Sono passati quattro anni dall’esordio sulle scene de Il Quadro di Troisi, progetto nato dall’unione di Eva Geist e Donato Dozzy, che dal club si sono ritrovati in studio a scrivere, vestendo il synth pop di un elegante abito italiano per farlo parlare di vita, aspettative e linguaggi della nostra epoca mischiando un’idea di passato, di tradizione e di “nuovo” tutt’assieme. È un insieme di tutte queste intenzioni e di queste questioni che danno vita a La commedia, uscito su 42 Records e la tedesca Raster-Noton, che già, a leggerle insieme così sullo stesso rigo, dà idea di quanto questo mix di volontà stilistiche possa sembrare il futuro discografico, se pensato bene. Eppure, è molto vicino al presente, dalla produzione (che no, non è club e non è radio, ma riesce a indossare un abito ibrido di entrambe) alla penna che scolpisce con pensieri mirati nei dieci brani, tra storie di profeti, alieni, buchi neri, mare. E l’idea di verità (come il titolo del singolo che anticipava l’album), che sarà tema molto centrale dell’intervista al trio. Trio sì, perché a questo punto tra Geist e Dozzy c’è da notificare l’ingresso in pianta stabile di Pietro Micioni, già collaboratore nel disco precedente e nelle esibizioni live.
Ma quindi come siamo arrivati qui? Cos’è successo durante questo silenzio? «La risposta dura quattro anni, nel senso che il processo creativo non si è mai fermato, diciamo. In questi anni non ci siamo solo chiusi in studio. Fuori c’è stata una guerra, c’è stato Donald Trump, poi un’altra guerra, poi un’altra crisi economica. Nel frattempo tra di noi c’è stato un allontanamento, come una lenta esplosione che è diventata un’implosione. Una ridefinizione del progetto con una parabola che io penso sia stata molto romantica», risponde Eva Geist.
Le dinamiche interne alla band hanno subito cambiamenti significativi nel passato recente: tra distanze emotive, carriere da solisti e riavvicinamenti, i membri de Il Quadro hanno attraversato un percorso che influenza profondamente il linguaggio del nuovo album. «Ci siamo conosciuti e incontrati anche nel lato “oscuro”, allontanandoci, come succede spesso alle band», prosegue Eva Geist. «Abbiamo scazzato e ci siamo rinnamorati», aggiunge scherzando Pietro Micioni. «È vero, e dopo un periodo intenso ci sta. Ognuno si è dedicato alle proprie cose, come Donato che è andato in giro tantissimo, dopo un lungo momento in cui non si poteva più andare nel club. La stessa cosa ho fatto io, ricominciando a mettere dischi. Insomma ci siamo dedicati ad altro, e questo ci ha aiutato a tornare a pensare al disco. Forse ci mancavano questi tre-quattro anni di vissuto e di esperienza, per sapere cosa volevamo».
L’immersione nel (nuovo) processo creativo è quindi un viaggio attraverso esperienze personali, influenze esterne, cambiamenti nel panorama sociale e politico. Con un sentimento che si lega ancora molto al debutto del progetto, nel 2020. «La verità è stata scritta già durante le registrazioni del primo disco, ad esempio, poi è rimasta nel cassetto durante questa stasi. Altri pezzi come Buchi neri sono stati terminati solo di recente. C’era quel sentore di “sospeso”, che mi ricorda un’intervista a Lauryn Hill quando arrivò al successo: le chiedevano perché non stesse lavorando già a nuova musica, lei rispondeva che non sarebbe riuscita a farne se fosse rimasta chiusa in studio, ma solo vivendo», dice Eva. «È come far fermentare il vino, serve tempo», continua Dozzy.
L’ingresso di Pietro Micioni a far diventare Il Quadro un trio parla di un altro (persistente) lato della passione, tra le mille sfaccettature della loro storia. «Per il rapporto che abbiamo non c’è stato neanche bisogno di chiedere, è avvenuto naturalmente. Ciascuno ha continuato con i suoi progetti, poi capitava spesso di rincontrarsi e lavorare insieme su delle cose. Per questo secondo album è avvenuto tutto naturalmente», risponde. «Perché è naturale restare insieme» intona Eva Geist, per avvalorare il concetto, citando il ritornello de La prima volta, uno dei pezzi più eleganti e malinconici del disco. Un tema, quello dei rapporti, le relazioni umane e i loro tragitti, che torna anche ne L’abitudine, su versi come “È un’abitudine questo andare lontano, ma restami vicino”.
Ok, ma cosa vogliono dirci davvero i testi de La commedia? Cosa c’è tra versi che sanno di Matia Bazar moderni immersi in fragori di synth anni ’80 (che però anni ’80 non sono mai, davvero, durante l’ascolto)? «C’è l’insostenibile leggerezza dell’essere, come diceva Kundera. No davvero, nei messaggi e nei temi non so se ci sia una vera evoluzione. Credo sia semplicemente un lavoro diverso. Molti amici in questi giorni ci hanno detto che quella d’esordio era una produzione superiore, io penso semplicemente che ognuno di noi si sia messo alla prova in modo diverso», risponde Eva. «È vero, c’è uno statement di base, per Il Quadro, che è quello di cercare di fare cose di qualità. Ed è vero anche che La commedia è un’evoluzione di questo concetto: in qualche modo sento che abbiamo fatto di più. Mi ci fa pensare anche il fatto che la mia voce sia più forte e spicchi di più nei pezzi. È un lavoro quasi pop e di ispirazione britannica: in quel tipo di produzione tutti gli elementi sono al loro posto, mentre il nostro primo disco apparteneva forse a una dimensione e un’idea più sonica».
La commedia racconta di persone in maniera molto schietta, citando il cinema, sì, ma traducendo l’ironia in sincerità, anche quando si parla di notte. «Ognuno nel suo momento ha dato e dà servizio alla notte», dice Dozzy, mentre Micioni ricorda i vecchi fasti del dj resident e del club italiano di una volta: «Andavi per la figura del dj, sapevi di trovarlo lì, nello stesso club, e c’era l’abitudine di rimanere nello stesso posto dal lunedì alla domenica, non andavi in altri locali. Adesso è molto diverso».
Ma esiste, allora, un genere-Quadro di Troisi? A sentire quanto fatto in questi anni si ha l’impressione che sia zona di mezzo in cui la raffinata elettronica d’autore flirta con il pop britannico d’epoca. «Non solo in Italia, neanche al mondo esiste una cosa come Il Quadro di Troisi. Faccio la modesta», dice ridendo Eva Geist. «Sul fatto di aver creato un nostro stile direi che è una vittoria, perché abbiamo raggiunto qualcosa di molto personale», aggiunge Dozzy. «Una cosa è sicura: siamo andati in studio con l’intento di divertirci, come sempre. E ci siamo profondamente divertiti. Alla nostra età credo valga il concetto: o lo fai bene o meglio che non lo fai».
Nostalgia, ma non retromania: per Eva, Donato e Pietro la dimensione nostalgica che il loro pop postmoderno mette in scena è importante da proteggere perché cerca di schivare i cliché. «Nel giornalismo musicale la nostalgia viene troppo spesso confusa col manierismo. Ma sono due cose ben diverse: fare musica manierista significa prendere, copiare o riproporre il passato, è uno stilema. La nostalgia è un approccio alla vita, è un sentimento, un’attitudine. Proiettarsi nel futuro ma sempre con quel ricordo dolcissimo che solo l’esperienza di ciò che hai vissuto ti può dare», dice a proposito Eva. «Ci sono molte band che oggi fanno manierismo, non farò i nomi. Noi siamo nostalgici. Anche un po’ romantici. Anzi, neo-romantici. È diverso».
Per Micioni, che ha un passato importante nelle classifiche internazionali durante gli anni ’70 e ’80 (con le produzioni Italo disco insieme al fratello Paolo), c’entra anche il nodo dei diktat da parte delle major, per liberare la voce autoriale: «In questo percorso per noi è stato ed è molto importante il fatto non c’è nessuno dietro che ci obblighi a fare determinate scelte. Quindi facendoci rimanere noi stessi, liberi di pensare a questa nostra idea di musica. Ho lavorato tanti anni con multinazionali come Virgin, EMI, Universal e non ho mai amato quel tipo di lavoro in cui ti forzano a uscire con qualcosa di nuovo, a produrre giusto per esserci. Il prossimo de Il Quadro di Troisi, al contrario, sono sicuro uscirà solo quando verrà fuori qualcosa di bello».
Passione, ricordo, amicizia, ormai temi ricorrenti nelle parole del trio. Da uno studio di registrazione alla vita in tour sui palchi di tutto il mondo (e anche nei club), l’album viaggia tra l’Indiana della leggendaria pioniera dei sintetizzatori, Suzanne Ciani, all’East Midlands inglese di Fiona Brice (violinista, compositrice e arrangiatrice che ha collaborato con Boy George, Placebo e Kanye West, tra gli altri) passando (ovviamente, visto lo storico dei nostri) per la Roma Est di Stefano Di Trapani (aka Demented Burrocacao), il maestro Daniele Di Gregorio e la Berlino di Aimée Portioli, Grand River: «Sono tutti legami che si sono sviluppati negli anni, anni di fedele alleanza con la musica. Viaggiando e facendo concerti penso sia la cosa più naturale accada. E le persone con cui abbiamo scelto di collaborare non sono mai state contattate con una finalità o uno scopo, sono il risultato di reciproco rispetto, interesse e rapporto umano. Ciascuno degli artisti ha dato un prezioso contributo per quello che era l’obiettivo, nel migliore dei modi».
Il team include Francesco Messina per l’artwork che rimane nel campo filo-Battiato da cui qui e lì La commedia si nutre, perché tutto avviene in modo naturale, ma niente è lasciato veramente al caso. «È la nostra forma mentis: dopo la scintilla tra me e Donato, che ha fatto nascere il progetto, c’è stata la volontà di coinvolgere Pietro. Da Pietro l’idea di collettivo si è espansa ancora, e così accade anche stavolta. Ad esempio, da un’idea di Stefano Meneghetti (art director, videomaker e musicista, ndr) ci siamo messi in contatto con Francesco Messina, che abbiamo a quel punto coinvolto nella realizzazione della copertina del disco. Sono stati tutti incontri sinergici, come con Suzanne Ciani che ho incontrato qualche tempo fa e conosceva già Donato, per citare un altro caso», dice Eva. «Francesco Messina è stato meraviglioso, ha fatto questa cosa per il piacere di farla», spiega Micioni.
Anche su Ciani, ovvero (e davvero) la prima eroina americana dei sintetizzatori, la sinergia ha a che fare con la dimensione del tempo e della passione per la musica, come dice Dozzy. «Con Suzanne si è creata questa amicizia lunga ormai dieci anni, che è proseguita tramite incontri a diversi festival e concerti. Non abbiamo mai smesso di volerci bene e stimarci. Nel tempo si sono creati rapporti di reciproca simpatia e comprensione artistica, che portano come gli altri nomi alla collaborazione del disco. Sono rapporti reali, non potrebbero essere più onesti di così, direi. E poi fra le cose della vita necessarie per creare questa sublimazione e questo nuovo processo creativo c’è anche la nascita di questa splendida bambina, Maddalena (la figlia di Eva Geist che ci fa un rapido saluto in video, nda)».
Il disco ha anche un tono tra il cinico e il dissacrante, pur con parole e arrangiamenti dolci, sinceri, diretti dalla voce di Eva Geist. La leggerezza di pensiero viene spesso mitigata anche da cruda realtà: si ha l’impressione che questo secondo capitolo racconti una storia più profonda rispetto al primo, elegante album debutto, tra le relazioni umane e la nostra iterata ricerca della verità. Come recita, appunto, La verità: “La verità ma che colore ha?”.
Arrivati a questo punto del racconto, che tipo di vita e che tipo di verità cerca di raccontare La Commedia? «La verità è che la verità non esiste. Ognuno ha la sua, e ciascuna sfocia in un grande mare che ne forma una, una grande verità. È quella che riguarda l’essenza umana, come funzioniamo, come funziona la nostra coscienza. Come ci si arrivi, a questo mare, non ha importanza: c’è chi crede a Dio, chi alla coscienza, chi all’universo. Possiamo chiamarlo come vogliamo. Ma esiste una vibrazione, una frequenza unica, di cui parla proprio il testo de La verità, e di cui in fondo parla La Commedia», afferma Eva Geist.
Dalla musica allo spirito, della musica, nelle prerogative del Quadro c’è quell’idea di portare un linguaggio fortemente pensato, autoriale e che intreccia sapientemente composizione e pensiero. «Perché siamo tutti diversi, ma al tempo stesso recuperare il senso spirituale dell’essere, come ci insegnava Battiato, è importante. Questo intellettualismo moderno non è sufficiente, non ci rende felici. Ci rende felici qualcosa di più profondo», afferma Eva Geist. E prosegue, con un richiamo a ciò che La commedia tenta di far risaltare con i suoi brani: «Credo la perdita della tradizione sia centrale in questo: la tradizione va trasmessa alle nuove generazioni, non è una cosa démodé o desueta. Per questo un po’ mi fa sorridere quando leggo articoli che parlano di noi con definizioni come nostalgia retro-futurista e cose di questo genere. Mi sta bene, ma ci tengo a dire che la tradizione sarebbe da recuperare per tutte le generazioni».
La prima live del nuovo ciclo avverrà alla Triennale di Milano il 4 giugno. «Vedremo di far funzionare le cose compatibilmente alle nostre carriere in solo, è una cosa ci sta a cuore perché nessuno ci obbliga a fare questo progetto: lo facciamo perché amiamo farlo e vogliamo dedicarci del tempo. Come sarà il live non lo sappiamo bene neanche noi, siamo da poco tornati in sala prove per prepararlo e ogni volta è una evoluzione. Ci stiamo lasciando la giusta libertà e il giusto spazio per l’improvvisazione, sarebbe interessante. Anche a rischio di spiazzare chi conosce il disco molto bene, ascoltando qualcosa di molto diverso. Ma noi non abbiamo voglia di stare sul comodo delle cose, mai. E crediamo che quando c’è questo spirito di avventura, lì sul palco, non può che nascerne qualcosa di buono. Questo il pubblico lo percepisce». Spirito d’avventura uguale cassa dritta, aggiunge ridendo Eva Geist. «Guarda che poi lo faccio davvero», risponde Dozzy.
«Vedi, la verità – di nuovo – è che si chiama La commedia perché quando registriamo è tutto così, tra citazioni di Sordi, Verdone, Troisi, Proietti e cinema italiano. Io e Donato ci siamo conosciuti parlando di loro. Ogni volta che ci incontriamo si parla per frasi del film, è tutto una commedia», dice Eva. «Oh, per scherzà bisogna esse’ seri», conclude Dozzy.