Dentro quel piccolo compendio esistenziale con cui di tanto in tanto ridefiniamo i contorni delle nostre scelte (tipo: “quali sono i dischi fondamentali della mia vita?”) ci ritrovo sempre Siberia dei Diaframma. Avevo sei anni quando uscì, appena un anno quando uscì Unknown Pleasures dei Joy Division e non ero neppure stata concepita quando uscì Marquee Moon dei Television. Eppure li considero dischi della mia generazione e ricordo che nello scoprirli – vent’anni dopo il loro affacciarsi al mondo – fu come scoprire un’appartenenza che non era data né dai luoghi né da questioni anagrafiche: una contemporaneità emotiva, desiderata, non storica. Era la possibilità di uno sconfinamento da me stessa e da tutto ciò che mi circondava, il ritrovarsi a immaginare ad esempio una Siberia già diventata il simbolo di un altrove. Forse è per questo motivo che ancora adesso Siberia è uno dei dischi che mi capita di ascoltare più spesso in viaggio, o semplicemente in macchina sul Raccordo Anulare, con l’idea che quel senso di altrove – indeterminato eppure fraterno – non sia soltanto la prerogativa dei vent’anni.
Oggi esce Siberia reloaded 2016 (con sei brani inediti e degli intermezzi strumentali di Gianni Maroccolo) e ne ho parlato con Federico Fiumani, leader dei Diaframma.
Esistono varie edizioni di Siberia, è un album che hai continuato a portare in tournée e probabilmente è il vostro disco più amato. Vivi tutto questo anche come un fardello?
Beh, mi conforta sapere che qualche altra canzone significativa nella mia vita l’ho scritta… Gennaio, Verde, Io amo lei, L’odore delle rose, Vaiano, pezzi che sono entrati nell’immaginario. Riguardo al successo di Siberia credo ci siano anche delle concause indipendenti. Quando è uscito, erano anni in cui in Italia un certo tipo di musica non si faceva, e ce n’era un estremo bisogno. La new wave anglosassone con liriche in italiano. Questo fattore di novità è stato riconosciuto anche a posteriori. E poi evidentemente i testi avevano un loro valore poetico, che rispecchiava tutta quella simbologia post-punk tesa al pessimismo, alla malinconia. Insomma è come un romanzo generazionale, un libro di esordio che rimane, tipo Il giovane Holden.
Sì, però sarebbe stato strano se Salinger avesse continuato a fare presentazioni de Il giovane Holden, anche se, in effetti, Salinger è un po’ l’esempio sbagliato…
Tieni conto che ci sono delle differenze, qui ad esempio ci sono sei tracce nuove e degli inserti musicali inediti. È una cosa che ho fatto anche per i miei musicisti, quelli con cui suono ora e che hanno portato Siberia in tournée per un anno, insomma ci tenevano a vederlo su disco. E poi, senti, alla fine era per fare qualcosa, per sconfiggere la noia, proprio la noia di cui parla Baudelaire, no? Tanto i pezzi nuovi non mi vengono più.
Come non ti vengono più? E da quando?
Da tre anni.
Questa cosa non ti spaventa?
Credo che con l’andare avanti, succeda così. De André scriveva un album ogni sei anni, almeno in questo gli assomiglio; se la pigrizia mi accomuna a De André, è già qualcosa. Ma me la vivo bene la mia storia musicale, mi diverto, sto bene, ho molto tempo libero e quindi vivo: come diceva Parise, vivere è la cosa più importante. C’è sempre il passaggio delle stagioni, non regalo il mio tempo ad altri, faccio un lavoro che è una passione. Mi sento fortunato, e se non hai niente da dire, il silenzio è una cosa poetica.
E le tracce nuove che ci sono nell’album?
Quelle erano poesie che avevo già scritto negli anni ’80, le ho solo messe in musica, le ho trasformate in delle canzoni con delle sonorità ispirate a quelle dell’epoca.
Ma pensi che esista un limite massimo – anche solo estetico – per poter salire su un palco a fare la rock band?
Qualche anno fa pensavo di sì, ora mi sono accorto che amo molto le rughe sul palco, un senso di verità e di bellezza all’incontrario che mi affascina.
E ti piace ancora suonare?
Sì, ne ho bisogno, spezza angoscia esistenziale che mi attanaglia.
In che rapporto sei con la scena musicale italiana di oggi?
Ci sono alcuni gruppi mi piacciono molto, come The Giornalisti. Ma ho meno entusiasmo nel comprare i dischi, sono più interessato alla letteratura. Mi piace stare a casa, sono un solitario, come gli scrittori.
E che fai a casa? Non scrivi pezzi nuovi, stai scrivendo qualcos’altro?
Posto un sacco di cose su Facebook…
Non eri un tipo solitario?
Appunto, mi sembra un buon modo di comunicare, è diretto ma c’è una certa protezione. Mi piace scoprire gente nuova, cose che non conosco, vedere che concerti ci sono, ritrovare vecchi amici, anche educare un po’ alla musica, postare dei pezzi che amo.
Sempre roba anni ’80?
No, dai, anche contemporanea. Ultimamente le cose migliori mi pare vengano dalle donne, mi piacciono molto Julia Holter e Angel Olsen.
Quando si parla dei Diaframma, si esalta sempre la vostra coerenza. Avete rifiutato negli anni ’90 di partecipare a Sanremo, oggi accetteresti invece di fare il giudice a X Factor come Manuel Agnelli?
No, direi di no, ma non si tratta nemmeno di coerenza. Il fatto è che sarebbe un lavoro, mi porterebbe via del tempo e io adoro non fare niente. E poi non mi piace giudicare gli altri, non mi reputo nemmeno all’altezza. È stressante, tutte le critiche, sono brutte gatte da pelare…