Se avete più di vent’anni e/o non frequentate i social, il nome Hoodie Allen non vi dirà nulla. Ancora per poco, probabilmente. Classe 1988, di buona famiglia ebrea, studente modello, dopo essersi laureato a pieni voti in economia ed essere stato assunto da Google – il sogno di ogni secchione, insomma – nel 2010 decide di licenziarsi per perseguire una carriera alternativa: quella del rapper.
Non ha un produttore famoso né una casa discografica alle spalle, ma con i social network ci sa fare parecchio. E sono proprio i suoi follower che, a forza di condividere i suoi mixtape, lo trasformano in una twitterstar capace di raggiungere la vetta delle classifiche americane da indipendente. Ne è passata di acqua sotto i ponti: oggi una casa discografica ce l’ha (la Atlantic, per la precisione) e si prepara a conquistare anche l’Italia con il suo primo album ufficiale, People keep talking.
A quanto pare è già a metà dell’opera, perché non fa neanche in tempo a scendere dall’aereo e a postare una foto di Milano che già i suoi fan italiani gli chiedono dove possono raggiungerlo. Lui, sempre cordiale, risponde che purtroppo non ha tempo, ed è vero: la sua sosta qui dura quattro ore in tutto. Poi si riparte verso un’altra città da conquistare.
Quando ti sei accorto che il tuo sogno stava diventando realtà?
Ancora non so se si sta avverando, ma ho cominciato a crederci un po’ di più quando sono arrivato al n°1 della classifica di iTunes: ero sotto shock, tutti mi scrivevano per congratularsi e io non sapevo cosa dire…
Cosa ti ha spinto a rinunciare a un lavoro sicuro e prestigioso per fare musica? E soprattutto, come lo hai spiegato ai tuoi?
All’inizio non doveva essere una scelta definitiva, il lavoro mi piaceva e nel tempo libero pubblicavo i miei mixtape. Ho deciso di prendermi un anno di pausa e provare con tutto me stesso a costruirmi una carriera nella musica perché avevo voglia di suonare in giro, e dovendo essere in ufficio tutte le mattine non avrei mai potuto farlo. I miei genitori in effetti erano un po’ nervosi all’idea, ma alla fine si sono fidati, e ora sono molto felici per me.
Devi la tua fama proprio al passaparola su Internet: avendo lavorato a Google, conosci qualche trucco del mestiere?
No! Probabilmente conosco meglio le tendenze di Internet e so parlare alla gente. Alcuni artisti non sono proprio capaci di gestire i loro social, per me invece non è mai stato un problema.
I miei fan mi capiscono
Restando in tema, sei molto legato ai tuoi fan, ribattezzati “the Hoodie Mob”: a loro racconti tutto di te. Il rovescio della medaglia è che sei sommerso da tweet di gente che ti dà la sua opinione o mette in discussione le tue scelte. Non ti stanchi mai?
Quando mi stanco posso sempre spegnere il telefono! Non lo faccio spesso perché non mi piace separare la mia vita privata dal resto, ma a volte – ad esempio quando sono in studio a registrare – so che devo evitare di twittare e concentrarmi su altro. E i miei fan lo capiscono: preferiscono avere una nuova canzone da ascoltare, piuttosto che un nuovo tweet da leggere.
Il tuo è un tipo di rap molto allegro e orecchiabile che ti accomuna un po’ ad artisti come Macklemore o Mac Miller, anche loro giovani, bianchi e istruiti. State cercando di creare un nuovo genere musicale?
In realtà credo che ciascuno di noi abbia uno stile molto personale, non facciamo tutti la stessa cosa. L’ispirazione per i miei dischi arriva dai primi album di Kanye West, con cui sono cresciuto: The college dropout e Late registrations erano qualcosa di completamente nuovo per l’epoca. La gente fa confusione tra me e Macklemore perché abbiamo molti fan in comune: ragazzi giovani, che hanno ancora voglia di andare ai concerti e scatenarsi sotto il palco. Alla nostra età, invece, quando vai ai concerti passi tutta la serata a braccia conserte in fondo al locale perché ti vergogni di ballare!