Il 29 aprile 1993 moriva a soli 46 anni Mick Ronson, uno dei musicisti più influenti e allo stesso tempo sottovalutati della storia del rock. A lungo chitarrista degli Spiders from Mars, dopo la rottura con Bowie intraprese una carriera altalenante, fatta di dischi al fianco di Ian Hunter e una manciata di album a nome proprio.
Mentre si trova a Roma in compagnia di Bowie e della band, lo colpiscono due canzoni: Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi di Lucio Battisti e Io me ne andrei di Claudio Baglioni, che decide di pubblicare all’interno dei suoi primi album solisti. Forse anche per questo quando, nel 1986, l’etichetta I.R.A. di Firenze gli presenta dei provini di una giovane band toscana, Ronson decide di buttarsi a capofitto in un’avventura insolita quanto stimolante. Quel gruppo erano i Moda di Andrea Chimenti e Fabrizio Barbacci.
Non ancora uno dei produttori più noti del nostro Paese, Barbacci era un ragazzo come tanti che sognava di fare della musica il proprio lavoro. Cresciuto nel mito di Bowie, si trovò di colpo a lavorare al suo secondo album da professionista con colui che più di ogni altro l’aveva spinto a imbracciare una chitarra.
Come iniziò l’avventura dei Moda?
Tutto nacque quando decidemmo di andare a Firenze a registrare il primo disco agli studi Gas di Alberto Pirelli. Ai tempi Pirelli era già il produttore e il discografico dei Litfiba e aveva fondato la Gas, un’etichetta indipendente di cui era socio insieme a Loy e Altomare, un duo acustico che aveva ottenuto un certo successo negli anni ’70, e Daniele Trambusti, che dopo la fuoriuscita di Ringo sarebbe diventato per un certo periodo anche batterista dei Litfiba. L’intenzione di Pirelli era quella di mettersi in proprio e noi arrivammo negli studi della Gas appena prima della fondazione di quella che sarebbe diventata la I.R.A. Il tecnico che ci aiutava nelle registrazioni decise di chiamare Pirelli, convinto che potessimo interessargli e poco dopo ci propose di prendere parte al suo nuovo progetto.
Il passaggio successivo fu quello del debutto discografico.
Dopo aver accettato di buon grado la proposta di Pirelli, debuttammo discograficamente nella compilation Catalogue Issue, sorta di manifesto di quello che per Alberto avrebbe dovuto rappresentare la I.R.A. Nell’album erano presenti due brani per ognuno dei quattro gruppi dell’etichetta. Oltre a noi, c’erano Litfiba, Diaframma e Underground Life. Il passo successivo fu quello del debutto vero e proprio, Bandiera, che seppur non un grande successo commerciale ci permise di affacciarci in un mondo che fino ad allora avevamo solo sfiorato e che invece di colpo ci portò a sentire un nostro brano anche su radio mainstream. Poi, mentre stavamo iniziando a mettere mano alla preproduzione del secondo album, ecco giungere la notizia più incredibile che un gruppo di ragazzi cresciuti a pane e Bowie potesse ricevere.
Come riuscì a un gruppo di ragazzi toscani di belle speranze ma sostanzialmente sconosciuti a farsi produrre un album da Mick Ronson?
Pirelli stava lavorando a un nuovo progetto chiamato Dirty Roseanne in cui militavano Piero Balleggi dei Neon e Andi dei Sex Gang Children. Balleggi aveva vissuto a Londra per un po’ e lì aveva conosciuto Andi, cui tempo prima Ronson aveva prodotto un album. Come ti dicevo, nello stesso periodo noi stavamo lavorando a Canto pagano e i brani che ci ritrovavamo tra le mani erano tutti fortemente influenzati dal periodo glam di Bowie. Quindi, per quanto potesse apparire azzardato, Alberto decise di proporre a Ronson di seguire la produzione del disco. Benché le sonorità sì sposassero decisamente con l’immaginario per cui Ronson era diventato celebre, era difficile immaginare che accettasse la nostra proposta. Invece, dopo aver ascoltato i demo, Mick accettò immediatamente.
Quindi Ronson venne a vivere per un po’ a Firenze?
Esatto, Ronson si trasferì per alcuni mesi a Firenze e per tutto quel periodo ci trovammo ogni giorno con lui nella celeberrima cantina di Via de’ Bardi che condividevamo con i Litfiba per lavorare alla preproduzione del disco. Il primo approccio con lui fu molto particolare. Appariva come una persona molto riservata e di poche parole, ma la cosa più straniante stava nel fatto che l’unica cosa che faceva era stare seduto alla tastiera senza dire nulla. Ci invitava a suonare i brani e stava lì fermo senza dire nulla. All’inizio fu molto difficile capire quale fosse il suo modus operandi, ma col tempo tutto divenne più chiaro. In pratica, quel periodo gli serviva per entrare completamente nel nostro mondo. Per comprendere le dinamiche tra di noi, per entrare completamente nella nostra musica e nel nostro modo di comporre. In fase di preproduzione si limitò a toccare qualche volta la tastiera, senza mai prendere in mano la chitarra. Poi invece, quando ci trasferimmo a Torino negli studi di Carlo Rossi per registrare il disco, tutto cambiò all’improvviso.
Lì ha cominciato a mettere mano a tutti gli effetti alle canzoni?
Appena arrivati negli studi di Carlo abbiamo compreso il senso del suo comportamento precedente. Mick aveva un talento spropositato e una sensibilità altrettanto marcata. Mentre stava zitto e ci chiedeva di ripetere in continuazione gli stessi brani, stava imparando tutti i giri armonici, pensando agli arrangiamenti migliori e a quali modifiche apportare. Iniziò quindi a prendere in mano ogni strumento, utilizzando noi come musicisti dove ci riteneva adatti e suonando di proprio pugno tutto ciò che non lo soddisfaceva appieno. Suonò praticamente tutto, anche parti di basso e di chitarra, oltre a programmare completamente le batterie. Al di là del fatto che fossimo d’accordo o meno con quella scelta, la tendenza di Pirelli in quel momento era quella di utilizzare le prime macchine in grado di riprodurre suoni di batteria simili a quella vera. Mick si occupò anche di quell’aspetto, lavorando con queste prime consolle con cui era possibile programmare le ritmiche simulando suoni reali sulla falsariga dei pattern che avevamo deciso noi in fase di preproduzione.
Dal punto di vista musicale, qual è la cosa più eccezionale che gli hai visto fare?
Eravamo completamente estasiati dalla sua abilità. La cosa più sconvolgente però avvenne mentre registravamo il brano Se fossi. Mi sento di consigliare di andare a sentire il brano, perché contiene uno dei soli più intensi che mi sia mai capitato di sentire. La cosa incredibile è che venne registrato in un solo take. Mentre era impegnato nell’assolo, nel pieno della trance agonistica, tirò talmente tanto le corde da romperne due. Noi ci precipitammo verso di lui preoccupati di dovergli passare le corde da sostituire, ma lui ci allontanò quasi in malo modo dicendoci che avrebbe finito l’assolo con quelle che gli erano rimaste. Ci sorprese la tecnica che utilizzava per ottenere i suoni di chitarra: niente ampli né pedalini, infilava direttamente il jack nell’input di un banale registratore multitraccia a cassette che si portava sempre dietro, posizionava il potenziometro del gain a manetta saturando il segnale di ingresso e ottenendo così quella particolare distorsione.
Avete avuto modo di andare oltre l’aspetto prettamente musicale, di instaurare un rapporto più profondo con lui?
Inevitabilmente, stando così tanto tempo insieme, siamo riusciti ad andare oltre la musica suonata. Soprattutto quando andammo a Torino, dove condividevamo l’appartamento messo a disposizione da Carlo Rossi. Lo spazio non era molto e naturalmente lasciammo l’unica stanza da letto a lui, accampandoci sui divani con i sacchi a pelo. Di fatto, però, vivevamo insieme e la sera era il momento che tutti noi attendevamo con maggior entusiasmo. Lì, allo stesso tavolo, le conversazioni viravano immediatamente sul periodo vissuto con Bowie e Lou Reed. Nonostante non si fosse mai capito bene come fosse terminato il suo rapporto con Bowie, parlava di quel periodo con grande trasporto e senza alcun briciolo di rancore. Persino quando ci raccontò che Bowie non l’aveva avvisato che quello all’Hammersmith Odeon sarebbe stato l’ultimo concerto degli Spiders from Mars. E lo scoprì quando David lo annunciò al pubblico, quello sera stessa.
Quanto ha influito quell’esperienza sulla tua scelta di diventare un produttore e di lasciare in secondo piano lo strumento?
Diciamo che l’ha fatto in modo strano. Io ero già molto interessato a tutta la faccenda. Già per il primo album dei Moda mi ero occupato completamente dell’aspetto di produzione e missaggio, con i mezzi di cui disponevamo ai tempi. Paradossalmente però, fu solo quando lo sentii suonare i brani dei Moda che scattò qualcosa nella mia testa. Sentendolo suonare le parti che avrei dovuto suonare io, ho capito che forse la mia strada doveva essere un’altra. Non che non mi piacesse più la chitarra, semplicemente mi piaceva come la suonava lui. Diciamo che sicuramente andavo bene per suonare quelle cose, ma mi sentii lontano anni luce da quello che avevo immaginato fino a quel momento. A tal proposito, un giorno ci ritrovammo a parlare dei membri degli Spiders. Volevo sapere cosa pensasse dell’aspetto musicale e tecnico del gruppo. Mi disse che non erano dei fenomeni, erano dei buoni musicisti, che andavano bene per fare quella roba. Poi aggiunse: un po’ come te (ride).
C’è qualcosa del suo modo di fare che ti è rimasto impresso nella memoria?
Ricordo la semplicità e l’umiltà con cui trattava ogni cosa. Poi c’è un episodio che non scorderò mai. Un giorno venne a chiederci se avessimo un detersivo per piatti, perché ne aveva assolutamente bisogno. Una volta recuperato, si diresse al lavandino e lo usò per lavarsi i capelli. Un’immagine indelebile quanto quella dell’assolo a quattro corde.