«Mi annoio profondamente a parlare di me stessa», mormora Paola Turci.
E infatti sembra quasi illuminarsi quando le domande sono sui collaboratori di questo nuovo album, da Francesco Bianconi e Pippo Kaballà Rinaldi che hanno scritto con lei il singolo Io sono a Federico Dragogna che ha prodotto l’album che porta lo stesso nome del singolo: una raccolta di suoi brani riarrangiati, più tre pezzi nuovi.
Quindi, con buona pace della sua ritrosia, un disco del genere porta inevitabilmente a parlare sia del presente che di tutta la sua carriera.
Come valuti il tuo percorso, dall’esordio a oggi?
Sono stata molto fortunata ad aver vissuto un periodo più lento di questo. C’era un investimento sugli artisti, ricerca. E i contratti erano lunghissimi! Cominciare oggi per me sarebbe impossibile. Forse però se avessi 20 anni di nuovo, un talent mi prenderebbe: avevo una bella voce ed ero carina… Anche se io mi sono sempre considerata bruttina. Quando chiedevo a mia madre se ero bella, lei mi diceva “Sei normale”. Che credo fosse la cosa giusta da dire… Alla fine, comunque, io mi definisco “cantante pop”. Anche se poi ho fatto anche cose molto diverse, mi sento affine alla mentalità indie.
Certo però che ti è toccato fare un bel po’ di Sanremi.
Ne ho fatti in tutto nove, ma il bello è che ne ho fatti quattro da Nuova Proposta. Sono passata a Big quando ho vinto, altrimenti forse sarei ancora lì…
Come è cambiata la musica in questi anni?
Credo sia cambiata tantissimo la modalità di scrittura della formacanzone. Oggi hai trenta secondi di intro, poi bang, subito ritornello, non c’è tempo per strofa, ponte eccetera. Un tempo il ritornello arrivava dopo due minuti.
Il fatto che l’attività live sia diventata cruciale comunque non ti ha trovata impreparata.
No, anzi. Sono sempre stata insicura ovunque, tranne che sul palco. Ora testeremo l’album al concerto del Primo Maggio, poi penso a un tour nella classica formazione bassochitarrabatteria.
Pensi sia stato difficile per un personaggio come te, mettersi in luce in Italia?
Certe cose in realtà sono state più facili, perché alla IT di Vincenzo Micocci, che ha lanciato una generazione di cantautori, c’era l’attenzione e il rispetto giusti per far trovare la propria direzione. E’ anche vero che le donne negli anni 80 dovevano ritagliarsi un’immagine molto spiccata. Io sono cresciuta con Blue di Joni Mitchell, non era il tipo di cosa che potevi proporre allora; forse è uno dei motivi per cui quest’album cerca di liberare alcune delle mie canzoni del passato da suoni datati, privilegiando suoni acustici ma anche atmosfere elettroniche alla Portishead e Massive Attack. Con Dragogna mi sono trovata molto bene, e mi piacerebbe continuare la collaborazione.
Hai già in mente come?
Sono indecisa tra un album di canzoni nuove anche perché è da poco mancato mio padre ed è il tipo di cosa che induce a scrivere e un disco dedicato a Leo Ferré, con le sue canzoni in italiano. Avendo frequentato un po’ Parigi negli ultimi tempi la voglia mi è raddoppiata. Vedremo.
E le canzoni di “Io sono”, come le hai scelte?
Siccome si è trattato di selezionare i pezzi di quasi trent’anni, ho cercato di bilanciare le preferenze personali e quelle del pubblico. Poi ho valutato anche quelle che sentivo come più originali per scrittura. Se poi ci scappa anche qualcosa che piace alle radio, ben venga. In passato, è capitato che mi abbiano trasmessa, ora chi lo sa… E non solo: il pezzo nelle sue intenzioni non doveva nemmeno chiamarsi “Io sono”, ma “Io non sono”. “Poi però riascoltandolo mi sono resa conto che era un pezzo più affermativo”.