Die è un disco di cui si è molto parlato e che sembra avere lasciato un segno forte nella musica italiana: è ambizioso e ha un’identità potente, una rarità da queste parti. Ero quindi curioso di incontrare Jacopo Incani (in arte Iosonouncane) e, complice l’atmosfera hippy di un pomeriggio di birrette al Mi Ami festival, ho avuto la sensazione di parlare con un artista vero “come-non-ce-ne-sono-più”, uno cazzutissimo nel credere e difendere la sua musica e nello scegliere con una coerenza politica di seguire un percorso non convenzionale, al di là delle mode e delle scene.
Hai lavorato a questo album, Die, per quattro anni.
Ho cominciato a scrivere durante il vecchio tour. Erano brani più ambiziosi rispetto al primo disco, simili a quanto facevo con gli Adharma, il mio gruppo storico sciolto nel 2007: percussioni, batterie elettroniche, chitarre, synth, tastiere. Un progetto che richiedeva tempo e il sacrificio di molto materiale. Così mi sono preso il rischio di uscire quasi cinque anni dopo il primo album.
Facendo praticamente tutto da solo.
Sì, anche se ho coinvolto una quindicina di musicisti, a cui ho chiesto d’improvvisare su delle piccole sezioni mandate in loop. A parte Serena Locci, che ha cantato in tutti i brani, nessuno aveva un’idea precisa dei brani e del disco.
Tu ce l’avevi un’idea precisa del disco?
Assolutamente, nonostante la quantità di materiale accumulata. Certo, avevo così tante opzioni di arrangiamento – anche venti suoni diversi di synth per brano – che poi ho dovuto mantenere la calma per decidere cosa scartare. È stato provvidenziale Bruno Germano, il fonico, che ha coprodotto artisticamente l’album. L’idea iniziale di portare il disco in tour da solo era proprio per rivendicarne la paternità: “questo sono io”. Però ho sempre saputo che la fase compiuta del tour sarebbe stata con una band, come succede oggi.
Dove hai registrato?
Nella casa dove vivo con la mia compagna, a Bologna, in casa di mia nonna in Sardegna e dalle parti di mio zio, nel Sulcis. E poi – sempre in Sardegna – nel garage del padre di un mio amico, entrambi pescatori. Alcune voci le abbiamo registrate usando anche delle reti da pesca.
E il racconto epico che si snoda in Die arriva dalla Sardegna, giusto?
Me ne sono andato da lì nel 2002, a 19 anni. Ma è quella prima parte della vita ad avermi formato. Vengo da una famiglia di pescatori e minatori, quindi non ho dovuto inventare la storia che il disco racconta.
Ho visto la maglietta di Iosonouncane addosso sia a scrittori, che a gente che frequenta certi locali fichetti di Milano. Che idea ti sei fatto del tuo pubblico?
Non amo il concetto di “pubblico”, che è più una categoria di mercato. Mi seguono persone diverse e alcune di queste, spesso, non ascoltano molta musica italiana. È un fenomeno curioso, se penso che molti miei riferimenti sono innegabilmente italiani. Non ho la pretesa di definire chi mi ascolta, però credo una cosa: il mio progetto è diverso da tutti gli altri. Non è un fatto – la diversità – a cui penso mentre scrivo, ma a posteriori è qualcosa che mi fa piacere.
Riconoscersi in un certo tipo di musica un tempo aveva un significato politico. Oggi sembra ci sia un tipo di adesione più sentimentale.
Si, è una specie di selfie collettivo. La mia adesione politica invece c’è. Sono l’unico a far parte del mio partito.
Ovvero?
Non lo so, è il mio partito (ride)! Credo che il mio lavoro sia anche una forma di rivendicazione, come lo sono Lo straniero di Camus o Un anno sull’altipiano di Lussu.
Chi senti artisticamente vicino a te, in Italia?
Come band i Verdena. Tra i cantautori Colapesce, Fiori e Dino Fumaretto. Poco altro.
Non sembra che oggi si faccia differenza tra band e cantautori. A te interessa la distinzione?
Per niente, ma comprendo l’esigenza di semplificare ed etichettare. Il termine è carico di sottintesi morali, per esempio “cantautore” è chi ti dice le cose vere, giuste. Lo trovo del tutto reazionario. Per me De André, John Hopkins, Robert Wyatt e i Can convivono nello stesso spazio.
Die è stato spesso paragonato ad Anima Latina di Battisti…
Mah, un po’ mi fa girare i coglioni. Sembra che siano esistiti solo Anima Latina o Smile di Brian Wilson.
Ho visto un tuo concerto un anno fa a Roma, qualcosa nella tecnica non funzionava al meglio e sembravi nervoso. Tu sei uno incazzoso?
incani Non direi, però per me il palco è come il ring.
Mi sembri uno dei pochi autori per il quale la canzone non dev’essere per forza una radiografia di chi canta, una autofiction.
Un autore si distingue quando racconta qualcosa che non ha vissuto in prima persona. Non penso che l’autobiografismo sia un valore in sé. Tutto ciò che scrivo è autobiografico e non lo è al tempo stesso.
Cosa ti ha reso più felice ultimamente?
La vita in tour con gli altri musicisti, e il fatto che il pubblico abbia capito il disco. Sono felice di aver dimostrato che non sono solo uno che sbraita su delle basi di elettronica povera, ma un musicista e un autore che lavora sulle parole, più di tanti colleghi. Ma non ti dirò chi, non faccio polemiche.
Come sono andati i concerti casalinghi in Sardegna, dalle parti di Carbonia e Iglesias?
Lì tira molto l’hip hop, i concerti sono andati comunque bene. Fino a questo disco non mi conosceva nessuno, anche se sono di Buggerru, un paese vicino. Come l’album si è diffuso in tutta Italia, così si è diffuso in Sardegna. Certo, il fatto che io sia sardo magari ha offerto a un sardo una chiave di lettura più vivida.
Ti è successo di dire qualche no a proposte di radio e tv?
Io dico soprattutto no. La mia linea è radicale e genuina: non faccio ciò che mi mette in imbarazzo.
Snobismo?
No, amor proprio.
Hai visto la finale di Amici?
Non m’interessa, però guardo Un posto al sole. Sono attratto dalla sua terrificante bruttezza.
E di questa nuova scena italiana – Calcutta, I Cani, Cosmo, Tommaso Paradiso – che mi dici? C’è molto entusiasmo per loro, qui al Mi Ami.
È una brutta scena. Io non ho la pretesa di piacere a tutti quelli che suonano in Italia, così come sono libero di seguire o meno ciò che voglio. Ti sembro cattivo e stronzo?
Ma no!
Sono solo un po’ sardo e burbero.
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