leader dei Future Islands. La prima: Samuel è stata l’unica persona, in sei mesi di interviste online da coronavirus, ad aver acceso la videocamera su Zoom. La seconda: Samuel è stato l’unico caso della mia carriera in cui la casa discografica mi ha chiesto, di nascosto, in una chat privata, di cercare di fermare la parlantina dell’artista per non arrivare con troppo ritardo all’intervista successiva. Ecco, probabilmente con questi due episodi avete capito molto di Samuel Herring. L’occasione della nostra chiacchierata è l’uscita del nuovo disco dei Future Islands, As Long as You Are, in uscita questo venerdì.
Ciao Samuel, in questi mesi è successo di tutto. Come state vivendo questo momento storico?
Prima dell’esplosione della pandemia ero negli States per mixare il disco con la band. Quando hanno fermato tutto sono rimasto bloccato per quattro mesi lì, lontano dalla mia partner. Ora sono riuscito a tornare da lei in Svezia. Qui la vita è differente perché hanno scelto un altro modo di affrontare l’emergenza, senza ricorrere ai lockdown. Ora però devo tornare in America per fare le prove per il concerto online che faremo il giorno dell’uscita, il 9 ottobre. Quando ero a Baltimora abbiamo mixato il disco tramite Zoom perché non c’era l’opportunità per essere tutti nello stesso posto. Ora su Zoom passo le giornate a fare le interviste promozionali per l’uscita. Già solo questo ti fa capire quanto è cambiato il mondo di fare e promuovere musica ora. Non consideriamo nemmeno il mondo dei live, la nostra dimensione principale. Siamo una band che si è formata per strada e per anni siamo stati perennemente tour. Avevamo questo detto, «Keep the posters up in the city!». Sai, quando vai a suonare in una città e dopo qualche tempo che sei passato le tue locandine vengono rimpiazzate da altre? Ecco, noi non volevamo che accadesse e tornavamo a suonarci.
Non possiamo che rimanere calmi finché tutto non tornerà alla normalità. Per ora non mi resta che rimanere entusiasta di questo disco e sperare di tornare live il prima possibile. Questa situazione è un disagio che sta colpendo tutti, e di certo non sono una di quelle persone che prende i disastri globali come attacchi karmici personali.
Ho letto una tua dichiarazione che mi ha colpito. Racconti che parlando così spesso con la stampa ti sei ritrovato a scoprire nuovi significati all’interno dei vostri lavori. Volevo chiederti se ti era successo anche con questo disco.
Quando sei intento a scrivere, vuoi buttar fuori quello che provi. Spesso solo a posteriori capisci cosa significa davvero per te. In un’intervista di qualche giorno fa, ad esempio, ho realizzato come il tema principale di questo disco sia la fiducia e l’accettazione delle persone che amiamo per quello che sono. Accettare l’amore che le persone ci danno. A volte capita di buttar via cose belle che arrivano nella nostra vita solo perché sono troppo buone e a volte il troppo amore ci crea ansia perché non pensiamo di meritarcelo.
È molto interessante l’ambivalenza della tua scrittura. Con i Future Islands padroneggi la forma canzone pop-rock, mentre con il tuo progetto solista, Hemlock Ernst, sei un rapper purissimo. Come si influenzano questi differenti stili?
Ho iniziato da ragazzino scrivendo poesia e versi rap. Con i Future Islands, invece, mi sono trovato a lavorare sulla scrittura pop e rock. Mi interessava questo modo di lavorare condensando fiumi di parole in strutture più rigide. All’inizio ho pensato: è facile, non devo nemmeno scrivere pagine e pagine! Ma in realtà è pieno di insidie. Devi imparare a dare sostanza con poche parole, riuscire a dire tanto in uno spazio così piccolo. Quando sono tornato a scrivere rap per il mio disco solista ho scoperto quanto la scrittura pop avesse inciso nei nuovi testi. Ora so come dire qualcosa. Questi due universi sono due diversi lati dell’ego, di me stesso. Con i Future Islands la mia voce è quella del gruppo: devo farla uscire con la musica, costruendo un’emozione comune, ricordandomi che parlo a nome di più persone. Hemlock Ernst invece è molto più intimo e aggressivo, una versione cruda di me stesso. Posso dire quello che voglio perché non rappresento nessuno se non me. Non devo pensare quello che pensano le madri dei miei compagni di band, ma solo stare attento alla mia (ride).
E cosa hai imparato da questi due universi?
L’hip hop mi ha insegnato che puoi raccontare verità su te stesso. Puoi svelare le tue sensibilità, diventando più forte. Puoi parlare delle peggio cose della tua vita ed essere forte. Questo non mi rende qualcosa di meno, ma qualcosa di più. È ciò che ho imparato da piccolo: l’hip hop mi ha dato una voce. Con i Future Islands invece ho sviluppato la mia capacità di essere me stesso anche sopra al palco, mostrandomi per chi sono, nella fisicità della performance.
As Long as You Are è il vostro sesto lavoro in studio. Con questa esperienza sulle spalle, come avete approcciato questo disco?
I primi tre album li abbiamo scritti e registrati durante le brevi pause dei tour. Eravamo costantemente on the road, ancora troppo piccoli per fermarci a scrivere i dischi. Avevamo un obbligo, di sopravvivenza economica, di continuare a stare in giro. Venivamo pagati 50 dollari a concerto, non potevamo nemmeno dividerceli; li usavamo per la benzina, un pranzo, niente più. Ogni volta che non suonavamo, non prendevamo quei 50 dollari, quindi avevamo un pranzo in meno o meno benzina. Nei momenti di pausa, scrivevamo una canzone, la portavamo live e se funzionava rimaneva nella scaletta. Così è nato il nostro secondo disco: un gruppo di brani che avevamo già in tour da qualche tempo, registrato in un salotto a casa di amici. Veramente DIY.
Per i nostri primi tre dischi, dal 2008 al 2012, ha funzionato così. Nel 2012, invece, siamo riusciti a prenderci una pausa di sei, sette mesi per scrivere un disco, con un vero studio, e così è nato Singles del 2014. The Far Field è stato il primo disco scritto assieme da noi tre, uno di fronte all’altro. Ma eravamo davvero insoddisfatti del risultato, di come ci eravamo forzati su alcune idee, dei soldi spesi per stare sei mesi a Los Angeles in uno studio. Lì abbiamo capito che potevamo tornare agli esordi, scrivere e registrare a Baltimora come avevamo fatto fino a In Evening Air. Dieci anni dopo siamo tornati quindi a casa nostra, a Baltimora, con l’unica variante che da un salotto siamo passati ad uno studio. Ci siamo presi tutto il tempo necessario. As Long as You Are è costato un terzo di The Far Field e abbiamo potuto dedicarci il triplo del tempo. Ne è valsa la pena. Ci siamo ripresi in mano le responsabilità della nostra musica, senza nessun produttore che ci indicasse una via sonora. Eravamo stanchi di sentirci dire come avremmo dovuto suonare, questa volta volevamo decidere noi come suonare.
Per il giorno di uscita del disco, il 9 ottobre, avete previsto anche una performance live in diretta streaming. Come vi state preparando? Che sensazioni stai provando a riguardo?
Onestamente? Sono molto nervoso! Non ho mai fatto qualcosa del genere. Però è stimolante, non sono mai nervoso. Di solito sono sicuro di noi perché la nostra band funziona quando entra in contatto con il pubblico. Questa volta però non c’è pubblico e sarà più complicato. La gente produce energia che ti stimola e ti carica. Lotterò, spingerò e stimolerò me stesso a superare il limite del digitale. Sono nove mesi che non suoniamo assieme. È normale provare questa sana tensione. Ci divertiremo. Non abbiamo voluto fare nessun concerto durante la pandemia perché ci sembrava fosse un trend abusato. E nonostante il nostro pubblico ce lo chiedesse, abbiamo aspettato sperando di tornare in tour. Ma la situazione non si è risolta.
Sei preoccupato per il clima di insicurezza che circonda l’industria musicale?
Possiamo solo accettare questa situazione, non ci sono altre soluzioni per ora. Dobbiamo essere ottimisti, ma non dimenticandoci che tutto questo potrebbe durare ancora molto. Mi focalizzo su ciò che ho guadagnato: più tempo con la mia partner, più tempo per lavorare su di me e migliorarmi, più tempo per scrivere. D’altro canto noi guadagniamo da vivere andando in tour e questo è un colpo duro. Per fortuna siamo in ballo da così tanto tempo che, per ora, non è ancora un problema. L’unica cosa di cui sono sicuro è che un giorno torneremo a suonare dal vivo, fosse anche solo per un concerto. E questo pensiero mi fa star bene e andare avanti.