Se c’è qualcosa a cui i Subsonica danno importanza, quella è la parola. È molto facile accorgersene dall’efficacia dei testi, ma è ancora più evidente quando finisci per chiacchierarci per un’oretta abbondante. Ogni parola è meticolosamente processata per adattarsi al meglio del contesto, ma senza eccedere o lesinare o, peggio, risultare frutto di un processo meticoloso. Fa quindi un certo effetto se, per titolare un nuovo album, i torinesi si sono serviti per la prima volta di una cifra, 8. Un simbolo perfetto e simmetrico per riassumere otto album e più di vent’anni di onorata attività. Per il lancio del primo singolo, i ragazzi hanno pensato di fare le cose in grande, proiettando sulla facciata di un edificio del Naviglio a Milano una diretta streaming dalla sala prove, più – ovviamente – il video di Bottiglie rotte.
Mi è piaciuta la proiezione, ma mi ha fatto un po’ strano vedere nei giorni successivi il vostro nome di fianco ai megaschermi di McDonald’s. Samuel: Quello è il problema di quando ti riprendono. Non sai mai dove ti proiettano.
Max: In realtà siamo abbastanza maniacali nella cura delle cose e nei rapporti col pubblico. Poi però ci sono attività promozionali che ci vengono proposte: questa del Naviglio appartiene alla seconda categoria. Un’idea un po’ a sorpresa, ci siamo fatti trovare coi nostri strumenti in mano, dalla nostra sala prove, Blu Musica. È il posto dove suonavamo con le nostre rispettive band prima dei Subsonica e abbiamo deciso di mostrarlo in diretta streaming nazionale. Il Naviglio era una parte marginale del progetto.
Spesso avete composto i dischi nello stesso luogo, una casetta nella campagna piemontese. L’avete fatto anche per 8?
Samuel: No e in parte è colpa mia. Sono stato parecchio fuori da Torino negli ultimi anni, perciò avevo bisogno di riallinearmi con la mia città, di rivivere le sue strade, le mie amicizie, le frequentazioni di un tempo. Ho chiesto agli altri di restare e mi hanno accontentato.
Nel sesto album c’erano i Righeira e nel settimo Michelangelo Pistoletto. Anche questa volta avete fatto un unico featuring ed è piemontese, Willie Peyote. Come mai?
Max: Sai che non ci abbiamo mai pensato? Non è mai successo che cercassimo il featuring con qualcuno senza prima averlo conosciuto, senza averci vissuto qualcosa insieme. Ovvio che è più facile che questo succeda a Torino. In questo ultimo caso però c’è qualcosa in più. Willie rappresenta la rigenerazione musicale della città, è un testimone della sua generazione. È riuscito, attraverso un certo tipo di lucidità, un linguaggio pungente e concerti coinvolgenti, a farci rivivere in qualche modo i nostri primi passi. E poi abbiamo deciso di partire in retrospettiva dal suono delle origini: le prime due tracce sembrano uscite dal primo disco, la terza e la quarta da Microchip Emozionale, la quinta e la sesta sembrano pezzi di Amorematico e via così.
È un disco ottimista, pieno di speranza. Penso a La Bontà o a quando dite che siamo fermi sul Punto Critico. In molti sostengono che l’umanità l’abbia già superato.
Samuel: Se fai il nostro lavoro, forse proprio nel momento in cui ti rendi conto di essere sul punto critico, è normale cercare una compensazione. Credo che i Subsonica, pur navigando in mari tumultuosi ed essendo vicini a una musica dark, conservino sempre una gemma di speranza. Vediamo sempre un punto di luce da raggiungere.
Max: Punto critico è un mio testo, e mi rendo conto che non è proprio uno squarcio ottimista. Le capacità umane sono infinite, però oggi nel descrivere il presente, in assenza di una narrazione collettiva, è come se vivessimo anni “senza titolo”. La scienza ci dice che siamo in una fase cruciale, ma questa cosa non è minimamente commisurata alla statura degli attuali leader mondiali. Il tipo di descrizione del quotidiano in questo momento è supportata meglio da un accostamento di suggestioni, di immagini. Non è possibile pensare di dare una conclusione, se non in una forma soggettiva come in La bontà o Cieli in fiamme. Entrambi testi di Samuel.
Ho notato anche tanti glitch sonori.
Boosta: I glitch sono segni della contemporaneità, anche se per certi versi cominciano a diventare vintage. Aver avuto il privilegio di fare i musicisti per vent’anni è come essere pescatori su una barca che pesca a strascico. La barca va avanti e la rete si porta dietro tutto ciò che abbiamo metabolizzato, vissuto, ascoltato.
Max: Il primo album in cui abbiamo fatto un uso esteso di glitch è stato L’eclissi. È uno di quelli che ho mixato io e ricordo che è stato un lavoro lungo, completato in tempi strettissimi. Pensa che dormivo in un materasso sotto il mixer. A venirmi in soccorso è stato Carlo Rossi, storico produttore della scena torinese e poi italiana. Aveva il compito ingrato di prendere i mixaggi divisi per strumenti, ovvero gli stem, e verificare che i volumi fossero giusti e che non ci fossero grosse cazzate. Quando stavamo lavorando a La glaciazione c’era questo pianoforte di Boosta che pian piano si distruggeva in una serie di frammenti digitali, di glitch. Il giorno dopo si presenta Carlo e dice: «Ho passato tutta la mattina a tagliare quei fastidiosi clip digitali!» (Ride). Proprio a lui è dedicato uno dei brani più intensi di questo album, che si chiama Le onde. È forse l’unico modo per sorreggere un argomento così importante come la scomparsa di un grande produttore e di un amico.
Beh, i glitch in un disco major non sono cosa da poco, d’altronde la musica qui e altrove sta vivendo un periodone. Ma allora è necessario che tutto il resto vada a puttane perché questo accada?
Samuel: Ma il cambiamento epocale è proprio tecnico. Spotify ha cambiato radicalmente il metodo di ascolto di un certo pubblico. C’è una voglia di scoprire, di andare alla ricerca della propria musica. Così come all’inizio degli anni Ottanta, oggi la musica è tornata a essere una bandiera, un modo per raccontare se stessi e il proprio modo di vita. Alla musica italiana e indie in questo momento la cosa sta solo giovando.
Beh, pensa solo al vuoto pneumatico degli anni Zero.
Max: “Questo vuoto esploderà” cantavamo nel 2007, alla vigilia di una delle crisi economiche più disastrose di sempre. All’epoca era evidente che tutto quanto il presente di quegli anni fosse in sospensione in una bolla culturale ed economica. Ricordiamoci in che tipo di contesto si stava formando una generazione che oggi, ahimè, ha le leve del potere in mano. Sarebbe arrogante dire che avevamo previsto la crisi economica, ma il contesto insostenibile, quello sì.
Boosta: La Storia ha sempre dimostrato di essere una sinusoide quasi perfetta. A volte aveva una lunghezza d’onda di secoli. Altre, come il Novecento che è stato un secolo corto, si variava da massimi e minimi a seconda del decennio.
Però ora musica e tutto il resto sono in controfase, secondo me: una è al massimo, il resto al minimo.
Boosta: Ma magari è come una fotografia. Serve un negativo per poi avere la stampa. E la musica rimane una fotografia della società contemporanea. Che sia bella, brutta, utile o inutile.
Samuel: C’è anche da dire che la lotta si accende quando c’è qualcosa per cui combattere. Uno degli ultimi periodi storici più vivi sono stati proprio gli anni Novanta, cioè quando il nostro Paese ha vissuto una commercializzazione, soprattutto culturale. E lì, le scintille che fino a prima erano dormienti si sono accese. Rivedo molto di quel periodo oggi. Il nostro disco esce proprio a cavallo di questo momento.
Oggi però abbiamo molti più nemici, come la lobotomia e il narcisismo da social media. Non parlate forse di questo in Bottiglie Rotte?
Samuel: Non credere che in quegli anni lì un determinato tipo di televisione non avesse fatto gli stessi danni.
Non in maniera così capillare però.
Samuel: Questa è la grande differenza. Però rende capillare anche la battaglia, il contrattacco. Sono cambiate le armi.
Max: Il testo di Bottiglie rotte parla del degrado, del non voler ascoltare l’altro. L’ascolto è la condizione principale per riuscire a capire qualcosa del tuo presente. Lo strumento del social amplifica una tendenza. Però è impossibile capire cosa nasca prima, lo strumento o la tendenza a mettersi in mostra.
Boosta, tu forse sei il meno attivo del gruppo sui social.
Boosta: Bisogna essere il meno ipocriti possibile su questo. Il social fa parte del linguaggio con cui comunichi. Un altro conto è la schiavitù di essere sempre presenti con cose che a noi non interessano. A me non fotte un cazzo far vedere che sono al cesso o che sto mangiando una pizza ben fatta. Non credo che sia necessario raccontare tutto della propria vita. Devi trovare un giusto compromesso fra esserci e raccontare le cose giuste. Peraltro, con la tipica attitudine sabauda, anche con un minimo di ritrosia sulla privacy. E poi: non dico attori, musicisti o cantanti, ma ci sono scoiattoli e criceti più popolari di me su Instagram. Pipistrelli. Ornitorinchi. Come cazzo faccio a competere con tutta l’Arca di Noè? È uno strumento della quotidianità e sto cercando di imparare…
Samuel: A essere un ornitorinco?
Boosta: Preferirei essere altri animali. Mi diverto moltissimo a guardare i pipistrelli. Lo sapevi che sono dei mammiferi?
Samuel: Sì, me l’avevi detto tu un giorno.
Comunque voi avete una bella campagna social, quella dove vi photoshoppavate nelle fotografie famose.
Boosta: Non erano photoshop. Erano tutte vere.
Quindi c’eri anche tu a giocare a carte nell’aereo di Pertini nella famosa foto.
Boosta: Mi sembra chiaro.
Max: Scherzi a parte, ho conosciuto diverse persone che in passato hanno trattato e insegnato l’era dei social che citavano il nostro sito come uno dei primi esperimenti social in Italia. C’erano forum con sottolivelli frequentati da persone che non necessariamente erano nostri fan.
Io ero un utente attivissimo.
Samuel: Cazzo, ma allora sei anziano.
Mah, ho 28 anni. Boosta, ho visto che la tastiera è tornata quella vecchia, quella sopra la sospensione di un TIR.
Boosta: È che mi mancava sbagliare le note e usare il pretesto della tastiera che si muove per giustificarmi (Ride). No, è che in questi tre anni mi è mancato molto il palco. E poi, già io sono stato felice di rincontrare la tastiera con la molla, quindi penso che anche al pubblico piacerà. È sempre bello tornare in una stanza e rivederla come l’avevi lasciata ai bei tempi. Ho anche tanti giocattoli nuovi. La tastiera è sempre quella, lo spettacolo no.
È proprio la stessa sospensione di 20 anni fa?
Boosta: La stessa identica del 1998, un’opera d’arte dei Mutoid. Pesa più di 100 chili, però almeno non faremo impazzire i tecnici come nell’ultimo tour. Lì, per dare al pubblico una visione totale di cosa suonassi, tenevo sospeso al soffitto un pianoforte di 142 chili. Tu ora immagina gli accordatori, tutti signorotti attempati perché comunque è un mestiere che sta scomparendo, che entravano nel locale e chiedevano «Ma dov’è il pianoforte?». «È lassù!». E giù bestemmie in tutte le lingue.
Già me li immagino. Però è per una buona causa.
Boosta: Io vado a vedere un concerto, non a sentirlo. Ed è una meravigliosa responsabilità per noi che stiamo sul palco quella di avere il concerto più bello e coinvolgente possibile. È un ringraziamento verso chi ha comprato un biglietto, preso la macchina, parcheggiato, fatto la coda, è entrato e ha fatto le transenne. Non è una cosa da poco e, se posso permettermi una piccola nota di polemica, le nuove generazioni di artisti dovrebbero tenerlo sempre a mente. Il concerto rimane un evento unico. (Max e Samuel iniziano ad applaudire).
Litigate meno fra voi o siete peggiorati con gli anni?
Samuel: Peggiorati. Però con gli anni mi sono reso conto che i Subsonica hanno bisogno di una specie di tensione interna. È quella che tiene in equilibrio tutto. Tranquillità e pace non porterebbero a niente di buono.