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I Muse: «La società ha preferito l’efficienza delle macchine all’imperfezione dell’uomo»

Il nuovo album "Drones" è uscito il 9 giugno e il 18 luglio suoneranno a Roma per l'unica tappa italiana. Ma per essere uno che aspetta la fine del mondo, Matthew Bellamy è piuttosto tranquillo
Muse, foto stampa

Muse, foto stampa

Per essere uno che aspetta la fine del mondo, Matthew Bellamy è piuttosto tranquillo. Sorridente, rilassato, si mette comodo su un divano e dice: «Sono pronto». Sembra uno studente superintelligente che si è preparato le risposte a tutte le domande. Perché con un disco come Drones, il settimo dei Muse, sa che saranno molte.

Si è sempre detto che i Muse sono un gruppo apocalittico, ma non era niente in confronto a Drones: un concept album che parla dello strapotere della tecnologia e della trasformazione dell’uomo in un drone destinato a distruggere tutto, soprattutto sé stesso. Musica rock che inquieta e non ha nessuna voglia di intrattenere. Potete ascoltarlo qui:

Matt fa un sorriso furbo: «Diciamo che stavolta abbiamo deciso di impegnarci e fare le cose per bene». La cosa interessante è che poche altre volte negli ultimi anni un disco è stato così al passo con i tempi. Mentre Matt racconta come è nata l’idea di scrivere una storia che sta più o meno a metà tra il disagio interiore di Tommy degli Who e l’oppressione globalizzata di The Wall dei Pink Floyd, i governi dell’Unione Europea discutono della possibilità di controllare l’esodo dei migranti sulle coste del Mediterraneo bombardando i barconi nei porti della Libia. Con i droni, appunto. «Non abbiamo inventato niente, sono concetti, paure e idee che sono stati espressi anche in passato da artisti e scienziati e che oggi sono tornati ad essere rilevanti» dice Matt.

In questo disco i Muse hanno messo subito le cose in chiaro: nessuna sperimentazione, poca elettronica (il disco è stato registrato a Vancouver con il produttore-martello degli AC DC Robert “Mutt” Lange), tutto il loro universo rock nei primi due pezzi (Dead Inside e Psycho, con un riff di chitarra che i fan hanno già imparato a cantare: «Abbiamo fatto un tour in Inghilterra nei piccoli club. Mai vista una risposta del genere ad una canzone nuova») e poi una raffica di parole. Come se volessero costringerti ad ascoltarle: “Libera un milione di droni, rinchiudimi e poi cancellami”, “Un Dio assente, una dittatura silenziosa, ipnotizzati da un altro burattinaio”, “Human drone, killing machines, fucking psycho”, un estratto da un discorso profetico di John Fitzgerald Kennedy (“Siamo soggiogati da una cospirazione monolitica e instancabile che agisce in segreto per espandere la propria influenza”) ed un finale desolante che ovviamente prevede la distruzione dell’umanità (“I più grande cacciatore del pianeta resta solo, senza più nessuno da amare”), e un requiem che si chiude con la parola “Amen”.

Tutto bene, Matt? Ecco la spiegazione di tutto quello che gli è passato per la testa nell’ultimo anno: «Drones è un racconto basato su riflessioni personali mischiate con immagini di un futuro distopico. Il concetto base è l’interazione tra l’uomo e la tecnologia che diventa uno scontro». Viene voglia di replicare come si farebbe al bar: in questa ennesima apocalisse siamo fottuti fin dall’inizio come al solito? «Bè, la storia di Drones è quella di una caduta libera, in cui la nostra trasformazione in droni è una metafora della disumanizzazione. Ma ci possiamo ribellare».

Già, però nel disco quando sembra che possa succedere (in Defector, Revolt o Aftermath: “Non puoi farmi il lavaggio del cervello, non puoi controllarmi, sono un disertore” “Siamo io e te contro il mondo. Siamo liberi, ora e per sempre”) va tutto male (The Globalist: “Non sei mai stato amato davvero, sei stato solo tradito”) e alla fine non si capisce se il protagonista (in realtà non si sa nemmeno se è uno o più di uno) riesce a liberarsi oppure no. «Sì, non è chiaro» dice Matt tutto soddisfatto, «C’è un doppio finale. Uno è positivo: l’uomo riscopre sé stesso e smette di venire manipolato. L’altro invece è tragico: distrugge il mondo e rimane solo, perseguitato dai fantasmi». Decidete voi, insomma. «Le opere d’arte che mi piacciono di più sono quelle che ti fanno riflettere e ti fanno arrivare alla tua conclusione».

Va bene, proviamoci: in questa desolazione incombente l’unica cosa che ci può salvare è l’amore. «Sì, ma prima dell’amore c’è la capacità di trovare la forza interiore e la voglia di vivere» risponde Matt, «Solo così si diventa immuni da ogni forma di controllo».

La conversazione si fa sempre più seria, tanto vale buttarla in politica: c’è stato qualche fatto in particolare che ha scatenato queste riflessioni? «Ho guardato la televisione. Ricordo di aver visto un attacco di droni nello Yemen in cui è morto un cittadino americano. È una cosa illegale secondo ogni legge del mondo, ma succede. Venire uccisi da una macchina invisibile sembra una cosa da futuro distorto, invece ci sono persone che vivono già in un mondo del genere. Così ho deciso di approfondire l’argomento». Alla fine, Matthew Bellamy è veramente lo studente superintelligente che vuole sapere tutto: «Mi ha colpito un libro intitolato Predators: la guerra dei droni della CIA contro Al Qaeda».

È un saggio del giornalista embedded Brian Glyn Williams, veterano delle missioni della CIA in Pakistan, che descrive nei minimi dettagli centinaia di azioni militari condotte con i droni e conclude con un dato allarmante: l’esercito americano oggi costruisce più aerei manovrati a distanza che veicoli pilotati dall’uomo. «Vogliono anche inventare macchine dotate di intelligenza artificiale, in grado di prendere decisioni autonome, tra cui quella di attaccare. A me è sembrata una cosa spaventosa.
E anche un ottimo argomento per scrivere un concept album».

La minaccia viene quindi dalle macchine, ma anche da chi le manovra: «L’ossessione per l’efficienza fa dimenticare le conseguenze delle decisioni prese in base a calcoli e numeri. Per questo abbiamo leader politici che si comportano come macchine. È il trend del 21esimo secolo: le persone con tendenze psicopatiche diventano persone di successo». Insomma, stavolta i Muse hanno voluto descrivere un’apocalisse piuttosto realistica (nominano anche esplicitamente la CIA, cosa che non si sente spesso in un disco di questi tempi).

Bisogna vedere come la prenderanno in America, ma come ha già detto, Matt è pronto a rispondere: «La nostra società ha preferito l’efficienza delle macchine all’imperfezione dell’uomo. È una transizione pericolosa che è arrivata ad un punto critico. Potremmo ritrovarci a dire: quello è stato il decennio in cui abbiamo sbagliato. Se inventiamo macchine capaci di uccidere, poi sarà difficile fermarle». Ok, ma oltre a Terminator esistono anche macchine buone, persino droni. In Africa e in alcune zone isolate del mondo vengono usati per trasportare medicine, cibo, libri. «Ogni nuova tecnologia è positiva, ma inevitabilmente riduce il contatto tra le persone».

Non è per questo che esistono gli artisti? Matt scoppia a ridere: «La musica ha meno influenza culturale rispetto al passato ma credo che sia ancora uno strumento di comunicazione potente. Ha una natura astratta che si rivolge direttamente alle emozioni della gente». Basta avere un messaggio da far passare attraverso una chitarra, che in fondo è pur sempre un pezzo di legno e ferro con un po’ di elettricità dentro.

Chiedo a Matt un barlume di speranza, e lui non si tira indietro: «Drones è un invito a difendere la libertà di pensiero e la nostra umanità per evitare un mondo da incubo. Rimanere in contatto con noi stessi e proteggere la nostra capacità di trovare l’amore sicuramente renderà le cose migliori». Con buona pace di Stephen Hawking e degli scienziati che hanno detto chiaramente: un giorno le intelligenze artificiali prenderanno il controllo. «È possibile» dice Matt «A quel punto possiamo solo sperare che non facciano errori». Altrimenti dove possiamo andare ad aspettare la fine del mondo? Matt ride, o forse dice sul serio: «In Svizzera. Ci nascondiamo tutti tra le montagne».

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