A lungo i Simple Minds sono stati la band che tra intenditori si nomina per strappare un sorriso ironico ma complice. I loro album erano rifuggiti, e i loro concerti liquidati come redditizia concessione alla nostalgia. Lo stesso Jim Kerr, nel pubblicare un disco solista (e con lo pseudonimo Lostboy, “il ragazzo che ero e con cui volevo riconnettermi”) pareva manifestare sofferenza. Poi, la svolta: un tour dedicato ai primi album; niente hit, niente Don’t you o Alive and Kicking, ma i pezzi elettronici e sperimentali dei primi ’80. Il successo del tour e la riconsiderazione critica hanno portato all’album Big music, che malgrado alcune concessioni al vecchio arena-rock (comunque perseguito da molte giovani band) ha ottenuto ovunque buone recensioni. Tornato sulla mappa, Kerr si gode il momento: il tour attuale, di passaggio anche in Italia (21 novembre, Forum di Assago), stavolta non sarà solo una malinconica cavalcata negli anni d’oro.
Ti senti sollevato, personalmente, dal cambiamento della marea?
In parte sì, ma la gente continuava a venire ai nostri concerti. Quindi ci riusciva facile accontentarci. Però che non componessimo più brani particolarmente brillanti lo sapevamo. E quando la tua stella non splende per un po’, scopri un sacco di cose su te stesso.
È stato difficile?
Dipende dal carattere. Capisco che possa esserlo. Alcuni miei colleghi, svanito il successo, hanno svanito le proprie sicurezze.
I primi nomi che sovvengono sono Boy George e George Michael.
Non faccio nomi. Comunque io e i miei compagni non ci siamo mai sentiti amareggiati nei momenti duri, né abbiamo mai pensato a espedienti per tornare sulle copertine dei giornali.
Ma ora pare che la musica stessa vi sia venuta incontro: il gusto prevalente nel rock e nel pop è più in sintonia con ciò che facevate. Hai la sensazione dell’uomo seduto sulla riva del fiume che viene premiato?
Ci sono cicli nella musica come nella moda, nell’architettura e nelle arti figurative: ogni generazione supera quella precedente, e nel contempo si ricollega a un’altra venuta ancora prima. Il punk riscopriva i primi Who, il synth-rock venerava i Roxy Music. In generale, ogni generazione ha pregiudizi verso quella prima, ma non per quelle ancora più vecchie. Mi diverte questa immagine della riva del fiume, perché implica lo stare seduti, tranquilli mentre molte band nostre coetanee cercavano disperatamente di intercettare i cambiamenti di gusto.
Voi, no di certo. Perlomeno fino all’ultimo album.
Non cercavamo di imitare quanto andava per la maggiore, no. Volendo, è sintomo di coerenza. Ok, sto forzando le cose, qui…
Come inquadri allora il mutamento di rotta di Big music? Vi siete rinnovati guardando ancora più indietro, alle vostre radici?
Teoria plausibile. Ma nello spirito, non nei suoni, perché non credo che qualcuno possa confondere i suoni di Big music con quelli dei nostri album degli ’80.
Come vive una band come la vostra la perdita di importanza dell’album?
Per il nostro tipo di pubblico è ancora importante, ma per noi i concerti sono sempre stati altrettanto cruciali, dal vivo i nostri pezzi prendono strade tutte loro. Comunque l’industria ha tolto importanza all’album come ne ha tolta all’evoluzione degli artisti. Oggi quello che un esordiente mette fuori è giudicato con più attenzione che in passato, con meno possibilità di una seconda chance. Perciò credo ci saranno sempre meno gruppi e più artisti solisti: sono un investimento meno rischioso, che puoi controllare con un team di professionisti. Con le band è più faticoso.
Ci sono dischi di questo secolo che consiglieresti?
Non perché abbiamo lavorato insieme, ma sicuramente consiglio i Chvrches. Poi, credo che il pop dia ancora buoni dischi, quello di Pharrell nel suo genere è impeccabile. Nel rock, beh…
Niente?
Escono buoni dischi di nicchia ma non dei classici Ma in fondo se è successo col jazz e col blues, possiamo accettare che succeda anche col rock. Poi, so quante volte si è detto “Rock is dead” e non era vero. Però so anche che non sentiremo più dei Cure o degli Smiths, ma solo loro imitatori. Sono stato fortunato a crescere con David Bowie, Lou Reed, Roxy Music, Sex Pistols, e altrettanto fortunato a rientrare in una generazione che ha avuto la possibilità di creare qualcosa di originale.
A proposito di anni ’80, voi siete forse l’unica grande band che non ha lasciato video iconici.
Questa è stata una cosa molto naïf da parte nostra: eravamo più concentrati sulla musica e i concerti. E la routine dei video prevedeva, tranne rari casi, come Peter Gabriel o Talking Heads, di mettersi nelle mani di qualcun altro. Molti artisti trovavano chi faceva un lavoro sulla loro immagine – credo che Duran Duran e Depeche Mode siano un buon esempio – sviluppandola. Pensandoci, però, forse le nostre canzoni erano davvero buone, per imporsi nonostante la nostra debolezza su MTV…
Infine, la domanda da vero giornalista: conoscendo l’Italia, pensi sia vero che si sta ripigliando?
Ultimamente l’ho frequentata meno, però lo leggo anch’io su tutti i giornali. A dire il vero, io non so se conoscerò mai davvero l’Italia: è fantastica e complicata e diversissima – Milano e la Sicilia, per esempio, sono lo stesso Paese ma sono più diverse tra loro di quanto Londra è diversa dal resto del Regno Unito. Anche se lo sta diventando sempre di più.
Londra, dici?
È sempre più un crocevia che attira gente e produce soldi, ma negli ultimi anni non ha prodotto realmente cose da scuotere il mondo. Anche perché è costosa, quindi i giovani creativi ma senza soldi ne sono tenuti fuori. Però conserva il suo marchio: della Cool Britannia di Tony Blair è rimasta la Cool London. Ciò che succede nel resto della nazione non riceve altrettanta attenzione, anche nella musica le fasi di Manchester e Bristol e Glasgow sono andate in calando. Questo però in Italia è impossibile.
Perché?
Da voi nessuna città tollera che un’altra abbia più attenzione! Quindi in ogni posto ci si inventa sempre qualcosa.