High Street Kensington, a Londra, è probabilmente nella Top 5 delle roccaforti di inglesi bianchi con la puzza sotto il naso in una metropoli multiculturale. Per fortuna ci sono i Bring Me The Horizon, che arrivano da Sheffield, nel nord dell’Inghilterra, e portano con loro una ventata di antisnobismo. “Non io!” dice Jordan Fish, tastierista. “Sono cresciuto a un’ora da Londra, e quando mi sono unito al gruppo ero quello del sud, il fighetto. Adesso ho imparato a capire la cultura del nord – una volta che ti ci abitui, non è poi così male.”
Oltre alla rivalsa socio-culturale, i Bring Me The Horizon hanno portato con sé i tatuaggi. Numero di tatuaggi su High Street Kensington prima dell’arrivo dei Bring Me The Horizon: 4. Numero di tatuaggi su High Street Kensington dopo l’arrivo dei Bring Me The Horizon: 1246 (N.B.: ce li hanno tutti addosso loro). Ho conversato con Oliver Sykes (voce) e Jordan Fish del loro nuovo album, That’s the Spirit, della bromance che si è formata tra i membri del gruppo, e di quanto le canzoni di Pharrell piacciano ai depressi.
Congratulazioni per il nuovo album. Come ne celebrerete l’uscita? Vi attaccherete ai social per vedere come sta andando?
Jordan: A dire il vero non ne possiamo più. È tutto l’anno che ci stiamo dedicando al nuovo album, ma ora che non è più nelle nostre mani possiamo finalmente aspettare i risultati delle classifiche e suonare le nuove canzoni. Continuano tutti a ripeterci che potremmo arrivare in testa alle classifiche. Per noi non è fondamentale, ma è inevitabile che tutte queste aspettative finiscano un po’ per darci alla testa. Una volta superato questo stress, potremo finalmente goderci l’album.
Quanto è durato il processo, dalla stesura dei testi a That’s the Spirit come lo conosciamo noi?
Oliver: Volevamo mantenerci freschi dopo il successo dell’album precedente. E poi ci siamo divertiti un sacco, durante il tour di Sempiternal, e non vedevamo l’ora di ricominciare da capo. Abbiamo scritto il nuovo album tra gennaio e marzo, l’abbiamo registrato tra aprile e maggio. A giugno abbiamo mixato, e That’s the Spirit era pronto il primo luglio. Sei mesi senza fermarci mai.
Avete registrato l’album a Santorini. Come mai?
Oliver: Avevamo già registrato all’estero altre volte, ma mai in un posto simile – di solito registriamo in complessi industriali al gelo dell’Inghilterra. Registrare un album è già di per sé stressante, e questa volta volevamo renderla un’esperienza positiva. Oltre al fatto che ne abbiamo avuto l’opportunità perché That’s the Spirit l’abbiamo prodotto e registrato noi stessi, e di solito è quella la spesa maggiore.
Avevate già scritto e composto tutto quando siete arrivati in Grecia?
Jordan: Ci mancavano i testi della traccia di apertura, Doomed, e della seconda, Happy Song, perciò la Grecia ha favorito la stesura di un paio di brani fondamentali. In Inghilterra avevamo registrato demo per tutti i pezzi. Credo sia stata la decisione giusta, perché abbiamo scritto l’album a Sheffield, a casa di Oli, e il tempo faceva schifo. Finire l’album in Grecia è stata la luce alla fine del tunnel, perché alla fine di un processo così lungo perdi la testa.
Oliver: E Jordan ha quasi perso le gambe.
Come?
Jordan: Stavo seduto a computer tutto il giorno. A un certo punto pensavo di stare per morire.
Oliver: C’erano giorni che Jordan non usciva di casa. A volte la distanza più lunga che percorreva era dal salotto alla cucina, per prendere da bere.
Jordan: Viviamo in città diverse, per cui prendevo la macchina la domenica sera, arrivavo da Oli, lavoravamo fino a venerdì sera e poi tornavo a casa per passare il fine settimana con mia moglie. Ci sono state un paio di settimane in cui sono uscito di casa soltanto per comprare dei viveri. Non è che ci abbia fatto bene alla salute, ma ne è decisamente valsa la pena.
Vorrei che mi parlaste di Happy Song. Mi pare di aver colto del sarcasmo. È vero che sarebbe bello se la cultura pop passasse più spesso il messaggio che “va bene anche non stare bene”.
Oliver: Tutto l’album è incentrato sul concetto che va bene anche non stare bene, anzi, è meglio non stare bene, o se non altro accettare di non stare bene. Perché nessuno sta bene. In troppi cercano di nascondere la propria depressione invece che imparare a conoscerla. C’è chi ha attaccato la maniera in cui ho reagito alla mia, di depressione: dicono che provo gusto a flirtare con il nichilismo, ma è soltanto perché ho imparato che ci sono demoni che non si possono distruggere. Il punto focale di Happy Song è il modo in cui ci riempiamo di informazioni superficiali con i nostri cellulari, i social media, per non dover rimanere soli con i nostri pensieri. È la cosa peggiore che si possa fare, perché ignori il problema, lo rimandi e intanto quello cresce e si fa sempre peggio.
Quanto devo cogliere il rimando a Happy di Pharrell?
Oliver: Happy non è per niente una canzone felice. La felicità non è un sentimento di cui si è consapevoli. Quando sei felice te ne rendi conto a malapena, non ti metti a scriverlo, perché la tua mente è completamente sgombra da qualsiasi tipo di preoccupazione. Una canzone che ti deve ripetere “sono felice” per me è un esempio di canzone per depressi: è per questo che è così popolare. Siamo tutti depressi, in un modo o nell’altro. È l’unica emozione che chiunque abbia provato, mentre c’è chi passa la propria intera esistenza senza aver mai provato felicità. Le uniche persone che conosco che adorano quella canzone sono incasinate come poche.
Jordan: A me piace abbastanza. Non so cosa dica di me.
Molti gruppi finiscono il concerto e se ne vanno a casa in macchine separate. Quando succede, penso che sia il momento di chiudere bottega.
Sotto che aspetti credete di essere migliorati, dall’uscita di Sempiternal?
Jordan: All’inizio di Sempiternal non eravamo coesi. Al tempo mi sembrava che fossimo la band migliore del mondo, ma passare tutto quel tempo in tour insieme ci ha insegnato a lavorare insieme, a intuire cosa non funziona. Comporre in gruppo è un processo bizzarro e complicato, perché ci sono in ballo i caratteri e gli umori di tutti. Più conosci una persona, più ti senti a tuo agio a esprimerti, più scrivi meglio.
Capita mai che vi stanchiate di passare così tanto tempo insieme?
Oliver: A dir la verità, siamo grandi amici anche nella vita. Stiamo insieme anche quando non siamo in tour. Abbiamo mentalità molto simili. Solo tra noi ci capiamo. Gli altri non capiscono il nostro senso dell’umorismo, non sanno cosa ci piace o non ci piace. Siamo così affiatati perché siamo, l’uno per l’altro, la cosa più importante che abbiamo.
Per molte band si tratta di un lavoro, e poi tutti a casa.
Oliver: Molti gruppi finiscono il concerto e se ne vanno a casa in macchine separate. Quando succede, penso che sia il momento di chiudere bottega.
Il progetto Bring Me The Horizon è cominciato quando eravate molto giovani. Se aveste fatto il tutto esaurito a Wembley a diciotto, diciannove anni, pensate che sareste diversi ora?
Oliver: In un certo senso, è stata una benedizione il dover fare tutti i piccoli passi tipici di una band alle prime armi, anziché raggiungere il successo di colpo. Le band che vengono sorprese dalla fama istantanea non se la passano meglio. In certi casi, tutti gli dicono che sono i migliori, e quelli si montano la testa, e poi fanno un album che non è un granché e tutti se ne dimenticano. Quando abbiamo cominciato, i nostri genitori ci portavano ai concerti in macchina; poi abbiamo preso la nostra prima auto usata, poi abbiamo preso un furgone, quindi un furgone più grande, quindi un tour bus. Abbiamo volato con le peggiori compagnie, solo adesso ogni tanto voliamo in business. Siamo entusiasti e frastornati dal nostro successo: è la prima volta che ci capita. C’è chi ci chiede quali siano le nostre ambizioni nei confronti della band, ma non ne abbiamo, perché tutto quello che stiamo facendo adesso è più di quanto potessimo anche solo fantasticare, e se stai sempre a pensare alla prossima mossa significa che non ti stai godendo il momento. E allora, se non puoi godertelo, che senso ha fare quello che fai.