Più o meno un anno fa, il 28 dicembre del 2015 Lemmy Kilmister dei Motörhead se ne è andato. Lo ha fatto a modo suo: veloce, senza troppe parole. Nel giugno del 2014 era sul palco dell’Ippodromo di Milano (sotto la pioggia), un anno e mezzo dopo non c’era più. Phil Campbell, il suo chitarrista, impegnato fin dal giorno della sua prima audizione con i Motörhead nel 1984 in un’eterna lotta tra il volume della sua chitarra e quello impossibile del basso di Lemmy («Quando l’ho sentito suonare la prima volta non ci potevo credere» ha raccontato) si è trovato senza band, senza amico e senza quel suono furioso di cui è difficile fare a meno: “We are Motörhead and we play rock’n’roll” come diceva Lemmy all’inizio di ogni concerto, compresi quelli del 20 e 21 novembre 2015 allo Zenith di Monaco, poche settimane prima di morire, pubblicati nell’album Clean your Clock. «Non è successo niente di piacevole da quel giorno» dice Phil Campbell al telefono dal backstage di un concerto da qualche parte in giro per l’Europa. Perché dopo tutto quel casino e dopo aver visto piazzare una statua di Lemmy nel posto solitamente occupato da lui al Rainbow Bar & Grill sul Sunset Strip, Phil Campbell ha trovato il modo di ricominciare ed è tornato sul palco. E lo ha fatto in un modo imprevedibile ed esaltante, in puro stile Motörhead, entrando in studio con i suoi tre figli Todd, Dane e Tyla (rispettivamente chitarra, basso e batteria) e il cantante Neil Starr, registrando un Ep di 5 pezzi intitolato Phil Campbell and the Bastard Sons (Bastards era anche uno dei nomi che Lemmy aveva scelto per i Motörhead) e poi partendo subito in tour con i suoi ragazzi.
A dicembre hanno suonato in Germania come spalla dei Saxon, a Capodanno faranno una grande festa a Pontypridd, il paese del Galles dove è nato: «Non è esattamente la mia nuova band» dice, «Perché ovviamente suono insieme ai miei figli praticamente da quando sono nati. Adesso ho solo più tempo da passare con loro».
Il debutto di questa strepitosa famiglia hard rock è nato negli studi Stompbox aperti da Todd Campbell in Galles, mentre papà Phil lavorava ad un album solista: «Questo Ep è una buona presentazione dell’identità della band. Ha ottime canzoni, suonate bene e prodotte meglio». C’è persino un pezzo lento, Life in Space, in cui i figli di Phil dimostrano di aver studiato bene le fondamenta che stanno alla base della prova di forza e della velocità della musica che suona loro padre.
Il resto dell’EP, da Big Mouth a No Turning Back è un modo per sventolare la bandiera di uno stile e di un suono irriducibili, con orgoglio e senza paura, perché come diceva Lemmy: “Il rock non è roba per codardi».
I Motörhead sono diventati un’istituzione grazie all’autonomia di pensiero e all’ironia di Lemmy, e il volume è la loro eredità. Non ci sono molti modi per descrivere l’assalto che hanno portato alla tradizione rock’n’roll: “Fuck Elvis, Lemmy is King” si legge sulla maglietta indossata da Dave Grohl in una foto pubblicata sul profilo Twitter dei Foo Fighters.
«Non ci saranno più tour e cose del genere, e non ci saranno più dischi» ha scritto il batterista dei Motörhead Mikky Dee subito dopo la morte di Lemmy «Ma la fiamma continua a bruciare e Lemmy vive nei cuori di tutti». Phil Campbell è il primo a farsi avanti per tenerla viva, e lo fa alla grande con i suoi Bastard Sons. La lezione, come dice prima di tornare sul palco («Devo andare, amico. Devo fare le prove con i miei ragazzi») è la stessa dei Motörhead: essere veri, suonare solo la musica che ti piace, e parlare il meno possibile.