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«Il rock non deve essere innocuo»: Capovilla e Favero raccontano la reunion del Teatro degli Orrori

Come amanti che hanno litigato e si sono ritrovati un po’ più vecchi e un po’ più saggi, si apprestano a fare i primi concerti dopo dieci anni. Per tirare su qualche soldo, sì. Perché certe band non muoiono quando si sciolgono. Per cercare di parlare a un pubblico più giovane. Per farci sentire lo spavento del mondo in cui viviamo. «La trap è ricerca spasmodica del consenso, il rock è politica»

Foto press

Sembra incredibile ma la cosa più nuova degli ultimi anni sono le reunion. Passate glorie tornano all’attacco, mosse dalla necessità di riprendersi il legittimo posto nella storia della musica suonata, mentre si va sempre più verso l’usa e getta e l’automazione completa. Anche Il Teatro degli Orrori ha deciso di tornare in pista con il Mai dire mai tour 2025, che li porterà in giro per l’Italia in nove date.

La band è pronta a ripartire dopo dieci anni con le sue contraddizioni, i suoi dubbi e le sue certezze e a incontrare un pubblico che, fanbase a parte, dopo tutto questo tempo potrebbe essere una stimolante sorpresa. Ne abbiamo parlato con Pierpaolo Capovilla e Giulio Ragno Favero in due interviste realizzate separatamente che abbiamo poi unito.

Per quale motivo vi siete riuniti? Le reunion sono sempre sospette: le bollette, l’affitto da pagare…
Pierpaolo Capovilla: Ti rispondo francamente che abbiamo ricevuto proposte da parte di varie agenzie e ne abbiamo accolta una, quella di Magellano. Una proposta irrinunciabile. Come dire, il denaro fa miracoli. Sarebbe ipocrita non riconoscere il fattore economico. Io però mi auguro che i miracoli che il denaro può fare possano avverarsi, ad esempio di ritrovare un equilibrio nei nostri rapporti umani. La band era scoppiata anni fa. Io non ne potevo più. Forse anche gli altri non ne potevano più di me, ma sì, insomma, la vita è anche fatta così: scoppiano le coppie, scoppiano le guerre, e scoppiano anche le band… Perdonami l’ironia di questa cosa qui sulla guerra, visto quello che succede in Palestina.
Giulio Ragno Favero: È un lavoro, per cui dico: chiaramente c’è un introito economico adeguato. Dopodiché c’è un lato più romantico che ha a che fare col fatto che i gruppi non muoiono quando si sciolgono. Non siamo i Rolling Stones, non è che ci sono orde di ragazzini che vengono a dirci di riformarci, però nel corso degli anni abbiamo incontrato un sacco di gente che ci ha detto che è stato un peccato scioglierci, quindi bene o male ci pensi. Ci siamo ritrovati a chiederci: forse avrebbe senso?

E quando vi siete ritrovati in sala prove?
Favero: È lì che vedi che ha senso. Perché di fatto quello che facevi prima è ancora lì, immutato. Per cui è un po’ come dire, sì, noi siamo fautori della reunion, ma in fondo è la reunion che ci ha scelti.

È stato inevitabile insomma.
Favero: È un modo romantico di vedere le cose, poi è ovvio che ci sono dei soldi, ma va bene dai, prendiamo appena un po’ di più degli Oasis, ma poco di più (ride). Posso dirti questa cosa qua: il Teatro degli Orrori è stato un luogo in cui noi quattro ci siamo ritrovati per salvarci. Se non ci fosse stato questo gruppo qualcuno di noi sarebbe in galera, qualcuno sarebbe morto. Quando è arrivata questa cosa, insomma, eravamo degli spiantati. Poi si cresce e si cresce in modo diverso. C’è questa cosa strana della musica, del gruppo, ti trovi con delle persone con cui magari non è che andresti in vacanza, ma a suonarci sì e ottieni dei risultati, nel senso che crei qualcosa di utile, in cui ti riconosci. Quello che è successo è che si era accumulata pressione su pressione per anni. Poi non è che ti nascondo che io con Pierpaolo ho avuto delle belle litigate furibonde, come nelle famiglie, nelle coppie, nella società. E così che siamo arrivati alla fine di un percorso. Probabilmente era l’unica cosa giusta da fare per riprenderlo in seguito, come succede spesso. È come un rapporto di coppia in cui ci si lascia e dopo dieci anni ci si ritrova. Credo che sia molto figo il fatto che poi quando ti ritrovi su un palco… vabbè su un palco non siamo ancora ritrovati, però diciamo in sala prove ti rendi conto che sì, sei solo una parte di quello che succede: è come se ci fosse qualcosa che ti comanda.

Capovilla dal vivo. Foto: Ikka Mirabelli

Potrebbe anche uscire un disco nuovo?
Capovilla: Non ne ho la minima idea, però ne sarei felice. Io la mia band ce l’ho adesso, si chiama Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri, tra qualche giorno andrò a Napoli a registrare in uno studio bellissimo il nuovo album. Però insomma il Teatro degli Orrori ha dato tanto negli anni alla musica rock in Italia, nel bene e anche nel male, per carità di Dio… e sarebbe cosa lieta insomma pensare a un nuovo disco, però non ne ho la minima idea, davvero.
Favero: Guarda, io personalmente non mi pongo limiti. Mi piacerebbe molto pensare a un disco nuovo dopo il tour, fare cose nuove e ritrovare magari una nuova serenità anche tra di noi. Sono passati dieci anni, siamo persone diverse, abbiamo avuto esperienze diverse. A me piacerebbe. Poi ti dico, quello che mi auspico di più è che ai concerti non vengano solo quelli della mia età, quelli che venivano in passato, ma anche un pubblico un po’ più giovane, che veda che c’è la possibilità di fare della musica, diciamo così, non esattamente innocua come quasi tutto quello che c’è adesso in giro. Voglio dire, anche la musica rock, anche la più radicale oggi, è comunque già sentita o comunque relativamente innocua. Noi eravamo abbastanza pesanti e coinvolgenti dal punto di vista emotivo, per cui quello che mi auguro accada sia questo: che arriviamo ancora dove non arrivavamo all’epoca.

Qual è prima cosa che ti viene in mente pensando che devi ritornare sul palco col Teatro degli Orrori?
Capovilla: Che dobbiamo fare dei grandissimi concerti rock, come abbiamo fatto in passato e come sappiamo fare. E li faremo. Noi il rock lo amiamo, il rock è una questione di fede, è quasi una religione, è una liturgia. Il rock è teatro, peraltro: ci chiamiamo il Teatro degli Orrori non a caso. Il teatro è un momento di vita finalmente vissuto, il palcoscenico è resuscitare: perché quando te ne stai a casa impoltronito davanti a Netflix o quando te ne vai in fabbrica a menar bulloni per ore e ore, ogni giorno della tua stramaledetta vita in ufficio a far di conto è lì che muori piano piano. Il palcoscenico invece è un momento di vita finalmente vissuto, ecco.
Favero: Io sono finito a lavorare nel mondo del teatro, ma quello vero non quello degli orrori (ride) e devo dire che mi ha aperto gli occhi sulle possibilità e sulla capacità di creare cose che arrivino molto più lontano rispetto a quelle che si fanno in un concerto. Uno spettacolo teatrale ha un’altra profondità, è forse una delle forme d’arte più pure e anche più complesse da mettere in opera, è qualcosa che succede in quel momento e quindi devi essere bravissimo. Ho fatto degli spettacoli con un regista romano, Fabrizio Arcuri, mi ha nutrito veramente tanto al punto che faccio veramente fatica ad andare a vedere un concerto in cui vedo solo gente suonare perché mi dico: sì, vabbè, ok le luci, i video e te che sculetti, ma non mi sta arrivando niente… Sarà la vecchiaia, ma quando vado a vedere uno spettacolo di danza contemporanea o di teatro contemporaneo in cui le discipline si mescolano tra di loro mi sento molto più a mio agio, mi sento appagato. Gliel’ho detto ai ragazzi, non facciamo un disco, facciamo uno spettacolo teatrale. Siamo sempre stati un gruppo, tra virgolette, di rottura quando siamo arrivati sulle scene eravamo un gruppo di rottura, perché siamo messi a fare delle cose che gli altri non facevano. Bene, continuiamo su quella strada, forse è quella la nostra formula. Potremmo mettere su anche un balletto, perché no? (Ride).

Vi ritenete più bravi degli altri?
Favero: Non è una questione di dire che siamo più bravi degli altri. Mi sembra che oggi manchi la libertà di fare le cose in modo diverso, anche se sono vecchie. Insomma, guarda i Måneskin che cosa hanno combinato, non mi sembra che abbiano inventato nulla, eppure anche i bambini, i ragazzini si sono appassionati, no? Certo il paragone coi Måneskin suona malissimo (ride), ma hai capito cosa voglio dire.

Tornate in un contesto sociale e storico diverso. Le cose che avete detto col Teatro degli Orrori sono ancora attuali oppure c’è qualcosa da rivedere?
Capovilla: Mi viene in mente una conversazione che ho fatto un paio di giorni fa con una gentile giornalista del Corriere della Sera. Mi chiedeva della trap, mi chiedeva dei giovani… In giro ci sono cose che… vabbè su, detesto la trap (ride), per forza, mamma mia! Mi chiedeva: ma voi della vostra generazione non avete forse delle responsabilità? Certo che sì, certo che le abbiamo. C’è una canzone del Teatro degli Orrori fra le più note che si intitola È colpa mia il cui ritornello fa “È colpa mia se siamo diventati indifferenti, più poveri più tristi e meno intelligenti”. Certo che è anche colpa nostra, però con la canzone popolare – così mi piace chiamarla, anche se noi facciamo rock ma facciamo pur sempre canzone popolare, per il popolo, con il popolo e dal popolo – possiamo ambire a contribuire a una ridefinizione dell’immaginario collettivo. Cosa a cui i trapper non frega assolutamente niente. A noi sì, a me sì, me n’è sempre fregato eccome. Contribuire a un miglioramento della società, della comunità, del consorzio umano in cui viviamo è motivo per cui si scrivono e si cantano le canzoni. Altrimenti a che cosa serve? A niente! I soldi non bastano, non bastano mai, ci vuole qualcosa di più.

Il rock ha perso forza forse perché è stato “sdoganato” troppo?
Capovilla: Ma il rock non è mai stato sdoganato, il rock si è sempre imposto. È intergenerazionale il rock, non credo che abbia mai avuto bisogno di uno sdoganamento.
Favero: Faccio questo paragone un po’ assurdo. Nel 2003 andai in America con gli Zu a registrare Radiale, un disco con Bob Weston, che era anche il bassista degli Shellac. Il digitale stava prendendo il sopravvento, lui però continuava a fare le cose in analogico e parlandome ha detto una cosa che si può applicare anche al rock: come i registratori a nastro, il rock non è rotto, funziona ancora, fa esattamente quello che faceva un tempo.

Lo fa anche il digitale però…
Favero: Lo fa, ma in un modo diverso. Quello che mi stupisce è che in questo periodo storico è tutto molto legato alla parte più estetica e meno profonda. Se dici che non siamo attuali, allora non lo sono neanche i Fontains D.C. o gli Idles. Non mi sembra che stiano suonando una musica mai sentita prima, eppure la gente non vede l’ora di andarli a vedere. Magari non fanno gli stadi, però gli stadi li faranno gli Oasis, che hanno comunque le chitarre. Quindi che cosa ci stiamo raccontando? Che la musica di oggi funziona in modo diverso rispetto a quello del passato o che quella del passato funziona esattamente come funzionava nel passato? È ancora là. Non è rotta. Chi vuole, la può usare.

Comunque quando parlavo di rock sdoganato intendevo quello underground, ecco…
Capovilla: Diciamo più che altro il momento felice del rock indipendente in Italia è finito. In Europa non è proprio così, ma non lo so, non sono un analista. Però dici bene, in Italia sta vivendo il suo momento peggiore. Corsi e ricorsi storici: adesso vanno di moda il rap, la trap, queste cose qui, speriamo che questa moda passi in fretta e che si possa ritornare a fare buona musica tutti quanti. A fare musica con dei dispositivi non fai buona musica, fai delle schifezze (ride). Fare musica significa imbracciare uno strumento, provare, significa rapporti umani, amicali… è politica! Il rock è politica.
Favero: È che negli ultimi anni, se tralasciamo i temi delle canzoni, la musica è diventata pressoché tutta uguale, qualsiasi genere tu faccia. Lascia stare il timbro: che ci sia la chitarra, che ci sia un beat, prendi le note e vedrai che c’è una somiglianza. Nessuno rischia più sotto quell’aspetto lì: si fa magari un po’ più di lavoro sulla timbrica, ma delle note non frega più un cazzo a nessuno e questa cosa secondo me è agghiacciante, perché la parte musicale di un brano è quella che arriva da più dentro il musicista. Vuol dire che se non ti impegni più nella ricerca della scrittura, lavori in superficie e quindi non hai più un contatto col tuo intimo. Questo secondo me è tremendo.

Il Teatro degli Orrori. Foto press

Il fatto che i musicisti non si impegnino più di tanto politicamente è uno specchio di questo disimpegno musicale.
Capovilla: Ma naturalmente: tutto è politica, anche Eros Ramazzotti fa politica per capirci, di segno opposto alla mia ovviamente.

“Se bastasse una buona canzone”…
Capovilla: Se canto È colpa mia o Carrarmatorock per esempio, lo faccio perché ti voglio descrivere, voglio descrivere le circostanze storiche in cui viviamo e desidero anche cambiarle. Invece ciò che va per la maggiore oggi è la descrizione e basta, te lo dicono anche nel rap, nella trap contemporanea questi ragazzi che vengono dal disagio… A parte il fatto che non mi sembra che tutti arrivino dal disagio, però una cosa è certa: che tutti cercano il consenso. È una ricerca spasmodica di consenso. Per avere un grande pubblico, fare grandi numeri, fare grandi concerti devi guadagnare un sacco di soldi: questa non è libertà, questo è il capitalismo.

Il capitalismo puro diciamo.
Capovilla: Cristallino proprio (ride). È la società dello spettacolo di Debord. Poi il capitale peraltro sussume. È un concetto che c’è in Marx: sussume innanzitutto il lavoro perché ti libera dalla schiavitù e te ne crea un’altra e un’altra ancora subito, perché passi la vita a lavorare in fabbrica per comprare le merci che ti rendono schiavo della fabbrica. Il capitale sussume anche i desideri delle persone, le ambizioni, i sogni, le speranze e le disperazioni: il capitale sussume tutto. E questo è il problema, liberarsi di questo processo di appropriazione della nostra esistenza da parte del capitale fa parte del mestiere di fare rock, come la vedo io. Sai com’è, io sono un vecchio arnese, forse anche un po’ arrugginito, comunista e cristiano: sono figlio di una suora.

Come di una suora?!
Capovilla: Sì, mia madre era stata suora, nell’ordine paolino, mio padre un dolce, mite signore che voleva farsi sacerdote, quindi si sono conosciuti in chiesa ed eccomi qua a discorrere con te (ride). Mi sento cristiano dentro di me, cristiano secolarizzato ovviamente: dell’esistenza di Dio non me ne può fregar di meno, però della pietas, della fratellanza e della cum patior, nel senso di soffrire insieme a te, sì, me ne frega eccome, sono cose importanti queste.

L’attività live prettamente rock è un’altra cosa che si sta perdendo, no?
Favero: I locali chiudono. La gente è sempre più disposta a pagare un biglietto esorbitante per andare a vedere solo grandi eventi. Che cazzo, è un peccato, no? C’è questa strana discriminazione nei confronti di quello che non piace a tutti, che secondo me è abbastanza scandalosa. È la privazione della libertà di scelta. Lì c’è molto fascismo. Cioè, è una cosa veramente strana perché la gente sceglie di farsi andare bene solo determinate cose, quelle più fruibili, più facili da avvicinare. Mentre il piccolo rimane sempre più piccolo e non è più aiutato da nessuno, neanche dalle etichette indipendenti. Quali sono le etichette indipendenti che si sbattono per far uscire cose mai sentite? Sembra che le cose che magari una volta avevano dei canali, dei locali in cui venivano suonati e ascoltati adesso facciano parte di una nicchia talmente esigua di cui non bisogna nemmeno più preoccuparsi. Come i senzatetto. Gli ultimi. Chi se frega degli ultimi? L’importante è che io abbia la mia playlist su Spotify, sta roba qua.. poi anche lì ci sarebbe da dire, perché intendiamoci: sono dieci anni che la musica non ha più valore. Si ascolta di tutto e non si paga un cazzo. Mentre il lavoro per farla è sempre lo stesso.

Com’è cambiato il tuo modo di scrivere?
Capovilla: Sono molto meno verboso adesso, lo si percepisce subito dal disco con i Cattivi Maestri, non c’è quell’ammasso di parole, quell’urgenza di dire tutto nel più breve tempo possibile, oggi sono diventato decisamente più allegorico. La mia scrittura è più allegorica.

Che poi la sintesi fa parte pure dei testi di questi giovani che sono molto brevi, non dicono un cazzo, però sono brevi.
Capovilla: Dicono sciocchezze, soprattutto sulla questione dei rapporti di genere. Ne ho parlato tempo fa con un mio amico psichiatra, Piero Cipriano, che è un intellettuale, uno psichiatra basagliano, ha pubblicato cose importanti, uno psichiatra riluttante si definisce lui, cioè detesta il suo stesso mestiere. Puoi fare tutti gli sforzi che vuoi, nella famiglia, nella socializzazione fra gli amici, con la scuola naturalmente, sulla questione dei rapporti di genere: tanto poi arrivano i trapper a rovinarti tutto. È una forma distruttiva, non c’è nessuna volontà di costruire un bel niente, c’è soltanto la volontà di distruggere quello che c’è, ma distruggere non basta.

Una cosa sono i testi di Tony Effe, un’altra sono quelli dei Brainbombs o dei Big Black che ti sbattono in faccia delle aberrazioni in maniera critica.
Capovilla: Concordo al 100%.

Interroghiamoci sulla qualità generale, non sulle parolacce o sulle tematiche scomode.
Capovilla: La parolaccia in sé può essere più che utile, il problema sono i contenuti, la visione del mondo, la visione delle cose, il mancato approccio critico in questa visione delle cose. Critica non significa questo è bello, questo è brutto, questo mi piace, questo non mi piace, questo è giusto, questo è ingiusto. Critica significa individuazione. Ricordo un professore dell’Università di Antropologia filosofica, Romano Madera, un intellettuale piuttosto noto, lo sento spesso su Radio 3, ricordo le sue parole durante una lezione su Weber. Diceva che la critica è l’individuazione dei limiti entro i quali vengono costrette le nostre esistenze. Una volta individuati questi limiti, li possiamo indagare, studiare. Una volta indagati e studiati, possiamo incominciare a sperare di superarli. Questa cosa mi è rimasta in mente perché la trovo profondamente giusta, ragionevole, puntuale per i nostri tempi, e io credo che la canzone debba essere proprio questo. Ecco.

La formazione del 2015. Foto: Edward Smith

Mi pare che torniate belli carichi e agguerriti, tutto sommato.
Capovilla: Sempre, sempre, mio caro amico, siamo in guerra! Siamo in guerra contro chi la guerra la fa. Pensiamo a quello che sta accadendo al popolo palestinese, al popolo gazawi. È qualcosa di assolutamente intollerabile. C’è un mutamento di paradigma: qui si sta permettendo a un Paese di distruggere completamente un altro, di liberarsi della sua popolazione, ok? C’è qualcosa di veramente pernicioso, di profondamente maligno nella storia che stiamo vivendo. La storia che stiamo vivendo in questo momento, mentre parliamo, è spaventosa e questo spavento lo dobbiamo far sentire alla gente, anche con le canzoni. È necessario, è necessario, è doveroso.
Favero: Anche adesso per esempio, le guerre le selezioniamo. Prima della guerra in Ucraina c’erano altre guerre di cui non parlava nessuno.

Esatto, ci sono dei genocidi che vanno avanti da anni, e nessuno dice un cazzo di niente, neanche lo sanno.
Favero: È un macello un po’ dappertutto tranne qui in Occidente, dove si sta bene. Non vedo un gran futuro per la nostra società attuale.

Avete notato che molti di quelli che una volta – non faccio nomi, cose tipo Il mio nome è mai più e «no alla guerra», adesso non dicono un cazzo? Non so se hai notato il silenzio assoluto…
Capovilla: Chissà perché, chissà perché eh? (Ride). Ricordo anche un’intervista su Repubblica al buon Vasco Rossi. A me sta tanto simpatico Vasco Rossi.

Anche a me.
Capovilla: Secondo me è un brav’uomo, però è così tanto italiano quel signore, porcaccia miseria… Diceva, te la riporto così, rapidamente, che Free Palestine è un bellissimo slogan. Ci sto. Però che Israele debba essere distrutta, allora no, non ci sto, dice lui, no. Poi però aggiunge immediatamente dopo: comunque io di Israele e della questione palestinese non ne so niente, ecco. È la fotografia dell’italiano medio, che non sa e non vuole sapere. Perché se ne frega alla fine, ma non mi sembra il modo migliore di affrontare queste circostanze storiche. Anzi, proprio quando accadono queste tragedie, è il momento – se non ora quando – di informarsi, di cercare di capire che cosa è successo nella storia dal 1948 in poi. Stiamo pur sempre parlando dell’epoca contemporanea, non stiamo parlando di secoli fa, ma della nostra vita, della nostra storia. Io sono nato 57 anni fa. Mia madre e mio padre, che non ci sono più, si sono fatti la Seconda guerra mondiale, se le ricordavano le bombe, se lo ricordavano che Treviso fu praticamente rasa al suolo, si ricordavano il terrore delle esplosioni, se le ricordavano queste cose qua. Dio non voglia che debba accadere nuovamente anche nel nostro Paese, anche in Europa. C’è una guerra in Europa tra Ucraina e Russia che si poteva tranquillamente evitare, non si è voluta evitare, non si è scelta la pace, si è scelta la guerra: perché? Per una molteplicità fattoriale di motivi che, se vogliamo, li possiamo anche elencare uno per uno ma ci vorrebbe una giornata di discussione fra me e te, non 20 minuti.

Il nome del tour, Mai dire mai, fa molto di film di 007…
Favero: È una cosa da ridere perché avevano detto non ci saremmo mai riformati. Invece eccoci a fare la reunion. Mi piaceva la parte sardonica della cosa.
Capovilla: Una nostra canzone si intitola Mai dire mai, è per questo che lo abbiamo chiamato così. Ci sembrava calzasse con il nostro modo di vivere le cose in questo momento, le nostre stesse esistenze…

Come sarà il tour? Suonate nei club, una cosa intima o no?
Favero: Beh, sono grandi club, non sono ovviamente palazzetti perché non ci verrebbe nessuno. Sono posti che comunque, diciamo, vanno dalle 1000 persone in su. È la dimensione che abbiamo tra virgolette lasciato. Non ti nascondo che siamo vecchi, se avessimo altre energie a me sarebbe piaciuto anche fare un tour in posti veramente piccoli. Tipo che fai sei date in un posto da 100 persone. Perché no? Ho sempre pensato che quella sia la dimensione che ci rispecchia di più. Però vabbè, intanto facciamo così, poi vediamo.
Capovilla: I ragazzi mi hanno proposto una scaletta molto impegnativa, ma va bene così. Ripercorreremo l’intera nostra discografia, tutta quanta. Sarà una scaletta piuttosto tosta, ma sono sicuro che ce la faremo, ce la dobbiamo fare. Alternative non ci sono, quindi ce la faremo.

Che futuro vedete per il Teatro degli Orrori?
Favero: Come ti dicevo prima, mi sento positivo. Poi oh, se litighiamo di nuovo che cazzo dobbiamo fare… siamo isterici (ride), ma mi farebbe piacere pensare al disco nuovo, a musica nuova, messaggi nuovi.

Grazie di questa chiacchierata, magari ci vediamo a bere.
Capovilla: Beati voi che potete bere, io sono in detox da un bel po’ di tempo. Mi sto prendendo un periodo di ricostruzione fisica e spirituale. Per ora, un abbraccio partigiano.

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