Che meravigliosa semplicità e che bella compostezza. Chi vede il film di Andrea Segre con Elio Germano Berlinguer. La grande ambizione s’imbatte in un tema musicale ricorrente che ha qualcosa di solenne senza essere pomposo, grave senza essere disperato, sereno senza essere allegro, popolare senza essere grossolano. È triste quando accompagna le immagini del colpo di stato del 1973 in Cile, ma poi, interpretato dalla voce di Daniela Pes e sovrapposto alle riprese del funerale di Berlinguer, suona come la musica d’un quinto stato in marcia. «Quando la gente esce commossa dal film», ci ha detto Germano, «lo si deve anche alla musica».
L’ha scritta Jacopo Incani, in arte Iosonouncane. È un musicista fuori dal grande pallottoliere dei numeri, dai balletti dei dischi d’oro, dai giri dei brand, dalle fiere della vanità. È un musicista, e basta. La musica è il suo modo di stare nel mondo. E musica non significa solo canzoni, per quanto siano notevoli e strambe quelle di Die oppure di IRA, due fra gli album più apprezzati degli ultimi anni. Da molto tempo scrive per film, documentari, spettacoli teatrali, un’attività che sta cominciando a sistematizzare in un’etichetta che ha chiamato Il suono attraversato e che fa «perché me la chiedono, e fra le cose che mi chiedono questa è una delle poche a piacermi e che non rifiuto. E mi dà la possibilità di confrontarmi con una poetica non mia».
Per dare un suono ai pensieri di Berlinguer tra il ’73 e il ’78 ha mescolato temi lirici e suoni materici. Di recente ha lavorato anche alle musiche di Lirica Ucraina, documentario di Francesca Mannocchi privo di voce narrante, solo le immagini della devastazione e le testimonianze dei sopravvissuti alle bombe e ai massacri dei russi che si muovono in uno scenario apocalittico. La musica di Incani riempie in qualche modo quegli spazi sventrati.
Ogni colonna sonora è fatta a modo suo. Ci sono quelle scritte diciamo così a programma, senza vedere il film perché non c’è modo o non c’è tempo. Ci sono le musiche calibrate sulle scene, incastrando suoni e immagini. Tra i due estremi, mille possibilità. Com’è andata nel caso di Berlinguer?
Ho anzitutto letto la sceneggiatura. Ho poi incontrato Andrea, abbiamo passato una giornata nel mio studio, abbiamo discusso del film e di Berlinguer come uomo. Il primo giorno di riprese gli ho inviato il tema portante del film, declinato in vari modi, con o senza armonia, con la diamonica o con la voce di Daniela Pes. Pochi giorni dopo, direi, gli ho proposto di utilizzarlo per aprire e chiudere il film.
Com’è nato questo tema? Quale effetto volevi ottenere?
L’ho scritto immediatamente, è stato davvero il primo tentativo che ho fatto. Con Andrea abbiamo fin da subito individuato la necessità di un tema che fosse allo stesso tempo solenne e popolare, austero e canticchiabile, corale e lirico. Un tema che gettasse un ponte fra certi passaggi di IRA, che Andrea ha ascoltato tanto durante la scrittura della sceneggiatura, e Rachmaninov, che Berlinguer amava e ascoltava spesso.
E che cosa ti ha spinto a enunciare il tema anche con la diamonica a bocca?
Ho voluto utilizzare lo strumento a fiato più povero di cui disponessi, ovviamente fra quelli capaci di intonare una melodia.
Perché proprio il più povero?
Come ho detto prima, l’idea era quella di un tema che fosse al contempo popolare e solenne. Un’aria canticchiabile, che funzionasse sia da sola che accompagnata da un’armonia articolata. Un tema che potesse evocare tanto la solennità austera del mondo sovietico quanto la semplicità del mondo pastorale. La diamonica ha questa forza antica e a portata di mano.
Magari mi sbaglio, ma trovo una malinconia di fondo in queste musiche anche quando commentano momenti che dovrebbero essere sereni o allegri, penso alle vacanze in Sardegna o ai grandi risultati ottenuti alle elezioni dal PCI. Sento anche un senso di minaccia incombente, un fallimento che la musica in qualche modo predice. Ha senso per te?
Una delle cose sulle quali io e Andrea ci siamo confrontati tanto è un dato biografico di Berlinguer: ha perso la madre, per malattia, quando era ancora un bimbo. Ci siamo chiesti quanto questo abbia inciso sulla sua personalità, e se in un qualche modo abbia colmato o sublimato questa immensa assenza incontrando il dolore degli altri e abbracciando un’ideale collettivo fino a farlo coincidere con la propria esistenza. Ecco, quello che in certi momenti del film ho cercato di fare con la musica è stato palesare questa assenza, farla apparire in trasparenza.
Le musiche non indugiano mai nel sentimentalismo, eppure ho trovato certi passaggi struggenti, il commento di un passato andato. Mi riferisco ai filmati d’epoca che le tue musiche rendono ancora più remoti nel tempo. C’è un elemento di nostalgia di una storia andata e forse irraggiungibile?
Francamente no. Non sono affatto una persona nostalgica. Anzi, trovo che la nostalgia sia un sentimento reazionario e quindi deprecabile.
Non ti interessa neanche, come in questo caso, la nostalgia per un tempo che non si è vissuto?
No, neanche in questo caso.
Sicuramente ti interessa la Sardegna. Da lì vieni tu, da lì veniva Berlinguer. Che effetto hai voluto ottenere usando la bena, un aerofono con un padiglione in corno di bue dal suono primitivo?
È uno strumento utilizzato per il richiamo del bestiame che comprai parecchi anni fa da un artigiano sardo. L’ho utilizzato nei passaggi del film in cui i poteri avversi al progetto politico di Berlinguer si manifestano con l’esercizio di una violenza tutt’altro che sottile. Per quanto di estrazione borghese, Berlinguer è cresciuto in una Sardegna in cui la dimensione pastorale, definita dalla sopraffazione della bestia sulla bestia e dell’uomo sulle bestie tutte, era sicuramente fortissima. Ho perciò immaginato che nel suo sentire, nella grammatica del suo inconscio, queste due cose potessero essere analoghe se non addirittura indistinguibili.
Nel film a un certo punto Berlinguer dice alle figlie «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Il Vangelo secondo Marx. Una delle figlie gli chiede del merito, lui ribatte che non va premiato per forza coi soldi per non alimentare l’istinto alla competizione su cui si fonda il capitalismo. È un concetto su cui ti è capitato di ragionare, specie in relazione a come gira il mondo della musica?
Avendo io un’estrazione proletaria, è un concetto su cui mi è capitato di ragionare fin dall’infanzia.
Sei nato nel 1983, Berlinguer è morto nel 1984. Ha rappresentato qualcosa per te, crescendo?
Vengo da una famiglia di comunisti, per noi Berlinguer ha sempre incarnato anzitutto il valore della credibilità.
E lo sei diventato anche tu, comunista? Ti definiresti tale ancora oggi?
È una questione enorme alla quale non posso rispondere su due piedi.
Allora passiamo a Lirica Ucraina, che è tutta un’altra storia. Siamo abituati a sentire la voce di Francesca Mannocchi nei suoi reportage. E invece questo è un documentario senza voce narrante, ci sono i suoni della guerra, le esplosioni, le parole dei testimoni, i rumori. E quindi in un certo senso il solo ruolo di narratrice esterna è affidato alla musica. Come hai inteso, qui, il tuo lavoro, il tuo ruolo?
La guerra crea voragini, vuoti, nuovi spazi. Porta silenzio e assenze laddove prima c’erano voci, vita. Ma la guerra è anche fatta di suono e suoni. Ho allora pensato fin da subito alla colonna sonora di questo film come all’insieme dei suoni e delle voci di questi spazi sventrati, privati della loro vita.
Ci sono colonne sonore e compositori che in qualche modo ti hanno ispirato nell’affrontare questo lavoro?
Direi il lavoro di Morricone per Petri.
Ti sei confrontato con Mannocchi o con la co-autrice Daniela Mustica su come musicare il documentario?
Ci siamo confrontati quasi quotidianamente, soprattutto, da un certo momento in poi, con Daniela. Ma ho sempre avuto massima libertà. Per Lirica Ucraina, così come per Berlinguer, ho lavorato alle musiche fin dal principio. Ma trattandosi di un documentario su un accadimento ancora in corso, ho lavorato anzitutto su sequenze di immagini girate da Francesca e ordinate per macro-temi o suggestioni visive. Solo successivamente, quando il lavoro ha iniziato ad avere una struttura, ho lavorato su singoli passaggi.
Il documentario inizia con la presentazione secca degli effetti della guerra. Prima il silenzio, poi la tua musica. Più che un tema, è una vibrazione sinistra. Sembra di sentire uno strumento a fiato trattato oppure un sintetizzatore. Cos’è? E che strumentazione hai scelto per la colonna sonora?
Ho usato diversi sintetizzatori e campionatori, pianoforte, timpano, percussioni. Lo strumento che si sente sul primo brano, Ancora guerra, è un sintetizzatore Prophet 6 che ho processato con varie macchine. Per ottenere quel suono – e soprattutto quel comportamento – non ho lavorato ad altro per due settimane intere.
Il secondo pezzo che si sente, nelle scene in stazione e poi sul ponte, mi ha ricordato certi pezzi tesi e drammatici dei Pink Floyd. Una voce inintelligibile in sottofondo diventa suono lontano e angosciante. Me ne parli?
Quando approccio una colonna sonora parto anzitutto dal mio archivio di bozze, frammenti, improvvisazioni, suoni. Scavo, vado a cercare qualcosa che possa già essere adatto o darmi giuste suggestioni. Alla fine si tratta sempre del mio suono, della mia scrittura e della mia sensibilità. Questo è l’unico brano che avevo già prima di iniziare a lavorare al film – se non sbaglio lo appuntai durante il primo lockdown. Era in una forma davvero embrionale e appuntato con tutt’altri suoni. Ma c’era già qualcosa e fin da subito ha trovato posto nella sequenza della stazione. Lì è rimasto fino alla fine.
Verso la fine c’è un canto distorto di cui è impossibile capire le parole. Questa voce umana cerca di dirci qualcosa, ma non ci riesce o forse siamo noi che non capiamo. Eppure il sentimento arriva ed è qualcosa di straziante e al contempo confortante. Come mai hai voluto usare questo effetto? E cosa dice quel canto?
Dice questo: “E i poveri figli bevvero vino sporco / E udirono le voci lontane di cani affamati da guerre vicine / Lentamente la nuova neve cadde sui campi desolati / Lunga fu la fine, vuota fu la città veduta / Per vecchie donne stanche e bambini nati ferocemente da padri senza dolore / Buio mare senza pace / L’uomo fu nutrito / Buio mare senza pace / E ora piangiamo la casa che bruciò / Il corpo malato venduto per poco grano / Lunga fu la caduta, lungo il silenzio / Lunga fu la fine / Buio mare senza pace / Gelide acque di un buio mare senza pace”.
Molto bello. Perché hai deciso di renderlo inintelligibile?
Perché se lo avessi cantato in italiano, con la voce bene in evidenza, avrebbe acquisito una rilevanza eccessiva e scomposta rispetto alla narrazione e alla poetica del film.
In alcune scene più forti, il riconoscimento dei morti per strada credo a Bucha, i cadaveri straziati, le macchine da guerra e i loro effetti, la musica è una pulsazione nera, gli intervalli melodici sono ridotti, come se non ci fosse melodia adatta a raccontare quelle scene.
Quella lunga sequenza di cadaveri è stata senza dubbio la più difficile da affrontare musicalmente. Qualsiasi cenno melodico la rendeva immediatamente patetica e retorica, e una certa cupezza armonica la drammatizzava in modo didascalico e paternalistico. Quello che ho fatto, quindi, è stato muovermi senza alcun riferimento ritmico su due soli accordi maggiori separati da un intervallo di quarta, costruendo su questo telaio informe una stratificazioni di synth molto saturi e spesso fuori armonia. Il risultato mi pare restituisca un profondo senso di pietà, che è quello che cercavo.
Alcuni temi melodici però ci sono, quello iniziale, quello bello e triste che si sente dopo il racconto dell’uomo sui cecchini e sull’auto, e soprattutto quello del finale che suona quasi come un inno funebre. Me ne parli?
Credo di averlo scritto immaginandolo già come chiusura del film. Suona come un inno funebre, sì, e come ogni inno funebre si propone non solo di decretare una fine, ma anche di accompagnare il passaggio a qualcosa che sia altro. Per questo il film finisce con questo tema su una splendida distesa di girasoli.
È quest’ultimo il primo brano che sarà estratto dalla colonna sonora di Lirica Ucraina?
Non l’ho ancora deciso in verità. Penso sceglierò fra Ancora guerra e Fuggire.
Veniamo alla tua nuova etichetta Il suono attraversato. Intanto, perché questo nome?
Il nome della collana ha un duplice significato: il mio suono attraversato dalla poetica e dallo sguardo di altri autori, e il suono che in tutti questi anni ho attraversato, tutte le sue evoluzioni.
E cosa ti ha spinto a voler raggruppare questi lavori?
Ho in mente da tanti anni di pubblicare tutto il materiale accumulato, anzitutto perché dentro ci sono tante idee di cui sono soddisfatto e che voglio vengano ascoltate. Poi perché questi lavori svelano tutta una serie di passaggi intermedi fra i miei dischi in studio.
Berlinguer è la tua ottava colonna sonora, Lirica Ucraina la numero sette. Le precedenti usciranno tutte prima o poi?
Sì, pian piano usciranno tutte.
Quali sono?
Fra il 2013 e il 2015 ho scritto le musiche per due spettacoli teatrali (Tomato Soap e YOU) della compagnia Manimoto. Nel 2017 ho sonorizzato un’opera di Edoardo Tresoldi all’interno del festival Derive. Ho realizzato cinque documentari con Francesca Sironi e Alberto Gottardo, tre lunghi (Follow the Paintings nel 2017, Marghe e Giulia nel 2019, Fortuna Granda nel 2022) e due corti (Due di loro e Lodi primo soccorso, entrambi nel 2020). Nel 2020 ho anche sonorizzato un filmato dell’Homemovies di Bologna. Nel 2021 ho sonorizzato, in tre occasioni e sempre all’alba, un film muto di Alessandro Gagliardo che abbiamo intitolato Sacramento. Nel 2022 ho scritto un brano per la serie Briganti e uno per il film di Alessandro Gagliardo e Enrico Ghezzi intitolato Gli ultimi giorni dell’umanità. Dal 2022 ad oggi, infine, ho scritto tre colonne sonore di fila: per I diari di mio padre di Ado Hasanovic, per Lirica Ucraina, per Berlinguer. La grande ambizione.
Tempo fa, quando abbiamo intervistato Franco Micalizzi, parlando dei compositori per il cinema ha detto che «la fame aiuta», nel senso che ti porta a lavorare, ad affrontare progetti vari, anche a uscire dalla tua zona di comfort e magari scoprire qualcosa facendo un lavoro non considerato nobile. E tu perché in definitiva scrivi musica da film?
Anzitutto la scrivo perché me la chiedono, e fra le tante cose che mi chiedono questa è una delle poche a piacermi e che non rifiuto. E mi piace perché mi dà la possibilità anzitutto di confrontarmi con una poetica non mia.
Quanto è importante per te confrontarsi con altre poetiche?
Non è fondamentale, nel senso che si può essere autori e musicisti anche senza collaborare con altri o scrivere musica applicata. Farlo comporta inevitabilmente il confronto con la poetica e il metodo di altri autori, e questo è enormemente arricchente.
I tuoi sono dischi-mondo in cui è facile perdersi. Ci si mette un po’ orientarsi, al contrario delle musiche di Berlinguer. Scrivere colonne sonore significa rifiatare, esprimersi in un altro modo, con un linguaggio che è sempre quello, ma diverso? E magari misurarsi con un lavoro meno estenuante di quello necessario per mettere assieme un disco come IRA?
Quando lavoro a qualcosa, qualsiasi cosa, che si tratti di scrivere un mio disco o una colonna sonora o di lavorare come produttore per altri, metto tutto me stesso, in termini di tempo e dedizione. Quindi qualsiasi lavoro finisce per essere estenuante, purtroppo o per fortuna.
Direi per fortuna, almeno per noi che ascoltiamo. Negli ultimi anni hai pubblicato un disco con Paolo Angeli, un live pieno di cose inedite, colonne sonore, poche canzoni dicamo così tradizionali. IRA è del 2021. Stai pensando a un disco di canzoni? Se sì, a che punto sei?
Ci sto pensando da anni, ma non ho ancora iniziato a lavorarci. Dovrei riuscire a farlo dalle prossime settimane.
Mi puoi dire qualcosa di più? Hai un progetto, un’idea di massima di dove andrai a parare questa volta?
Ho sempre un’idea chiara di dove andrò a parare. Ovviamente non so tutto, per fortuna, e col lavoro quotidiano tutto si trasforma tra le mani. Ma riesco, nello stupore, a rispettare sempre l’intuizione iniziale.
La musica è diventata anche competizione in un sistema che sembra apparentemente florido. E però lo streaming ha riorganizzato il mercato, c’è stata una ridistribuzione delle risorse dai creativi ai giganti tecnologici, la gente si è abituata ad avere la musica registrata gratis o quasi, e così le canzoni sono l’esca per farti seguire il profilo Instagram coi consigli per gli acquisti. Il cantante diventa influencer forse per necessità, forse per avidità. Come le osservi queste cose, tu che stai fuori da queste logiche?
Il cantante diventa influencer anche – o forse soprattutto – per vanità. Credo che la vanità possa essere più forte di necessità e avidità. E i social network si reggono anzitutto sulla vanità, perché sono il luogo in cui ognuno può mettere in scena se stesso e, rappresentandosi, guardarsi. Io vedo tutto ciò da lontanissimo e dall’interno allo stesso tempo, inevitabilmente.
Ma a te chi te lo fa fare di investire fatica e studio nei dischi oggi, nel 2024, quando con una foto con un orologio al polso un cantante guadagna più che da un album ascoltato da centinaia di migliaia di persone?
Io sono un musicista, e questo significa una cosa banale ma determinante: per me scrivere musica, farlo nel quotidiano, è un fine esistenziale, non un mezzo. Ho scritto e scriverò musica anche senza tirarci fuori un soldo o senza nessuno ad ascoltarmi, perché scrivere musica è il mio modo di stare nel mondo, nel mio corpo, nella relazione con gli altri e lo spazio, nella storia. Molti fra coloro che si occupano di musica potrebbero fare qualsiasi altra cosa, perché il loro obiettivo è evidentemente un altro. E infatti non appena ne hanno occasione si occupano di altro. Possono fare dischi o posare per un brand, fare i giudici di un talent o promuovere creme. Tutto è sullo stesso piano, e infatti i risultati artistici sono nella quasi totalità dei casi fra il mediocre e l’irricevibile. Ecco, sono distante anni luce da tutto ciò. Vedo tutto, ma non mi riguarda.