Il secondo album di Dave Gahan con i Soulsavers, Angels & Ghosts, comincia nello stesso posto dove finiva Personal Jesus. Sotto la stessa luce che splende, Shine on You come l’annuncio del profeta Zaccaria nel Benedictus all’inizio del Vangelo di Luca (“Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge”). Con la stessa ambiguità di sacro e profano: il gospel secondo Elvis Presley, il suono della stessa tremolante chitarra Twangy di allora, purissimo e intramontabile Morricone. Ventisei anni fa il regista Anton Corbijn andò giustamente a cercare quella luce nel deserto di Almeria, e bruciò metri su metri di pellicola attorno a un vecchio bordello da spaghetti-western per girare un videoclip di donne, macchine e cowboy. Quindici anni fa, coi Depeche Mode, Gahan cantava una canzone che aveva lo stesso titolo, Shine: “Ero cieco e ho visto la luce / Il mio angelo è venuto / vestito di un bianco brillante / a splendere per me”.
«Per me gli angeli», spiega Gahan al telefono da Los Angeles, «sono coloro che danno forma alle relazioni con le persone. Le relazioni che io ho e che ho avuto, ma anche quelle che non ho e avrei voluto avere». Quest’uomo di 53 anni posseduto dallo spirito di Johnny Cash e dalla voce di David Bowie – l’angelo che a suo tempo lo salvò dalla strada e dal riformatorio, e lo fece diventare un cantante quando intonò Heroes di fronte a Vince Clark e Martin Gore – casualmente toccato dal destino di essere una delle più grandi e tormentate rockstar del secolo scorso, è ormai particolarmente esperto nell’esplorare il “disagio” (parole sue) che si crea negli ascoltatori ogni volta che nelle canzoni si tira in ballo una qualche dimensione religiosa. «Ma io», avverte subito, «starei lontano dalla parola religione. Parlerei piuttosto delle connessioni spirituali che uniscono le persone».
E i fantasmi del titolo, allora? «I fantasmi sono i nostri ricordi, passati e presenti», continua Gahan, «sono tutto ciò che abbiamo vissuto, sono anche quello che non abbiamo più, ma resta con noi in forma di ricordo». Scandisce le parole, con un piglio oscuro da filosofo decostruzionista. Tre anni di scuola d’arte con Johnny Lydon e Boy George a Londra ’77 bastano e avanzano, per questo. Ci sono fantasmi e angeli, c’è molta religione anche nella civetteria con la quale Dave Gahan e Rich Machin hanno registrato le canzoni di Angels & Ghosts a pezzi e bocconi tra i Sunset Studio di Los Angeles e gli Electric Lady di New York. Vecchie cattedrali del rock&roll, nei cui spazi vuoti dovremmo riuscire ancora a sentire “one thing”, qualsiasi cosa sia. È il tema di una canzone intera, One Thing: “È un mondo differente oggi / a nessuno frega niente di niente / Non ascoltare quello che dicono / Non sanno più quello per cui stanno combattendo / C’è sempre vita su Marte, per me / Hai bisogno di una cosa”.
Che cos’è quella “cosa”? Johnny Cash andava in chiesa a sentire sermoni terrorizzanti “soltanto per sentire la musica”: “L’inferno era all’orizzonte, ma quei gospel meravigliosi mi portavano da un’altra parte”, avrebbe raccontato anni dopo. Anche per Dave Gahan le canzoni sono luoghi da abitare, degli altrove nei quali cercare un senso di appartenenza, e di quiete: «Da ragazzino ascoltavo tantissimo David Bowie, volevo andare nel posto dove lui sembrava cantare. Non sapevo se esistesse davvero oppure no, ma io ci credevo». Figlio di un’attivista dell’Esercito della Salvezza, mandato in chiesa alla domenica, scappava ogni volta per farsi grandi giri in bicicletta con sua sorella. Raccontava qualche bugia alla mamma, si metteva in testa delle idee strane: “Non vorrei mettere in giro voci blasfeme – così in una canzone del 1984 – ma penso che Dio abbia un macabro senso dell’umorismo”. “Sono un santo e un peccatore / non sono niente senza di te”, canta adesso in My Sun, in chiusura dell’album, e la voce di baritono sembra contenere un intero coro pentecostale.
In The Last Time (un altro titolo rubato alla storia del gospel) racconta di un uomo che aspetta di morire: “Hai mai seguito Gesù? Vive in centro a Los Angeles, è per strada, sta arrivando”. E poi: “Prendi il tuo tempo, prendila con calma”. Nel 1995 Gahan si tagliò le vene come la protagonista 16enne di Blasphemous Rumours e – proprio come nella canzone – “non ci riuscì, grazie a Dio per le piccole misericordie”. Nel 1996 morì davvero per due o forse tre minuti, nel momento peggiore della sua lunga tossicodipendenza, per colpa di uno speedball. Raccontò di aver sentito una voce mostruosa in tutto quel buio che ripeteva: “Questo non è giusto”. La sua anima. Gahan fa i conti con un tempo in cui le droghe non hanno più nulla di sacro, non promettono illuminazioni e altri mondi, ma soltanto un controllo medico delle proprie emozioni. Un tempo in cui, semmai, a essere sottilmente religioso è il percorso di disintossicazione.
Quella “cosa” è il rock&roll. La preghiera laica (quanto laica è tutto da dimostrare) per più di una generazione, il gospel dei senza dio, la chiesa itinerante della gioia e del sesso. Ma anche – soprattutto – il luogo oscuro dove si sono messe a nudo la tristezza, la depressione, la dipendenza. E ogni genere di fallimento, improduttività, ossessione umana. Compreso il fallimento del rock&roll medesimo, tra le rovine del quale l’ex punk ex new wave Gahan mostra oggi di muoversi con agilità invidiabile.
«Per me le canzoni lente sono quelle più importanti», commenta ancora. «In maniera conscia o inconscia, questo non lo so, cerco sempre di restare dove sono, o almeno di rallentare. Oggi è difficile: bisogna correre, pensare alla prossima cosa da fare, a chi ci sta mandando in questo momento un sms o una mail. È un mondo talmente veloce che sento il bisogno di rallentare questo processo, e la musica mi consente di farlo. Ogni tipo di musica che mi ossessiona mi aiuta, ed è anche quello che cerco di fare con la pittura».
“Non è bello / quando stai davanti alle stelle? / E ti chiedi: come faremo ad arrivare così lontano? / Non dire niente / stai vicino a me / possiamo guardare quei programmi senza senso alla tv”, continua a cantare in One Thing, una grande ballad per pianoforte e orchestra, di buonissima scrittura. Chiedo se l’io che canta quelle parole sia sempre e soltanto il suo, se è proprio lui quello che in You Owe Me è “stretto sotto il tuo incantesimo”, e perché. Vorrei aggiungere che mi piacerebbe sapere chi è il “tu” a cui si rivolge, e promette di volare via assieme (come angeli), se la moglie Jennifer o la figlia Stella Rose (che ha scattato la foto di copertina del disco).
Mi interrompe, con decisione: «Non riuscirò mai a spiegare tutto quello che c’è nelle mie canzoni. Sono le canzoni che creano l’io di chi le canta. Le mie canzoni sono certamente più forti di me, è come se le emozioni che evocano prendessero il controllo per mettermi in mezzo a loro. Semmai, il problema di tutti gli artisti e i poeti è essere all’altezza di questa opportunità che è data loro». Dell’esperienza coi Soulsavers, infine, Gahan rivendica con orgoglio la «libertà di suonare come vogliamo». Apprezza lo spazio che trova nel lavorare in duo con Rich, «per riflettere e respirare», a differenza di quel che accadeva nei Depeche Mode «dove c’erano tante voci a dire la loro», ed era bello anche così. Gli ricordo i primi tempi del gruppo, il socialismo Robin Hood di Pipeline (“prendi ai ricchi per dare ai poveri”) e l’anti-yuppismo di Everything Counts (“le bugie e gli inganni hanno preso un po’ di potere in più”): cos’è rimasto oggi di quella roba? Fantasmi.
Adesso che conosciamo le conseguenze, possiamo dire di sapere che cosa è (o non è) realmente accaduto in quegli anni? Gahan taglia corto: «Io non sono cambiato da allora. Penso sempre che la musica possa tenere assieme le persone», dice. «Non è un’idea diversa da quella che aveva John Lennon, in fondo, give peace a chance, in un certo senso penso di averlo fatto anch’io. La musica è capace di tenere assieme le persone, io ci credo ancora, ci devo credere, è il motivo per cui continuo a suonare. Per essere parte di qualcosa che dia forza e gioia alle persone».
Una volta, molti anni fa, avevo portato al mio barbiere una rivistina inglese molto alla moda che si chiamava i-D. Dentro c’era una minuscola foto in bianco e nero di Dave Gahan col suo famoso ciuffo di capelli sparato in alto. Più o meno è lo stesso ciuffo che, quando mi va, porto ancora adesso. Mi sembrava doveroso ringraziarlo per l’idea. «Anch’io ho sempre lo stesso taglio di capelli», mi ha risposto lui ridendo.
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