Sembra timido ed educato, Jamie Woon. Pure troppo. Forse è per quel misto di riservatezza orientale e brumosità scozzese che gli viene dai genitori. Ma di fatto, di lui si sa poco, molto poco per uno il cui primo successo, Night Air, conta 12 milioni di ascolti su Spotify – col piccolo particolare che quando la canzone uscì, nel 2010, Spotify non era ancora il gigante globale che è oggi. Quel che si sa è che dopo l’album di debutto, si è fermato un bel po’. Quattro anni. Per poi tornare, quando l’enfasi attorno al suo nome era calata, con Making time, un disco di neo-soul tra James Blake e Drake, anche se con un minore entusiasmo per l’elettronica, come dimostrano anche i suoi live. Purché non si dica che fa un genere elegante…
Dire a uno che si ripresenta dopo 4 anni “Sei cambiato” è abbastanza inevitabile. Ma tu, come definiresti questo cambiamento?
Ero nei miei twenties, ora sono nei miei thirties… E penso di essere cresciuto, di avere più confidenza con le mie possibilità di musicista, di quanta ne avessi con il primo disco.
Certo però quattro anni e mezzo sono tanti.
Volevo prendermi il tempo necessario per riuscire al meglio nel tipo di musica che volevo fare. Ora sto facendo davvero la musica che volevo fare quando ero giovane, quando sognavo di fare questo lavoro. Ora riesco a esprimere me stesso senza andare verso il gusto della maggioranza. La vera sfida è cercare di convincere la gente a sentire qualcosa di diverso.
Quale differenza senti di poter sottolineare tra i tuoi due album?
Quando ho fatto il primo, non ho mai pensato alla resa che le canzoni avrebbero avuto dal vivo. E infatti poi si è rivelato difficile eseguirle.
Sembri non aver amato particolarmente il tuo impatto iniziale, nonostante il discreto successo.
C’era un elemento di frustrazione. È piacevole essere al centro dello hype, avere tanta gente che ti ascolta, ma presto mi sono reso conto che mi trovavo in un contenitore che non mi somigliava. Molti pensavano fossi un prodotto pop, al massimo mi etichettavano come dubstep, che in quel periodo era quasi infamante, voleva dire fare la cosa più ovvia. A me il dubstep piaceva, ma a me piacciono tanti generi, non mi sento una cosa sola, non mi andava l’idea di finire in quello scaffale, dove tante altre persone non avrebbero nemmeno voluto guardare.
Qual è la cosa più irritante che ti sei sentito dire?
Che faccio un genere “smooth”. Penso che sia un termine al quale dalle mie parti danno una connotazione tipo “inoffensivo”, “superficiale”, “elegante”. Ma io penso che le cose che scrivo abbiano degli aspetti emozionali anche molto forti. Forse la mia caratteristica particolare è dissimularli.
Chi era il tuo eroe di ragazzino?
Su tutti Marvin Gaye. Ma in generale, artisti con carriere lunghe, e molti album significativi.
Pensi in termini di album?
Immagino di essere all’antica, sono innamorato della musica che sentivo in casa da bambino e amo il feeling degli album, di un’epoca in cui non c’era tutta la musica del mondo a un clic di distanza, ma pochi album in casa. Anche brutti, intendiamoci: ho comprato un sacco di album del cavolo per una o due canzoni che c’erano su. Ma imparavi qualcosa anche da quello. Penso che non importa cosa dice il mercato, la gente che ama la musica apprezzerà sempre gli album, per forza di cose. Comunque sai una cosa? Prima ti ho detto Marvin Gaye, ma un gruppo che ho sempre ammirato sono i Radiohead. Solo che sono da solo, e forse si suppone che io citi un solista.
Ma hai mai provato a mettere in piedi una band?
Sì, ma non ci sono riuscito, immagino sia perché ho l’ansia di controllare ogni aspetto di quello che compongo… Cerco di mediare facendo della mia band la mia famiglia. Ma immagino manchi quell’idea di essere cresciuti assieme, e di sfidare il mondo uniti, noi contro tutti. Quindi alla fine sono semplicemente io che lo sfido. Col loro aiuto.