«Una volta eravamo morbosi. Adesso siamo solo incazzati». Ci sono persone che hanno il dono di sigillare perfettamente in una manciata di parole argomenti – una carriera musicale lunga quasi trent’anni, per esempio – sui quali si potrebbe discutere per ore. Aidan Moffat è una di queste persone. Naturalmente non è tutto così semplice, e certo il talento per calembour e immagini vivide non basta a esaurire la complessità della vita e in questo caso neanche della musica. Moffat lo sa bene, infatti sogghigna sotto il barbone sale e pepe mentre sintetizza in quel modo la differenza tra gli Arab Strap di ieri (quelli della fase 1, come dicono loro: gli anni ’90, i primi anni ’00, quegli album intrisi di malinconia alticcia, decadenza, erotismo che a volte sfociava nella pornografia tout court, poesia urbana afterhour e post rock) e quelli di oggi (la fase 2 iniziata tre anni fa con l’eccellente ritorno di As Days Get Dark dopo dieci anni di separazione artistica – tra di loro, non dalla musica – e rafforzata da un nuovo album di intensa, spietata bellezza).
Il corpulento cantante del duo scozzese è in collegamento Zoom dalla sua casa di Glasgow: rilassato, cortese e ciarliero, trasmette anche fisicamente una filosofica serenità middle aged (ha compiuto la settimana prima 51 anni) appena velata di disincanto. Persino l’impossibile accento scozzese sembra essersi lievemente addolcito e reso un po’ più comprensibile (per esperienza personale: sbobinare una intervista con lui vent’anni fa era più o meno come decifrare la stele di Rosetta). Lo stendino con i panni appesi alle sue spalle sembra anche confermare l’assunto del titolo del nuovo disco: I’m Totally Fine With It 👍 Don’t Give it a Fuck Anymore 👍. «Quella frase l’ha scritta il batterista che viene in tour con noi nella chat WhatsApp della band, non ricordo più a che proposito, ma mi fece molto ridere sul momento. Non so perché a volte certe cose mi divertono così tanto. Comunque è diventata un tormentone tra di noi, quindi è stato inevitabile usarla come titolo dell’album. Non c’è un particolare significato dietro, anche se adesso tutti diranno che siamo diventati dei nichilisti».
Ad accompagnare Aidan, come al solito, il suo non altrettanto loquace (ma ugualmente gentile e arguto) Sancho Panza, ovvero Malcolm Middleton, la mente musicale della coppia, direttamente dallo sperduto villaggio di pescatori in cui si è rifugiato ormai da tempo («io il lockdown l’ho iniziato tre o quattro anni prima», scherza).
Torniamo a quella cosa della morbosità di ieri e della rabbia di oggi. Aidan precisa che «forse rabbia non è la parola giusta, ma certamente oggi nello scrivere sono motivato dallo sconforto per come è diventato il mondo e dal risentimento nei confronti di chi ha le maggiori responsabilità per averlo fatto diventare così. Per esempio le corporation che dominano le nostre vite tramite i social network e Internet in generale. Gli Zuckerberg, gli Elon Musk e quegli altri di cui non sai il nome ma che di fatto decidono tutto, impattando come non è mai successo prima anche sulla politica. Questi maschi alfa della Silicon Valley hanno concretizzato il concetto di fondo del thatcherismo: la società non esiste, siamo solo una massa di miliardi di persone che lavorano gratis per loro e per farli diventare sempre più schifosamente ricchi».
«Ma ovviamente l’incazzatura è anche rivolta a noi che ci siamo consegnati volontariamente a questo dominio. Io per primo. Sono stato letteralmente drogato di social, durante la pandemia ero attaccato a Twitter tutto il giorno, finché mi sono reso conto che discutere h24 con estranei on line non era il massimo per la mia salute mentale. È una dipendenza peggiore dell’alcol e delle droghe, anche perché devasta la psiche di milioni di persone per altri versi normalissime. Ho smesso, anche se ogni tanto vado ancora a fare un giro su X. Sai, tipo l’ex alcolista che si concede un goccetto ogni tanto».
In I’m Totally Fine With It il tema ricorre in diverse canzoni. L’iniziale Allatonceness, con il suo riff decisamente heavy («è stato l’ultimo pezzo a essere registrato ma ci è venuto spontaneo metterlo come primo in scaletta, introduce bene al mood del disco», spiega Malcolm), parla dei social usando il pronome “loro”: maligni persuasori (neanche tanto) occulti che ci profilano fino all’ultima cellula perché venderci roba è comunque il fine ultimo (“Hanno attirato la tua attenzione, i toelettatori e gli imbroglioni, e ognuno di loro ha fatto le proprie ricerche / Hanno attirato la tua attenzione, hanno irritato fan fanatici, mentre nazisti e stupratori vendono merchandise”), e quel che è peggio con il nostro ormai rassegnato e rincoglionito consenso (“Tutti questi abili stimoli / oppressione e disapprovazione / penseresti che potrei ribellarmi, penseresti che potrei piangere, invece sto qui, maledettamente intorpidito”).
In Sociometer Blues si usa invece il “tu”, strategia retorica più raffinata che allude al rapporto malsano con la sfera on line: la prima strofa recita “Mi sono svegliato questa mattina e ti ho aperto con una stretta e una tenera carezza”, ma non è di un/una partner che si parla, bensì dello smartphone. Aidan: «Se ci pensi c’è qualcosa di sottilmente erotico in quella ritualità dell’aprire appena svegli Facebook, WhatsApp o qualunque altro servizio di messaggistica. C’è l’anticipazione di qualcosa, l’attesa, la speranza di essere gratificati da un commento qualsiasi. Alla fine il rapporto con l’online diventa estremamente personale. Il che è ovviamente spaventoso, è tutta una illusione pericolosissima. Ti illudi di conoscere gente con cui non hai nessun rapporto reale, pensi di aver istituito una vicinanza che di fatto non esiste, è tutto mediato da uno schermo e da una maschera che indossiamo costantemente quando ci colleghiamo. Cazzo, è terribile. Per questo in Allatonceness dico che “voglio succhiare una pietra, sentire il sale del male, riposarmi nelle braccia di un albero”. Sento fortissima la necessità di recuperare la dimensione fisica della realtà, delle interazioni. Il contatto, la gestione dello spazio tra una persona e l’altra, gli odori. Gli odori sono fantastici, no? Beh, oddio, non sempre (ride)».
Tra i tanti lati oscuri dell’esperienza online c’è anche la spaventosa misoginia che connota troppi di quelli che Aidan definisce «vigliacchi senza speranza». Tema che viene affontato in Bliss, che musicalmente è anche uno dei brani più cupamente elettronici (anche se perversamente “danzabile”) nella storia degli Arab Strap, e che non stupisce essere uno dei vertici di un disco nel quale, dice Malcolm, «abbiamo usato meno chitarre che in qualunque altro nostro lavoro».
Le donne, così come gli anziani e le persone psicologicamente fragili, sono una delle categorie umane più esposte all’anonima crudeltà in rete. E per quanto riguarda i giovani, invece? Quanto sono consapevoli di quanto Aidan stave spiegando? «Io credo che lo siano, alla fine molto più di noi. La nostra è l’ultima generazione ad avere un ricordo preciso di come era il mondo prima dei social e di Internet. Quando vedo mia figlia di 10 anni o mio figlio teenager capisco che per loro quel mondo è qualcosa di preistorico che non riescono neppure a immaginare. L’ultima cosa per cui utilizzerebbero un cellulare è telefonare, preferiscono il distanziamento di un messaggio scritto o vocale. Preoccupante, ma comprensibile. Ciò non significa che non conoscano fin troppo bene i pericoli di questo modo di interagire. Soffrono una pressione sociale enorme, e lo dicono le statistiche. Qui in Gran Bretagna un adolescente su quattro ha tentato di farsi del male fisicamente, il fenomeno del self harm è figlio anche di questa pressione continua. L’odio per le donne sui social è un altro problema grave, consiglio di leggere un libro come Penance di Eliza Clark per rendersi conto della deriva in cui siamo finiti. Nel disco c’è un pezzo, Haven’t You Heard, che ho scritto proprio provando ad assumere il punto di vista di chi è più giovane ed esposto alla spersonalizzazione e al bullismo in rete».
Nei testi dell’album si possono trovare alcuni dei momenti più genuinamente agghiaccianti mai apparsi nelle canzoni di Moffat, che già normalmente non hanno mai brillato per solarità. Un esempio è Safe and Well che racconta la storia di una donna sola e anziana, morta in casa durante la pandemia e ritrovata solo dopo settimane perché nessuno si era preso la briga di cercarla. «Ho tratto ispirazione dall’articolo di un giornale, cosa che mi capita raramente. Parlava della fine orribile di questa donna, che conferma quello che dicevamo prima: l’illusione della connessione che ci unisce tutti, ma in realtà siamo atomi disperse in milioni di solitudini diverse. La parte più triste è che questa persona non aveva lasciato praticamente tracce in rete, tranne un post di molto tempo prima in cui cercava, appunto, una amica».
Altro testo chilling è quello di Molehills, che si conclude con una voce femminile che con tono neutro da documentario scientifico spiega come le talpe siano solite paralizzare le loro prede con un veleno, tenendole vive e immobilizzate nelle loro tane per poi consumarle in seguito. Una metafora per sottolineare che anche quella natura e quella realtà fisica cui dovremmo tornare in fondo possono essere altrettanto malvagie come quella virtuale? «Non avevo pensato a questa interpretazione. In realtà avevo in mente il vecchio adagio “cosa si nasconde dietro a un sorriso?”. È un testo che parla di apparenza e ipocrisia. Sai, qui da noi la talpa è l’animale carino per eccellenza, compare in un sacco di fiabe e narrativa per bambini, e quando ho letto delle sue abitudini mi sono detto “oh fuck”».
Aidan e Malcolm raccontano di quanto questo sia stato uno dei dischi per i quali hanno impiegato più tempo nella fase creativa, ma anche uno di quelli nati più in relax. «Contrariamente al passato non avevamo troppe pressioni o deadline. È stata lunga perché gli ultimi due anni li abbiamo passati in giro a suonare e quindi utilizzavamo i ritagli di tempo sia per scrivere che per incidere. Ci rimpallavamo idee e suggestioni in una cartella online e siamo andati avanti così per me. Ma credo che questo abbia fatto bene alle canzoni, e anche alla nostra salute mentale (ride)».
A proposito di tour, nel 2023 hanno portato in giro le canzoni di Philophobia, il secondo disco degli Arab Strap e uno dei più amati dai fan, del quale ricorrevano i 25 anni. Come è stata l’esperienza di tornare in quei luoghi della memoria? «Ecco, memoria è un termine chiave», spiega Aidan. «Ero angosciato all’idea di non ricordarmi i testi delle canzoni, e invece, incredibilmente, non ho dovuto fare nessun sforzo. Mi sono stupito persino io di quanto quelle parole siano incardinate nel mio subconscio. Invecchiando si tende a dimenticare i testi, e infatti sto facendo una fatica tremenda con quelli del nuovo album, forse perché ci sono molte più parole rispetto al passato. Temo che dal vivo dovrò usare un leggio, del resto se lo fa Nick Cave posso farlo anch’io. Invece i pezzi di Philophobia… bam! Mi arrivano ancora adesso in modo automatico». Per Malcolm invece «portare in tour quelle canzoni è stato bello, non arrivo a dire catartico, ma certo ha simbolicamente chiuso un cerchio. Non è stato un esercizio di nostalgia. La cosa strana è che ci siamo accorti di certe sbavature di quel disco, tipo che per esempio in One Day, After School c’era un accordo di organo completamente sballato. Ora almeno lo suoniamo giusto!».
In una canzone del penultimo album, Tears on Tour, Aidan immagina di essere “il contrario di uno stand-up comedian” e di fare spettacoli in cui, assecondando la naturale predisposizione al lato gloom della vita, si siede su una poltrona e piange con gli spettatori, muniti di fazzoletti appositamente distribuiti al merchandise. Non sarebbe neppure una cattiva idea, tutto sommato. «Forse lo farò (ride). Ci sono stati momenti in passato in cui mentre cantavo su un palco realizzavo quanto fossero tristi le storie che raccontavo e mi dicevo “no dai, non è possibile…”. Comunque, perché no? Sarebbe liberatorio farsi un bel pianto collettivo tutti assieme, no?». Il sorriso dietro la barba fa capire che sta scherzando. Oggi, anche per gli Arab Strap, è tempo di rabbia, non di malinconia.