Fin dalla fine degli anni ’90, quando ha fatto la sua apparizione sulla scena bolognese per poi imporsi su scala nazionale con brani come Giorno e notte insieme a Fritz Da Cat e Joe Cassano, Inoki è sempre stato genio e sregolatezza. Benedetto da un talento fuori dal comune, che lo ha trasformato in un’icona del rap e ha dato vita a dischi di culto – da 5° Dan al mixtape PMC vs Club Dogo – è stato uno dei primi a firmare per una major (la Warner, nel 2007), ma è stato anche uno dei primi a distaccarsi dal mercato per avere la libertà di fare quello che voleva.
Figura istrionica e a tratti difficile, nel tempo è spesso sparito per lunghi e turbolenti periodi, ritirandosi in un underground che lo ha sempre accolto a braccia aperte e mai lo ha abbandonato. È stata la sua personalità dirompente, oltre che la sua musica, a renderlo così amato: non ha peli sulla lingua e dice sempre (spesso via social) quello che pensa, anche quando può portarlo a dissing e incomprensioni. Rivendica il suo diritto di sbagliare, riprovare, cambiare idea e posizione, mantenendo però la sua coerenza di fondo e una grande capacità di guardare al quadro generale. Non a caso, è quasi impossibile trovare qualcuno che gli serbi rancore, o anche solo a cui sia antipatico.
Peccato però che da qualche anno sembrasse diventato un nome per pochi, un punto di riferimento per un circuito ristretto popolato da fan nostalgici dei bei tempi andati. Almeno fino alla settimana scorsa, quando è arrivato l’annuncio del suo nuovo album in uscita, Medioego, che segna il suo ritorno nel circuito mainstream, essendo pubblicato da Asian Fake, l’etichetta affiliata a Sony Music che ha lanciato Coma_Cose, Ketama126, Venerus e molti altri. Abbiamo avuto modo di ascoltarlo in anteprima, ed è un lavoro sorprendente e sorprendentemente bello, che unisce il meglio dei due mondi ed è lontano anni luce da quello che probabilmente si aspettano i suoi fan. «Non è solo un disco per adulti: anche i ragazzini lo ascolteranno, perché in un modo o nell’altro sono sempre riuscito a rimanere sulle loro bocche», afferma Inoki in collegamento via Zoom dal Salento, dove vive da qualche tempo. «Anzi, mi sento di nuovo come quando avevo 16 anni. Voglio continuare il percorso di sfida con me stesso. A volte ho vinto, altre ho perso, altre ho pareggiato; oggi vorrei solo essere lì quando arriverà il momento di battere il calcio di rigore».
Com’è nata l’esigenza di un album come Medioego?
Diciamo che nell’ultimo periodo sono tornato nel mondo reale: ho conosciuto la mia compagna attuale, abbiamo avuto una bambina e ho cambiato vita. In precedenza avevo sempre trovato l’arte nel disagio e quindi non mi sentivo particolarmente ispirato dal rap mainstream. Preferisco stare con dieci persone che hanno una scintilla di genio creativo che con 10 mila che non capiscono un cazzo, per intenderci, e anche per questo motivo avevo perso i contatti con il mondo del rap che contava: era diventata una faccenda troppo legata alla moda, in cui non mi ritrovavo più. Però, in questi anni, mi accorgevo che quando andavo in giro la gente mi riconosceva e mi fermava, nonostante tutto. Al che mi sono detto: vediamo cosa succede se provo a riavvicinarmi alla scena di oggi. Rappare su un sound nuovo non mi spaventava, perché so farlo su qualunque cosa. All’inizio ho fatto un po’ fatica a digerire le sonorità di oggi, ma poi studiandomele bene sono riuscito anche io a entrare in quel viaggio. Sono i contenuti, o meglio l’assenza di contenuti, che ancora non riesco a capire. Tanti pezzi rap di oggi ti portano in vicoli ciechi, in binari morti.
Però rendono più di quanto rendessero i pezzi dei rapper della tua generazione.
Appunto: ho capito che è venuto il momento di sfruttare meglio il talento che ho. Mi sono sempre visto come il ragazzo che sale sull’autobus senza biglietto, ma adesso ho 40 anni, forse è il caso che quel biglietto lo paghi e che magari mi compri anche una macchina (ride). Bisogna ringraziare chi ha portato il rap di oggi a diventare il nuovo pop, altrimenti non avrei mai avuto queste possibilità. Ad aiutarmi a creare un ponte tra il mio universo di riferimento e quello attuale è stato Karkadan (membro della Dogo Gang ed ex manager di Young Signorino, nda), che mi ha messo in contatto con Asian Fake. Forse all’inizio anche loro si aspettavano di trovarsi davanti una specie di fuori di testa, anziché un uomo e un padre, ma ci siamo trovati subito bene.
In effetti le leggende metropolitane su di te, in questi ultimi anni, si sono sprecate: si diceva che tu avessi smesso con il rap per fare il rider che consegna il cibo a domicilio o che ormai ci eri rimasto sotto con la droga…
Il gossip in effetti mi ha tenuto in piedi (ride). Da quando esistono i social, ho documentato tutti i miei deliri e le mie avventure condividendo post e storie su Facebook. E in più ho sempre dato confidenza a tutti, abbracciando il pubblico ai live e chiacchierando a raccontare i fatti miei fino a quando non chiudeva il locale. In realtà, ovviamente, queste leggende metropolitane non sono vere, anche se è vero che c’è stato un lungo percorso per arrivare fin qui: ho vissuto a Bologna fino al 2012, quando ho attraversato un periodo un po’ buio che mi ha portato a esplorare un sottobosco veramente dark. Poi, in maniera piuttosto rocambolesca, sono finito ad abitare a Milano, facendo cose che non si possono dire sui giornali. Alla fine ho conosciuto la mia compagna e lei mi ha rimesso in riga, per così dire. Ora ho aperto una partita Iva, pago l’affitto, sono una persona regolare.
Una delle più grosse sorprese per i tuoi fan, leggendo la track list, è sicuramente trovare il nome di Salmo tra i produttori. Com’è nata questa collaborazione?
Con lui ci fu un dissing, anni fa, perché all’inizio ero contro a tutta quell’ondata di artisti che mi sembrava avesse portato via il “mio” rap. Mi sembrava che la scena si fosse trasformata in un ambiente berlusconiano, che non c’entrava nulla con i valori con cui ero cresciuto io. Salmo, ovviamente, si era trovato un po’ in mezzo a questa situazione: non ce l’avevo con lui personalmente, anzi, ho apprezzato molto il percorso che ha fatto e riconosco che siamo in sintonia sui valori di fondo dell’hip hop. A maggior ragione, quindi, è stato bello poi ritrovarsi lungo la strada. Quando c’è stato il dissing tra lui e Luché (tramite storie di Instagram, nell’estate 2019, nda), ho colto la palla al balzo per dirgli che lo stimavo; lui mi ha confessato che era mio fan quando era ragazzino, e a quel punto gli ho chiesto una mano in maniera molto aperta. Ricordo ancora il messaggio che gli ho mandato: «Frate, sono in un momento difficile: anziché farci dei complimenti a vicenda, perché non mi mandi un paio di beat e proviamo a fare un po’ di musica?». Da lì è nato tutto.
A dichiararsi tuoi fan non sono solo quelli della generazione di Salmo: capita spesso anche con trapper giovanissimi, che in teoria non hanno molto in comune con te. Cosa ne pensi?
Che qualcosa non ha funzionato (ride). Con tutta quella nuova wave ho avuto una mezza discussione quando l’anno scorso erano morti due quindicenni di Terni per aver bevuto del metadone pensando fosse codeina. Lì mi ero incazzato via social con quegli artisti che non prendevano posizione nei confronti dello sciroppo per la tosse usato come droga. Anche se penso che la cosa migliore, per conoscersi e confrontarsi davvero tra chi ha idee diverse, sia beccarsi in tranquillità di persona: sono tutti buoni a citarmi come maestro, ma non altrettanto ad alzare il telefono per chiedermi di prendere un caffè insieme.
Nel disco, a un certo punto, dici che “tutti vogliono l’Inokiness di Bolo by Night”. Essere rimasto nell’immaginario collettivo con brani iconici come quello ha anche dei risvolti negativi?
Ovviamente resti un po’ segnato a vita da pezzi del genere: ogni volta che faccio un live mi preparo una scaletta curatissima e poi mi trovo lì qualcuno che è venuto solo per sentire Bolo by Night, Giorno e notte e per farsi una foto. Da una parte è frustrante, perché sono canzoni che ho fatto a 18, 20 anni, ora ne ho 40 e passa e nel frattempo ho fatto di tutto… Oltretutto sono strofe nate davvero in freestyle, manco mi ricordo dov’ero o cosa facevo quando le ho scritte. Ma abbiamo spaccato talmente tanto con quella roba che è difficile riuscire ad andare oltre, lo capisco e lo accetto. E onestamente ne vado ancora fiero, a differenza di alcuni che hanno rinnegato le loro vecchie cose: le faccio sempre, così come Vasco fa sempre Albachiara nei suoi concerti.
Il periodo che va tra la fine degli anni ’90 e i primi anni ’00, quello in cui hai scritto quelle canzoni, esercita un fascino fortissimo anche su ragazzi che ai tempi ancora non erano nati. Perché, secondo te?
All’epoca eravamo davvero quattro scappati di casa e nessuno ci pagava per fare rap, però ci credevamo tantissimo. Secondo me quello che manca all’hip hop di oggi è proprio questo: la voglia di fare, il sacro fuoco, il crederci a prescindere. E forse, con la loro nostalgia di quel periodo che non hanno mai vissuto, i ragazzini cercano proprio quello. Oggi è più che altro un mondo di mercenari, non c’è spirito ribelle o cultura d’avanguardia. La colpa, purtroppo, è anche di molti della mia generazione, che non hanno saputo tramandare la tradizione.
Molti dischi rap stampati all’epoca, magari in pochissime copie perché nessuno li comprava, oggi valgono cifre folli.
Non sono mai stato un collezionista, perché avendo avuto una vita da nomade non ho conservato neanche i miei, di dischi. Ogni tanto cerco di ritrovarli, ma sarebbe inutile, perché poi li perderei di nuovo con il trasloco successivo. Capita che ne compri qualcuno per supportare un progetto, ma non ho il culto degli oggetti fisici. Anzi, sono contento che adesso la musica sia così fluida: da ragazzino scleravo perché non avevo i soldi per comprarmi i cd, è molto meglio oggi.
Ti piace il rap di oggi?
Guarda, in realtà non ti saprei dire. Non ho molto tempo per ascoltare canzoni che non siano quelle che faccio per lavoro. E anche in quel caso, quando si tratta di fare la mia musica preferisco cercare ispirazione in altre cose, come la natura, la tecnologia, il cinema, l’attualità. Nel tempo libero, preferisco sentire roba che mi rilassa: roots reggae, funk, roba anni ’70 in cui ritrovo un suono pazzesco che credo non esista in nessun altro decennio. In generale, sono per la musica che mi fa prendere bene: i Police, Michael Jackson, Stevie Wonder…
Un’altra cosa che distingue la scena di oggi da quella di ieri è la sua composizione sociale: un tempo eri uno dei pochissimi rapper ad avere vissuto davvero la strada, oggi invece ci sono molti ragazzi che crescono in quartieri disagiati e trovano nel rap la loro valvola di sfogo.
Io ero bello disagiato, sì. E ho ancora addosso quella stessa rabbia sociale: non amo i ricchi, non riesco a rapportarmici, ed è un po’ un mio limite, perché è difficile trovare il tuo posto in una società fondamentalmente capitalista, se hai questo problema. Un tempo chi faceva rap era ricco, perché se avevi bisogno di lavorare per vivere non avevi certo il tempo di dedicarti alla musica e alla cultura. Però molti volevano fare finta di fare i poveri, e questa finzione scenica ha fatto sì che i ragazzi che venivano davvero dalla strada si rivedessero nel rap, e iniziassero a farlo: il che è stata un’ottima cosa. Ora è il contrario, sono i poveri a far finta di fare i ricchi, sfoggiando cose che non possono permettersi: spero che prima o poi troveremo un equilibrio e tutti saranno in pace con le proprie origini (ride). Detto questo, la strada io non l’ho vissuta per scelta, ma per caso: mio padre aveva dei trascorsi di quel tipo e non era finito bene, e quindi ho sempre preferito trovare la mia via d’uscita attraverso la musica. Non sono mai stato un criminale, e ne vado fiero.
Tuo padre è una figura leggendaria, a suo modo: si dice che abbia recitato nel film Amore tossico…
Sì, è tutto vero. Mio padre, che comunque è un grande, l’ho conosciuto a 12 anni, perché prima era sempre in galera: i miei nonni, che mi hanno fatto da genitori, per non dirmi la verità mi dicevano che faceva il rappresentante e viaggiava molto. Io questa cosa del film la vivevo malissimo da ragazzino, perché ovviamente significava soprattutto che aveva avuto la vita segnata dall’eroina e c’era poco di cui andare fieri: quando la gente mi diceva «cazzo, che culto Amore tossico!», a me veniva da rispondere «prova a viverlo da figlio». Non bisognerebbe rendere culto il disagio, ma renderlo arte. L’hip hop dovrebbe servire proprio a questo: a prendere una situazione difficile e a incanalarla in qualcosa di bello, come una strofa, uno scratch, un beat, un graffito, un passo di danza. Anzi, se posso dirti cos’è l’hip hop per me…
Prego.
Dev’essere un riscatto collettivo, e non un riscatto personale, perché così ha tutto un altro valore. L’individualismo – «io sono il king, io sono il capo, io sono il migliore» – ti porta in alto, ma ti lascia anche da solo, e ti fa soffrire. Se invece lassù ci arriviamo tutti insieme, è come un grande party in cui ci sentiamo tutti felici e arricchiti, in tutti i sensi.