È eccessivo usare l’espressione “miti viventi” in un articolo? Rischia di sembrare sinonimo di “fossili viventi”, ma nel caso degli Oliver Onions il tempo sembra essersi davvero fermato. Guido e Maurizio De Angelis sono i fratelli delle colonne sonore, gli unici che forse possono competere con Ennio Morricone in quanto a numero di produzioni: si va da L’allenatore nel pallone a I corpi presentano tracce di violenza carnale fino agli arrangiamenti di album storici come Terra di Gabiola di Lucio Dalla. Con i loro temi, i due hanno influenzato l’immaginario di intere generazioni.
Tra i tanti nomi con i quali hanno inciso, Oliver Onions è il più famoso, ispirato all’omonimo scrittore britannico. Si dice sia stato scelto perché si pronuncia com’è scritto, ma mi piace pensare che sia stato fatto per immedesimarsi nell’ecletticità dell’inglese che passava da un genere letterario all’altro. Gli Oliver Onions si sono infatti distinti in vari campi musicali, passando dalle pellicole di Bud Spencer e Terence Hill fino alle sigle di Sandokan, Doraemon, Furia fino ad album più tradizionali.
Oggi tornano con un disco in cui rileggono la loro storia, Future Memorabilia. In un’era in cui la memoria langue ed è costantemente messa alla prova, è un recupero per niente scontato.
Gli Oliver Onions erano la vostra identità segreta per sfuggire ai riflettori?
In un certo senso sì e comunque ci serviva qualcosa per differenziarci da Guido e Maurizio De Angelis, che producevano senza sosta colonne sonore. Addirittura quando andavamo in radio facevamo finta che il disco fosse, chessò, di americani o gallesi… Fingevamo di non essere noi, era una specie di scherzo. Il problema poi è che questa identità segreta è durata poco…
Perché negli anni ’70 è arrivato un successo incredibile con le colonne sonore dei film di Bud Spencer e Terence Hill. Voi però avete iniziato già nel 1966 con l’ album Beat Melody, titolo che già ci orienta sul contenuto.
Sì, ma i veri Oliver Onions arrivano proprio con quelle colonne sonore. E pensa che quando avemmo il grande successo del 1973 con Flying Through the Air tratta da Più forte ragazzi ci trovammo in alta classifica in Germania senza neanche saperlo. Ci invitarono là improvvisamente a fare promo in tv. Partimmo e all’arrivo in aeroporto, ed è una cosa che raccontiamo spesso, trovammo una marea di fotografi. Guardammo dietro di noi per capire se c’era qualcuno di famoso e invece erano lì per noi. Ci misero tra le braccia delle ragazze seminude tutte coperte di porporina dorata, puoi immaginare la situazione… noi così, ingenui con le chitarre a tracolla (risate).
In un certo senso siete stati dei Residents italiani…
Poi però i discografici, visto il notevole successo, incominciarono a chiederci di metterci non solo la musica, ma anche la faccia.
Siete stati popolarissimi coi 45 giri tratti da film campioni di incassi, ma non avete avuto la stessa soddisfazione con gli album. Mi piace ricordare Six Ways del 1979, dove si spinge l’acceleratore sull’elettronica, con suoni davvero avanti per l’epoca. Ascoltavate molta new wave a quei tempi?
Più che new wave ci ascoltavamo pop che trasformavamo con suoni più o meno acidi a seconda dei lavori che dovevamo fare. A parte molte pellicole di Terence Hill e Bud Spencer, sia in chiave western che in chiave da commedia divertente come Due superpiedi quasi piatti o Uno sceriffo extraterrestre, in contemporanea facevamo anche lavori in cui ci venivano richieste sonorità molto acide. Se pensiamo a tutta la serie di poliziotteschi che c’erano all’ epoca, i registi erano contentissimi quando usavamo chitarre distorte, pianoforti distorti, pianoforti elettrici, percussioni con suoni particolari, sintetizzatori a strafottere. Dopo che le usavamo per fare lo score di uno di questi film, per noi quelle atmosfere rimanevano lì. Col tempo abbiamo scoperto che quei film venivano sempre più apprezzati e la gente ci veniva a chiedere: «Ma il pezzo che sta nell’inseguimento del commissario di polizia come si chiama?». Perché noi non mettevamo dei titoli, ma dei numeri.
Con la colonna sonora di Bomber diventate delle star del synth pop. Fantasy era la sigla che avevate fatto di Galaxy Express 999 riveduta e corretta, capolavoro che a volte sfiora l’industrial con quegli sbuffi di rumore bianco…
Ci siamo sempre divertiti con la tecnologia, con quello che la tecnica ci metteva a disposizione, già nel 1974 coi primi Moog, che puoi sentire nei nostri pezzi di allora.
Normalmente è difficle fare qualcosa di bello recuperando dei brani iconici. Ascoltando Future Memorabilia si sente invece una tensione al rinnovarsi, grazie alle nuove tecnologie e anche alle tendenze delle nuove generazioni. Nel disco c’è il feat di Tommaso Paradiso nella sigla di Orzowei: non vi sentite un po’ tra i padri dell’it-pop di oggi?
Beh, ci dai una grossa responsabilità se ci reputi i padri di qualcuno, a parte i nostri figli veri (ridono).
Se penso a Oh na na na, la sigla di L’occhio che uccide, non posso che pensare a un tipo di linguaggio e di progressioni dei neo cantautori indie. Ed era il 1979…
Abbiamo sempre seguito il nostro istinto, che è stato sempre molto creativo e molto divertente – speriamo per gli altri – ma soprattutto divertito. Quindi se qualcuno ci ha presi d’ispirazione siamo contenti. Quando si fa una cosa non si sa mai dove si può arrivare, quindi non avevamo la presunzione di dire: questo sarà per i posteri.
In Santa Maria, che è poi il vostro primo LP in italiano, portate avanti un certo tipo di cantautorato che all’epoca forse era atipico. Ci sono dei pezzi assurdi come Zingara nera e sincera e la stessa Santa Maria mi ricorda qualcosa tra i Beach Boys e un proto drugapulco. Anche il video, con tutte quelle rifrazioni, i feedback e la spiaggia… Gli hipster americani e inglesi dei 2000 sembrano vi abbiano proprio copiato. Come fu accolto l’album all’epoca?
In Italia in modo abbastanza tiepido. Gli Olver Onions non hanno avuto mai un grosso seguito in Italia, ma unicamente, se vogliamo darci una nostra personale giustificazione, per un problema di comunicazione. Siamo stati classificati come commerciali per questa nostra voglia di fare pop. E probabilmente non doveva far parte dei circuiti mediatici e promozionali su cui altri artisti e altre etichette avevano investito.
Sabotaggio?
Più che di sabotaggio possiamo parlare di pre-giudizio. Ma ci consolavamo, perché tutto sommato quando un brano non funzionava in Italia, funzionava all’estero. Come ad esempio proprio il 45 di Santa Maria.
Avete fatto parecchie sigle di cartoni animati, nel loro periodo d’oro. Anche lì, non si pensava potessero entrare in classifica: voi vi siete inseriti con cose come Galaxy Express, Doraemon, Rocky Joe, Ruy il piccolo Cyd…
E anche Il giro del mondo di Willy Fog, Marco Polo, D’Artacan… ne abbiamo fatti tanti.
All’epoca c’era lo strapotere di Cristina D’Avena che forse ha appiattito un po’ tutto: come l’avete vissuto quel momento storico?
Nella maniera più innocente e semplice possibile: non c’era assolutamente competizione. Cristina è una professionista esemplare da questo punto di vista. Agivamo in due mondi diversi. Lei interagiva con Milano e tutte le produzioni che da Milano partivano. A noi venivano offerte delle cose magari dalla RCA e facevamo tutto lo score, non solo la sigla, di serie che originariamente nascevano dalla Spagna come appunto Ryu, D’Artacan, Il giro del mondo di Willy Fog da cui veniva fuori la canzone che era quella dei titoli di testa e di coda.
Questa cosa dei titoli di testa e di coda è adesso è quasi sparita e so che voi siete molto sensibili sull’argomento.
È cambiato tutto: i produttori vogliono che l’azione cominci subito. Ritengono che trattenere la gente per due minuti a sentire un pezzo di musica sia distraente e temono che il pubblico cambi canale. Capito? (Ridono) E per lo stesso motivo quando c’è la parola fine di una puntata o di un film, immediatamente parte la pubblicità, non ci sono più i titoli di coda. E in più c’è l’esigenza da parte dei registi di usufruire di musica di suggestione, atmosfere da sound design in cui non viene richiesto il tema. Il tema viene per così dire demonizzato, poiché estraniante dall’azione. Ai compositori viene chiesto di continuo di minimizzare l’intervento tematico, un tema di quattro battute diventa di due accennate con una metrica addirittura diversa per cui diventa meno riconoscibile. È la tendenza della nuova filmografia in generale: gli americani sono i primi a fare così e mi pare di aver capito che anche gli italiani lo fanno.
Voi invece usavate la tecnica inversa, cioè un solo tema riarrangiato per tutto il film. Mi riferisco al film Il signor Robinson, con Paolo Villaggio. Lì riuscite persino nel miracolo di trasformare Walk on the Wild Side di Lou Reed in uno spensierato motivo caraibico cantato da Sammy Barbot. Come vi è venuta in mente questa follia?
Ci sono dei film, e Robinson è uno di quelli, in cui non ci sono tante atmosfere diverse su cui poter mettere tanti temi diversi. C’era l’esigenza di mantenere inalterato lo spirito del brano principale, magari modificandone molto l’espressione o la timbrica. Ci siamo divertiti a giocare. Poi se ci siamo riusciti o meno… forse la cosa è anche piaciuta.
Penso proprio di sì, lo hanno ristampato in vinile non molto tempo fa e forse proprio perché è una colonna sonora che oggi non potrebbe esistere. E infatti gli Oliver Onions dopo questi exploit sono spariti.
Diciamo sono diventati rarefatti (ridono), ma è dovuto al fatto che vengono a mancare le occasioni di far affacciare gli Oliver Onions in una vetrina cinematografica: perché insomma sono cambiati i tempi, le circostanze e i registi che facevano certi film. Venendo a mancare la materia prima per inserire un certo tipo di prodotto, anche gli Oliver Onions hanno deciso di… tornare nel Galles o da dove venivano (ridono). Nel frattempo però sono rimaste in rete molte cose che hanno permesso di consolidare e mantenere in vita le atmosfere e anche le emozioni della gente riguardo certi brani. Probabilmente la cosa sarebbe anche finita lì se non ci fosse stata l’idea di fare il nostro primo concerto come Oliver Onions in Ungheria, a Budapest, in memoria di Bud Spencer.
Ho visto il concerto su YouTube, stupendo. Si capisce la vostra caratura, la vostra perizia, la cura e l’eleganza nel fare musica. Vera e propria maestria, che è merce molto rara oggi.
Noi non ci pensavamo neanche a fare i live, tanto è vero che quando ci è stato proposto la prima volta abbiamo rifiutato. Ci sentivamo arrugginiti. Dopo aver accettato su insistenza di questo produttore, abbiamo lavorato molto ma molto sodo per preparare una serie di arrangiamenti ex novo dei nostri brani, che aggiungevano una grande orchestra ai suoni già conosciuti. Vista la reazione del pubblico, ci è parso un vero peccato perdere tutto questo lavoro. Ci siamo detti che forse valeva la pena fare un altro concerto, che poi sono diventati altri concerti, fino al momento in cui abbiamo dovuto interrompere tutto a causa del Covid. Noi adesso anche con questo progetto abbiamo in mente di suonare dal vivo, di riproporre questi brani in questa nuova veste, tant’è vero che abbiamo già due date: il 7 aprile 2022 al Teatro Arcimboldi di Milano e l’11 aprile al Brancaccio di Roma.
In Future Memorabilia c’è un arrangiamento di cui siete particolarmente felici?
Sì, Flying Through the Air. L’arrangiamento è festoso quasi come se ci fosse una marching band. Una grande banda che accompagna questa nuova versione, dove ci sono tutti gli elementi tradizionali che conosciamo e nuovi colori straordinariamente efficaci. È un modo per augurare buon compleanno al brano numero uno della nostra carriera come Oliver Onions.
A proposito di Bud Spencer, tra i molti feat dell’album, tra cui Elio e le Storie Tese nel mitico coro dei pompieri, c’è anche la sua voce.
È stato per una circostanza fortunata se abbiamo ritrovato una registrazione di Bud nell’archivio del nostro studio. Era stata incisa, ma non era mai stata pubblicata, Bud canta e noi facevamo i cori. Una volta ritrovato questo nastro analogico da un quarto di pollice, era un missato, lo abbiamo girato a Ricky Quagliato che ha curato i nuovi arrangiamenti di tutto il progetto, e lui grazie alla tecnologia che c’è adesso è riuscito ad allungare la parte strumentale, per poter creare una base su cui poi intervenire. Abbiamo aggiunto della strumentazione, e poi in studio io e mio fratello abbiamo aggiunto le nostre voci per completare il tutto. Ci siamo trovati a cantare questa versione aggiungendo le nostre voci del 2020 a delle voci nostre registrate sulla base. Quindi cantiamo su dei noi stessi di quaranta e passa anni fa. E visto che tu sei molto attento ai particolari, trovami qualche altro gruppo che sia riuscito a fare qualcosa del genere (ridono).
Già il titolo del disco parla chiaro, Future Memorabilia, è quasi un viaggio nel tempo andata e ritorno.
È successo anche in un altro dei brani, è un dettaglio per amatori. Ho diverse chitarre nel mio studio e una quella usata per registrare Sheriff a suo tempo. In occasione delle nostre riunioni per capire quali brani fare, una volta scelta Sheriff, mi è caduto l’occhio su questo fodero di chitarra chiuso. L’ho aperto, ho tirato fuori lo strumento ed era perfettamente accordato, con una accordatura aperta per fare la slide, e c’erano anche le segnalazioni sopra la tastiera che 42/43 anni fa avevo messo per ricordarmi dove passare il bottleneck. Era tutto perfetto e abbiamo usato la stessa chitarra per fare la nuova versione di Sheriff. Quindi capisci? Ci sono delle piccole cose che possono anche suonare come scaramantiche…
Oggi si parla molto di futuro, voi avete anche fatto la colonna sonora di un improbabile Alien 2 italiano, il titolo del disco contiene la parola future: come vedete quello della musica?
Mi piacerebbe che ci fosse spazio e considerazione per tutte le musiche senza discriminazioni pregiudiziali, come dicevamo prima. Per quello che riguarda gli Oliver Onions, abbiamo intenzione di proseguire presentando questo progetto dal vivo perché ci ha colpito molto la rezione del pubblico. E questa emozione vorremmo riprovarla tante volte ancora.
Magari il futuro sarà finalmente meno virtuale e più reale?
Certo! Ma intendiamoci: non solo per noi ma per tutti, nessuno escluso.